C’è un ovvio elemento di garantismo dal quale sarebbe bene che muovesse ogni discussione intorno alla cosiddetta questione morale. Ma è vero che, rispetto alla velocità e all’imponenza con cui l’opinione pubblica, attraverso i media, viene raggiunta dalle notizie relative a indagini in corso, appellarsi al principio per cui nessuno è colpevole sino a sentenza definitiva, e a qualunque altro principio debba attendere la finale sanzione di qualche tribunale, suona vagamente derisorio. Poiché però la democrazia non ci guadagnerebbe se i giornali, per risolvere il problema (e risparmiare sui costi), licenziassero tutti i cronisti di nera, sembra che ci sia poco da fare, salvo incatenarsi dinanzi alla sede di un giornale, per far sentire la propria voce sui giornali.
In realtà, qualcos’altro da fare deve pur esserci, perché di sindaci incatenati in giro per l’Europa non ce n’è – e di procure che si sequestrano a vicenda le carte neppure –, il che lascia pensare che nei rapporti fra politica, magistratura e giustizia le cose qui da noi non stanno proprio come negli altri paesi, e che dunque non c’è da prendersela solo con lo spirito dei tempi e la caduta tendenziale del saggio di democrazia (o di moralità, o di tutte e due le cose). Proprio la clamorosa protesta del sindaco Domenici consente di mettere a fuoco almeno uno dei problemi che abbiamo. E di mettere sotto accusa la politica – attività che assicura sempre a chi la propugna un certo vento a favore – per ragioni però squisitamente politiche. Per ragioni che attengono cioè alla credibilità della politica e, poiché in politica le due cose non possono andar scisse, anche alla sua forza e al suo peso. Il sindaco Domenici è infatti anzitutto un sindaco, cioè uno dei protagonisti di quel nuovo assetto istituzionale che nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica avrebbe dovuto comportare un netto miglioramento dell’offerta politica del Paese, in ragione di un maggiore potere in capo alla figura del primo cittadino, che fece addirittura sognare a Mario Segni, per una breve stagione, l’avvento palingenetico del Sindaco d’Italia. Va da sé che un tale maggior potere doveva comportare la correlativa diminuzione di peso di tutte le altre istanze: dal Consiglio comunale alla Giunta ai partiti. I deprecabili partiti. Eccoci quindi al punto. Intervistato da Lucia Annunziata insieme al sindaco Iervolino, Domenici non ha auspicato che, come già accaduto sotto il fascismo, la stampa non diffondesse più notizie di nera; non ha chiesto di portare l’azione della cattiva magistratura sotto il controllo della politica e, nonostante l’incalzare dell’intervistatrice, non ha neppure inteso attribuire al gruppo editoriale contro cui protestava di prestarsi a qualche manovra occulta e inconfessabile. Ha espresso, molto più semplicemente, il suo voto: “Vorrei che il Pd diventasse finalmente un partito vero!”.
Un partito vero. Come dire: abbiamo provato i sindaci veri, liberi dall’impaccio di rispondere alle segreterie dei partiti, e li abbiamo lasciati alla mercé delle loro segreterie telefoniche, e di tutti quelli che possono farle squillare con qualche energia. Ovviamente, la colpa originale (colpa politica, beninteso) non sta nel fatto che il telefono squilli, e che qualcuno risponda, ma nell’aver allontanato troppo la voce di chi risponde dalla vera platea innanzi a cui si risponde, che in democrazia è formata dai cittadini. I partiti servono a questo. Le grandi organizzazioni collettive servono a questo. A non lasciare i sindaci nella posizione di utenti telefonici, e tutti i cittadini in quella di spettatori, poiché in tal caso è fatale che i giornali cerchino lo spettacolo, e quale spettacolo migliore di un’inchiesta giudiziaria condita da indiscrezioni, intercettazioni, e vociferazioni varie? E come meravigliarsi se anche un sindaco sia costretto a dare spettacolo, perché la sua voce faccia sufficiente clamore e non sia alla mercé di chi lo spettacolo lo organizza?
Tutto il resto ci vuole. Ci vuole la riforma della giustizia perché è evidente che qualcosa non funziona. E ci vogliono i codici etici e i codici deontologici e ogni altro codice piaccia all’umana fantasia di inventare. Ma senza una qualche idea del senso storico e politico della funzione dei partiti, l’interpretazione in chiave para-giudiziaria delle vicende del paese apparirà l’unica maniera di dare un senso alla lettura quotidiana dei giornali, e le questioni morali e le grane giudiziarie e persino le umane bassezze continueranno a tenere banco.
Io però mi chiedo, e giuro di non sapere la risposta: siamo sicuri che quei cittadini i partiti veri li vogliano ancora? Cioè, che abbiano tempo e voglia di far parte di grandi organizzazioni collettive che concorrano con metodo democratico a determinare la politica nazionale, e non preferiscano invece fare da spettatori? E comunque, una volta morti in Italia i partiti con milioni di iscritti – e lasciamo stare se per omicidio, suicidio o morte naturale – sarà possibile farli rinascere così, perché si è convinti che quella è la forma partito giusta? Davvero, me lo chiedo.
Anch’io non conosco la risposta. Però, a naso, mi muoverei in una direzione che scoraggi la posizione dello spettatore. Fossi poi convinto di quale sia la forma giusta, non l’avrò solo in virtù di quella mia convinzione, ma non si vede perché non debba cercare di favorirla. A meno che non sia convinto che non c’è verso: ma allora quella, almeno per un parahegeliano come me, non è la forma giusta. Ho risposto peraltro sulla logica della domanda, non su quale sia la forma giusta. E’ più facile infatti dire quale non lo sia: quella attuale.