Provo a rispondere alle domande rivoltemi non più tardi del maggio scorso (sono celere con le risposte, come vedete) in questa ‘lettera aperta’ che seguiva le giornate della Scuola di Camerota, e un breve contributo apparso su 2/2008 di Italianieuropei.
Cerco di farlo il più brevemente possibile (tanto se ne riparlerà).
1. "Non condivido la liquidazione della razionalità liberaldemocratica a metafisica fra le tante". Neanch’io la condivido: e infatti non la sostengo. Dire che ci vuole una bella metafisica alle spalle della razionalità liberaldemocratica perché questa funzioni (una metafisica alla quale han lavorato in tanti, da Descartes in poi), non vuol dire che è una fra le tante possibile, e che tutte per me pari sono.
Ho poi molti dubbi sull’idea che il relativismo falsificazionista (che dopo tutto si riduce esso pure a un insieme di regole) non abbia bisogno per funzionare di qualcosa che non sta dentro quelle regole, e non mi riesce quindi di capire quale autonomia dal campo della metafisica possa vantare. Naturalmente bisogna intendersi sulle parole, per esempio sulla parola metafisica. Se è metafisica solo una roba che fa affermazioni su Dio, allora d’accordo: il falsificazionismo non ce l’ha. Ma se le distinzioni ricordate nella ‘lettera aperta’ (formale/materiale; essere/dover essere, ecc.) sono, come credo, distinzioni metafisiche, distinzioni in cui ne va cioè, come direbbe taluno, del senso d’essere dell’ente, allora non sono affatto d’accordo sull’autonomia di alcunché.
2. Se così stanno le cose, cade anche questa seconda obiezione: che io e Mario e voi tutti siamo infatti d’accordo su cosa sia e su come funzioni la razionalità procedurale rende sicuramente plausibile che sia questa proceduralità la migliore (non direi l’unica) fonte di legittimazione delle regole. Ma appunto plausibile, in un determinato contesto in cui io e Mario condividiamo un sacco di cose, prima di convenire su ciò che è plausibile e ciò che non lo è. (E la cosa peraltro finirebbe là, e finisce effettivamente molto spesso, se non ci fossero però casi in cui questo convenire non basta più, o si restringe).
3. Qui chiedo: a quale senso di giustizia ti appelli, per porre la domanda che poni? La giustizia di Rawls, peraltro, non mi entusiasma affatto, e visto che scrivo dopo la giornata De Martino, domando banalmente: credi tu che sarebbe bastata ai contadini meridionali che De Martino incontrava "oltre Eboli"?
ti ringrazio moltissimo per le risposte, tardive sì, ma puntuali nei contenuti.
citavo ieri gennaro sasso (direttore non dell iisf ma dell’istituto per gli studi storici, mea culpa) che definisce, forse in maniera un po’ racchia, il relativismo come “assenza di un centro costituito come verità”. ecco, in tal senso mi sembrava che, prendendo atto della fallibilità degli esseri umani e – quindi – della soggettività del loro giudizio, si sganciasse l’epistemologia relativista non soltanto dalle metafisiche che riguardano le affermazioni e le negazioni su dio, ma anche su ciò che riguarda la determinazione della giustizia, del bene e del male, o della natura delle cose. allora il relativismo funzionerebbe “negativamente” per manifesta inferiorità della ragione umana: laddove non posso raggiungere una verità logicamente conclusiva e definitiva, metto dei paletti perché nessuna delle verità provvisorie possa prevaricare le altre (l’autolimitazione dei diritti). nemmeno posso coerentemente definirmi ateo, insomma, ma semplicemente agnostico.
tutto ciò, a scanso di equivoci, implica il pluralismo ma non l’equivalenza di ogni etica, di ogni cultura, di ogni morale; semmai pone il problema di come escludere l’intolleranza.
per ciò che riguarda il “funzionamento pratico” (se ho capito bene) di quest’impianto, non dubito che si tratti di un castello di carte – e se un contadino ebolitano (si dice così?) ci soffiasse sopra, non potrei biasimarlo affatto, anzi. ma mi ero finora mantenuto (colpevolmente) solo su un piano concettuale, che nemmeno teneva conto della giustissima considerazione sui contesti che influenzano la ragionevolezza. tuttavia credo che se è lecito aspirare all’universalità, o quantomeno inquadrarla come un orizzonte pur irragiungibile, la teoria della giustizia di rawls resti imbattuta nella sua formalizzazione.
o meglio, volevo dire nella formalizzazione del contratto sociale.
infine, per passare dalla forma alla sostanza, cito il mio personale: aspiro alla piena autonomia morale (non solo mia, naturaliter). ora non saprei dire, dopo le tue risposte, se tale principio scaturisca dal metodo appena discusso o se non sia il contrario, o se non si possa trovare soluzione di continuità tra metodo e merito (il medium è il messaggio!).
tanto per mettere le mani avanti, rinnovo le mie scuse se ho maneggiato impropriamente il linguaggio o i contenuti della filosofia, e ti ringrazio per gli spunti di riflessione.
ci vediamo presto