Torno sull’articolo scritto per Left Wing, Il significato della fame, a motivo delle considerazioni di G. (via mail). Di seguito la mia risposta:
G.:
Sulla vitalità della povera Eluana [nelle condizioni che hanno preceduto il distaco del sondino naso-gastrio] non solo la Chiesa, ma nessuno sa dire nulla. In questo la sconfitta dei laici, così come della scienza, è radicale tanto quanto quella della Chiesa: della povera Eluana che fu, nessuno può dire se fosse ancora viva o già morta. E quindi il tuo ragionare di fame e di sete finisce per essere sofistico: Ruini non potrà dimostrare che Eluana fosse in grado di sentire fame o sete; ma tu non puoi dimostrare il contrario, e torniamo alla casella 1.
M. (cioè io):
Ci deve essere un equivoco di fondo […]. Io so dimostrare che cos’è fame e sete in tutti gli usi ordinari del linguaggio. La pretesa (non direi sofistica, ma diabolica: da genio maligno cartesiano), di avere un filo conduttore più robusto di quello che ti è offerto dalla vita che vivi ti getta nella situazione di dubbio très métaphysique in cui nessuno sa più dire nulla: né Ruini né io. Se la mia è fame (e questa mia in realtà non è una fame individuale e privata: sto usando Husserl e Wittgenstein, per capirci), quella di Eluana non lo era. Naturalmente, questo è solo uno schema, che quindi semplifica e banalizza, nulla di più. Ma il punto fondamentale (a cui dovremmo tenere un po’ di più, a parer mio) è: non c’è altro modo di dare senso alle parole, che non sia attingerlo là dove hanno senso. La colonizzazione dei mondi vitali da parte della scienza è tale, per cui neppure tu confidi su ciò che sai, per dire cosa sia fame (e uomo e vita). E’ fame, quella che senti? E’ vita, quella che vivi? O credi che sia solo un’apparenza di fame (e di vita), e aspetti di sapere dalle analisi cliniche se i livelli di glicemia siano tali che si possa parlare di fame (o dalla biologia di tuo figlio di sapere se devi amarlo)? Il genio continua la sua opera. E perché sia evidente il disastro, ti invito a considerare che se io ti obiettassi: ma come fai tu a sapere che io ho fame, quando ho fame (e persino: come faccio io stesso a non ingannarmi quanto al fatto che ho fame), la risposta migliore dovrebbe essere, in coerenza con quanto dici: me lo dice il livello di glicemia. Parla per me il livello di glicemia. A te va bene, che sia così? Eluana non poteva certo dire in prima persona di aver fame, ma poteva dirlo la comunità degli uomini che hanno fame. Si può credere quel che si vuole, ma un’istituzione come quella ecclesistica, con la teologia, la filosofia e l’antropologia che si ritrova alle spalle, dovrebbe pensarsi cento, mille volte prima di lasciare che sia la scienza a dare significato all’aver fame, in mancanza della voce di prima persona che lo dica.
Naturalmente, nulla di male se lo scienziato pensa così. Fa il suo mestiere. Molto male è lasciare che quello della scienza sia l’unico discorso su ciò che è (fame). Questo è il punto. Io invece ho una fenomenologia della percezione, e la ritengo persino più fondamentale di qualunque sustruzione scientifica. (E posso persino provare a spiegare come ‘funga’ anche nei discorsi della scienza, che per spiegare cos’è fame devono perlomeno presupporre quella percezione di fame che debbono appunto spiegare).