Archivi del mese: marzo 2009

La metafisica della gioventù (beffata dal Pdl)

Se stiamo alla superficie delle cose, abbiamo un partito appena nato, il Popolo della Libertà, che ha celebrato il suo primo congresso e ha nominato all’unanimità un Presidente nella figura di un ultrasettantenne. Un leader che, come ha scritto sul Corriere della sera Ernesto Galli della Loggia, è “tutto immerso, biograficamente e culturalmente, nella prima Repubblica”. E cioè in una cosa che, almeno secondo la pubblicistica corrente, sarebbe morta quindici anni fa o poco più. Dall’altra parte abbiamo un partito, anch’esso di recente formazione, il Partito democratico, che però, a differenza del primo, non ha ancora risolto i suoi problemi con l’età: s’è dato da poche settimane un segretario se non proprio giovane almeno giovanile, ma è incalzato dall’opinione pubblica che chiede di svecchiare drasticamente l’intera classe dirigente e sembra quindi non potersi contentare, nella corsa al rinnovamento, di un leader che sia meno che biondo e bello e di gentile aspetto, per dirla col sommo poeta.
(continua su Left Wing)

Mood

Non ho voglia di scriver nulla

E se prima erano in otto

Adesso sono in nove.

In cerca di giovani leader

L’attenzione è ora tutta su Debora Serracchiani, ma io sono un po’ indietro e solo stasera ho guardato il profilo di un altro giovanissimo leader, di cui s’è parlato molto e molto ancora si parlerà: Giuseppe Civati, su cui però posso già esprimere una seria valutazione:

ha dalla sua, insieme a vari altri titoli, laurea e dottorato in filosofia, il che lo renderebbe sicuramente il mio candidato ideale alla guida del PD, se non avesse ahimè, come Veltroni e come Franceschini, la colpa grave di avere scritto pure lui il suo primo romanzo. (Sul calcio, poi).
Ora: io sono per il rinnovamento, ma proprio perciò il prossimo segretario del PD deve lanciare un chiaro segnale di discontinuità e rinunciare ad avere dalla sua un romanzo o – aggiungo, a scanso di equivoci – una raccolta di poesie, da chiunque prefata.
(Insomma: non possiamo andare avanti che il centrodestra candida uomini che hanno raccolto in giovane età il loro primo miliardo di lire, mentre il centrosinistra esibisce prime, temo ancora acerbe prove letterarie).

Regole per salvare l'identità on line

Che ve ne pare della ripetizione? Vi piacciono gli originali, le tirature limitate, odiate le copiee diffidate delle imitazioni? Allora non è che semplicemente siete lettori della Settimana Enigmistica, il giornale che vanta innumerevoli tentativi di imitazione, ma è che vivete proprio nell’epoca sbagliata. Perché dalle fotocamere ai videofonini, dagli mp3 ai canali satellitari, questa è l’epoca della riproducibilità tecnica, della moltiplicazione, della proliferazione – e naturalmente anche della contraffazione. In un’epoca del genere, può capitare che qualcuno si registri su un social network, ad esempio su Facebook, col vostro nome e cognome (e magari ci metta pure una vostra foto). Da quel momento in poi, una vostra copia virtuale potrà farne di cotte e di crude, in rete, prima che vi accorgiate dell’imbroglio e lo denunciate. Può succedere anche che qualcuno vi riprenda per strada con un cellulare, o in qualche luogo meno conveniente con una telecamera nascosta, e riversi poi su Youtube il filmato. E per quel canale, o per qualunque altro canale di condivisione di file, un numero illimitato di copie di voi stessi potrà circolare incontrollato nel web, che lo vogliate o no.

Non c’è scampo, tracce della nostra esistenza sono ormai ovunque. Si può esser sicuri che esiste già, da qualche parte, un pezzettino di noi digitalizzato e illimitatamente riproducibile: una voce, un immagine, una notizia che gli onnivori motori di ricerca sono pronti a mettere a disposizione di chiunque. E come le popolazioni indigene, a contatto con gli esploratori europei, rifiutavano di farsi fotografare perché temevano che la fotografia strappasse loro l’anima, così noi oggi temiamo il furto di identità on line, con la complicazione che ben difficilmente possiamo sottrarci ad esso. Quando poi qualche potere pubblico, per il rispetto di qualunque diritto sia stato nel frattempo violato, vorrà provare a cancellare questo enorme archivio di segni, sarà come svuotare il mare col secchiello: e in ogni caso tutto quello che nel frattempo sarà stato scaricato nelle private memorie dei personal computer si sarà sottratto facilmente ai controlli.

Che ora il governo italiano, per bocca del ministro Alfano, stia pensando a come mettere ordine nel mare magno della rete è cosa del tutto comprensibile, se non altro perché spazio virtuale non è sinonimo di zona franca, e il rispetto delle regole deve valere tanto per le strade della città quanto lungo le autostrade telematiche. Ma, come diceva Musil, non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno: è bene quindi lasciar perdere l’idea che le maglie della rete vadano serrate con lo strumento della legge penale, anche perché non risulta affatto dimostrato che un incremento significativo di reati sia direttamente proporzionale alla libertà di accesso alla rete.

Resta il fatto, si dirà, che in rete si trova di tutto. Il che è vero, come è vero però che di tutto si trova anche nel mondo. L’importante, piuttosto, è sapere dove ci si trova: mettere non divieti, ma se mai un po’ di segnaletica. Dopo di che, è dai tempi di Platone che si tengono in gran dispetto copie, duplicati e riproduzioni: siccome però non c’è modo di evitarle, perché tutto nell’ambito del sapere e della cultura in generale si basa sull’educazione, cioè sulla trasmissione, quindi sulla riproduzione, l’accigliato filosofo cercò in ogni modo di distinguere le copie buone da quelle cattive, quelle che a suo dire rispettavano l’idea (oggi diremmo: i valori) da quelle che invece la sfiguravano. Fatta la distinzione (e non è semplice), avrebbe voluto ritirare dalla circolazione tutte le copie cattive, tutti i racconti bugiardi, tutte le immagini immorali e licenziose. La cosa però non poteva riuscirgli: troppo vasto era il programma. E soprattutto presentava un difetto non da poco: eliminando via via le copie cattive, eliminava anche la possibilità che ciascuno si eserciti nel compiere per sé la distinzione. Ora, che cos’è questa possibilità se non ciò che per secoli abbiamo chiamato anima? Partito col proposito di proteggerla, per eccesso di zelo, avrebbe finito in realtà con l’impedirne la fioritura, che si realizza solo nell’esercizio individuale. Fuor di metafora, e adattando ai tempi: il decoro generale si paga a prezzo del grigiore generale.

Il punto non è dunque se non si debbano limitare gli eccessi, ma come limitarli. Se qualcuno li elimina per tutti, nessuno salvo uno avrà più una cultura del limite. E quell’uno, peraltro, la perderà facilmente, non essendovi nessun altro che potrà limitarlo. Certo, della rete fa spavento anzitutto la dimensione. Possiamo con un clic accedere a miliardi di documenti, file, siti: chi potrà mai scrutinare, ispezionare, controllare questa spropositata mole di dati? Preoccupiamoci allora di regolare il traffico generale, ma soprattutto di affinare il controllo di qualità all’ingresso della nostra anima. Dopotutto, almeno la sua capienza non è aumentata né diminuita di molto.

(Il Mattino)

Oggi vi regalo una proposizione hegeliana (voglio vedere se vi impressionate)

"Se ci si voglia immaginare un che di assolutamente stupido o ignobile, su questo un intelletto superiore, oppure ciò che è nobile, non può fare alcuna impressione".

(G. W. F. Hegel, Scienza della Logica, Dottrina del concetto, sez. II, cap. I, lett B, sub b: Il processo meccanico reale)

Io poi mi lamento dei rumeni

Dico: dell’informazione sui rumeni, la cui nazionalità viene sempre sottolineata quando si tratta di furti stupri e altre corbellerie. Oggi mi arriva via mail la newsletter del giorno Il punto a mezzogiorno. Notizie del basso Lazio (che già così è una roba da basso Impero), e lo strillo della prima notizia è il seguente:

Cassino – Studentessa rischia di essere stuprata da un sanvittorese nel bagno della stazione.

Aggredita da un sanvittorese, da uno di San Vittore, da uno che abita a 9 km da Cassino, e che agli occhi dei cassinesi deve rappresentare veramente l’extra-comunitario più extra che si può. Visto che poi, a leggere la notizia, si apprende solo che costui risiede a Cassino. Ma non basta: reca il marchio di infamia dell’origine straniera.

Del passare oltre (e dell'essere oltrepassati)

Come sempre, Bruno Forte dice cose di grande intelligenza, a conferma che è uno dei teologi migliori che abbia oggi la Chiesa cattolica. Così anche nell’intervista raccolta dal Foglio, sabato.
Voglio però soffermarmi su un passaggio, quello nel quale rimprovera a Vito Mancuso di avere scritto che "l’esercizio della ragfione è per definizione laico, non ha a che fare con l’obbedienza della fede e il principio di autorità".
Forte non è d’accordo. Così si dice laicità e si intende autonomia, e non è bello. Perché è questa ragione laica qua, non aperta a ciò che la trascende, non aperta al mistero, non ridimensionata dalla fede, che è all’origine di una tragedia come il nazismo, secondo l’insegnamento di Romano Guardini che Forte riprende.
Due cose. La prima. C’è mai stata qualche tragedia storico-politica di cui si sia resa responsabile la ragione alleata alla fede, di cui parla invece Forte? Sì, molte. E allora: come la mettiamo? Imputare alla ragione autonoma il nazismo è un poco nobile argomento, e si presta a ritorsioni – ancor prima di discuterne l’assai dubbia fondatezza.
La seconda, più di sostanza. Sia pure: la ragione non può fondare se stessa; di tutto può dare ragione meno che del fatto stesso della ragione. Ma un conto è essere aperti al mistero, un altro è amministrare questa apertura con le parole della fede cristiana, e anzi cattolica. Un conto è essere aperti al mistero, un conto è affermare che la fede salva la ragione, limitandola. Aggiungo persino: un conto è riconoscere un’eteronomia originaria, un altro è dare un nome a quella eteronomia (con la temibile conseguenza che, avendo un nome, possa essere l’autonomia di qualcun altro). Quel che sorpassa la ragione può ben essere una certa qual infinità, non è detto sia l’Infinito. Il "riconoscimento di un’ulteriorità che supera" la ragione è una figura, non la figura dell’apertura della ragione. E quel che supera può persino essere una qualche inferiorità: stare in basso e non in alto, chissà.
Insomma passare dal problema dei limiti della ragione allo spazio che la supera va bene, nonostante le riserve che mantengo sul verbo superare. Ma restringere quello spazio in modo che sia occupato solo dalla fede, questo va decisamente meno bene (e non faccio neppure l’obiezione delle molte fedi, ma solo e proprio l’obiezione che non c’è solo la religiosità di fede).

Il testo dell'articolo di oggi su Il Mattino

Ora che il ministro Tremonti ha raccomandato di leggere la Bibbia per cercavi, in questi tempi di crisi, quella lezione di saggezza che non si trova più nei libri di economia, vien fatto di domandarsi se non si tratti, in fondo, di un ritorno alle origini. Non già nel senso che le origini dell’economia politica moderna stiano nella Bibbia, sarebbe troppo, ma nel senso che si trovano, invece, insieme alla nascita e alla giustificazione di uno spazio economico autonomo, in una lunga tradizione di filosofia morale alla quale apparteneva lo stesso scopritore della mano invisibile del mercato, Adam Smith. Il quale si era occupato, prima ancora che della ricchezza delle nazioni, dei fondamenti morali dei sistemi economici e sociali: su di essi poggia, per Smith, una socialità originaria fra gli uomini che il mero perseguimento degli interessi individuali non può produrre da solo.
Il che non toglie che qualche robusta sentinella, a guardia dell’affidabilità e della credibilità degli attori economici e finanziari, ci voglia eccome. Nella Bibbia sta scritto, in effetti: "l’anima mia attende il Signore/più che le sentinelle l’aurora", il che significa che se anche la sentinella continua a vedere la notte attorno a sé, se anche il Fondo Monetario Internazionale prevede per quest’anno una crescita negativa del PIL mondiale, come non succedeva dal ’45, cioè dai tempi della guerra, non bisogna tuttavia rinunciare a cercare con fiducia l’aurora nel cuore della notte. L’ottimismo di Berlusconi ha dunque un fondamento biblico.
Ma resta che le sentinelle poste di vedetta nelle istituzioni internazionali, nelle banche centrali, nelle autorità di vigilanza, non è che abbiano vigilato gran che, in questi anni. E non perché fossero distratte, ma probabilmente perché hanno preso a dubitare che vi fosse seriamente qualcosa da vigilare. Se infatti nei libri di economia (non in tutta la scienza economica, ma in quella che ha dominato negli anni della globalizzazione ruggente) si legge non solo che il mercato obbedisce a una logica autonoma e alle sue proprie leggi, le quali dovrebbero dispiegarsi senza troppi interventi da parte dei poteri pubblici, ma che addirittura esso secerne e distribuisce con generosità anche le risorse politiche e morali che sono indispensabili al suo virtuoso funzionamento, è chiaro che viene meno la ragione stessa per esercitare qualunque azione di vigilanza. Niente più sentinelle, dunque, e in assenza di regole ognuno cerchi quel che è meglio per sé. Ne verrà il bene per tutti.
Ma non ne è venuto, purtroppo, come più d’uno scopre oggi sulla sua pelle. Per ricostruire allora, ancor prima dei capitali finanziari, il capitale morale di cui qualunque istituzione ha bisogno, compresa quella del mercato, l’Occidente deve tornare ad attingere, dice Tremonti, ai suoi ingenti giacimenti di saggezza. Costituiti peraltro non solo da parole divine, le quali, indubbiamente autorevolissime, hanno però il difetto di provenire sempre un po’ troppo dall’alto, rispetto al basso in cui si trovano di conseguenza relegati i destinatari, ma anche da parole mezzo divine e mezzo umane, come i mitemi che sofisti e filosofi amavano raccontare per accreditarsi presso i loro concittadini.
C’è ad esempio il bel mito di Prometeo narrato da Protagora nell’omonimo dialogo platonico. Epimeteo ha distribuito con larghezza agli animali un bel po’ di doti naturali. Distratto, ha lasciato però l’uomo, che ancora deve nascere, privo di tutto: nudo e inerme. Allora il fratello Prometeo ruba agli dei il fuoco e la perizia tecnica. Per difendersi dalle fiere, però, occorre pure che gli uomini si uniscano fra di loro; accade tuttavia che appena si mettono insieme, subito commettono ingiustizia gli uni verso gli altri. Ingiustizia il cui nome generale è "pleonexìa", la brama di voler avere sempre di più anche a scapito degli altri: il motore di ogni accumulazione, insomma.È così che Zeus pensa bene di inviare Ermes presso gli uomini perché doni loro il rispetto e la giustizia, i fondamenti morali dell’ordine pubblico, quel surplus di virtù politica che l’esercizio privato delle arti e dei mestieri non potrebbe mai assicurare. E alla domanda di Ermes su come procedere alla distribuzione di quei beni Zeus risponde che non avrebbe dovuto fare come con le altre arti, la cui competenza era stata riservata solo a pochi: non esisterebbero città, osserva infatti Zeus, se solo pochi uomini fossero dotati di rispetto e giustizia. Così, concludeva Protagora tirando la morale della favola, solo quando si parla di politica accade che tutti prendano la parola, mentre in tutti gli altri ambiti regnano competizione, privilegio e differenza.
Dal tempo di Protagora alla crisi dei nostri giorni le cose sono cambiate, non c’è dubbio, ma visto che è diffusa l’esigenza di riscrivere le regole del capitalismo globale, per imbrigliare la pleonexìa degli attori finanziari, e visto che questa riscrittura deve farsi guidare da principi di giustizia, non sarà male ricordare che i loro depositari restano i cittadini, tutti i cittadini, e che è per restituire loro questa funzione politica, oscurata dal solo profilo di consumatori o clienti con cui sono stati negli scorsi anni presentati sulla scena pubblica, che si deve tornare a leggere non so se la Bibbia, sicuramente qualche buon classico di scienza politica.

La Bibbia la crisi le sentinelle

Oggi, su Il Mattino (disponibile dopo le 14).

(Voi però ricordate il caso Della Loggia? Devo dire che questa volta rischiavo di incapparvi io. Per fortuna mi sono accorto in tempo dell’uscita dell’articolo di ieri di Michele Salvati, e ho tolto di mezzo Isaia, accontentandomi del Salmista. Ma se non me ne fossi accorto – dopo le 18.41, com’è chiaro dal post precedente – il Corriere si sarebbe preso una bella rivincita)

Ore 18.41

Mi accorgo alle 18.41 che stamane l’edicolante mi ha rifilato una copia del giornale di ieri. Poi vi lamentate che il blog langue.

Teoria istituzionale dell'agire sociale/2

Venerdì. Laboratorio di analisi. Papà abbastanza ingolfato, figliola con tanta voglia di chiacchierare. Lunga attesa.
– 35! -.
Tocca a noi. Ci alziamo, ed entriamo nella Sala prelievo. Togliamo i cappotti.
Dottoressa: – Vuole tenere sua figlia in braccio? -:
Io: – Non c’è bisogno. Comunque: Renata, vuoi sederti in braccio? -.
Dottoressa, voltandosi: – Renata? Ma lei…? Sua figlia è Renata, vero? -.
Io: – Sì -:
Dottoressa: – Ah. Ma noi ci conosciamo. Lei è il marito di…? -:
Io: – Di Barbara -.
Dottoressa: Sì. Renata… Renata è una bambina molto matura, si vede. E poi gli altri due come si chiamano? Enrico…? -.
Io: – Enrico e Mauro -.
Dottoressa: – Io li sento sempre, sa? Io sono la dottoressa che abita sopra casa di sua suocera. Stamane mi ha chiamato… -.
Io: – Ah, sì, mi ha detto. Lei sente soprattutto Mauro, il più piccolo -.
Dottoressa: – Sì, sì. Certo che sua suocera è una santa donna. Lei ha una suocera d’oro, sa? Veramente una suocera d’oro -.
 

Teoria istituzionale dell'agire sociale

Se io ho la febbre, Renata ha la febbre, Mauro ha la febbre, Barbara è a Cagliari e di sana e robusta costituzione resta il solo Enrico (che la febbre l’ha già avuta), come non pensare a una istituzionalizzazione della figura della suocera?

Tradizioni

Si apre domani a Firenze, alla presenza del Presidente della Repubblica Napolitano, un importante convegno su Eugenio Garin, considerato il massimo, o uno dei massimi storici della filosofia italiani del Novecento.
Giudizio fondato, perché i meriti di Garin sono indiscutibili. Ma si può dire che nel suo lavoro la risoluzione della filosofia in sapere storico è senza grandi speranze per la filosofia? O almeno così a me è sempre parso, per via di maestri che mi hanno fatto entrare in filosofia da tutt’altra parte, o che celebravano le nozze tra filologia e filosofia in tutt’altro modo.
Perciò auguri a tutti i convegnisti, che avranno modo di rivisitare una importante e gloriosa tradizione culturale italiana, ma siccome Garin riteneva che la filosofia non esiste, esistono solo uomini che di volta in volta cercano di capire i problemi del presente, posso immaginare che di filosofia in quelle auguste stanze ne circolerà ben poca.

Venghino signori Venghino

All’Università Pontificia Gregoriana si apre oggi, e durerà fino a sabato, un’importante conferenza internazionale su "L’evoluzione biologica: fatti e teorie". Mi limito a citare dalla pagina dedicata al tema della conferenza, con breve postilla finale:

"[La teoria neo-darwiniana] non va considerata né come una verità definitiva, che ne farebbe un’ideologia – proprio il contrario della scienza –, né come il suo opposto, come se fosse direttamente contrapposta ad una verità d’ordine religioso, per esempio. Si può, inoltre, discutere la questione di eventuali presupposti metodologici, quali il meccanicismo o un riduzionismo radicale, che forse potrebbero avere contaminato detta teoria in un senso più filosofico che non prettamente scientifico.

"Per tale ragione, il secondo piano da considerare attentamente, ben distinto dal piano delle scienze positive, è quello della riflessione filosofica; sia a livello epistemologico – in merito a quale sia veramente lo statuto epistemologico del neodarwinismo, per esempio –, sia a livello di una filosofia della natura di stampo critico, che possa riflettere adeguatamente sulle numerose implicazioni filosofiche dell’evoluzione delle specie in genere, come della teoria sintetica in particolare.

D’altra parte, solo un’adeguata riflessione filosofica può articolare, senza confonderli, i piani della scienza da una parte, e della fede o della teologia dall’altra. Quella filosofica deve quindi precedere logicamente la riflessione teologica sul fatto dell’evoluzione come sulle varie teorie che provano a spiegarlo. Nel campo proprio della teologia cristiana, il punto di partenza più ovvio sarà un’adeguata esegesi dei testi biblici che trattano della Creazione, a cominciare dai primi due capitoli del libro della Genesi. La distinzione dei generi letterari rimane una delle maggiori lezioni che possiamo, tra l’altro, ricavare da Galileo.

Intendiamo in questo modo evitare ogni opposizione frontale tra creazione ed evoluzione, nonché le polemiche suscitate per esempio dallo “Intelligent Design”, come se fosse una teoria scientifica alternativa al neodarwinismo. Un cristiano può credere nel disegno provvidenziale di Dio nella Creazione, senza farne una “teoria scientifica” concorrente ad un’altra: stiamo decisamente su un altro piano d’interpretazione. Questo però suppone, reciprocamente, che nessuna teoria scientifica si voglia erigere a spiegazione ultima della realtà, ciò che ne farebbe o una pseudo-metafisica, o una pseudo-religione – in ogni caso, il contrario della scienza".

Postilla. Queste posizioni hanno ai miei occhi un serio limite: per un verso sono ovvie, per un altro temerarie. E’ ovvio infatti che nessuna teoria scientifica si può erigere a spiegazione ultima della realtà, ma è temerario, in primo luogo, ritenere che questo basti a legittimare (se non a titolo di mera possibilità logica) qualunque altro genere di interpretazione della realtà, e, in secondo luogo non fare i conti con i problemi che ha la nozione stessa di spiegazione ultima, scientifica o no che sia.