E’ molto bello l’articolo di Marina Corradi su Avvenire. Lo dico senza alcuna ironia. Prende spunto da un’intervista all’infermiera di Udine che ha raccontato gli ultimi giorni di Eluana Englaro, e in particolare dal giudizio che l’infermiera ha espresso sul caso: sarebbe stato accanimento terapeutico, secondo lei, il tenere in vita Eluana per tutti questi anni.
E la Corradi si chiede come sia possibile, qual genere di rovesciamento della realtà e del suo senso deve verificarsi perché si chiami accanimento la cura amorevole prestata a Eluana dalle suore per anni e anni le sono state vicino. E scrive: "il darsi più totale e gratuito si vuol chiamare ‘accanimento terapeutico’, in questa Italia a forza liberata".
Ora però vi chiedo di leggere con attenzione l’articolo di Marina Corradi. In nessuna parola dell’articolo compare un qualunque riferimento alla volontà di Eluana. Semplicemente, la situazione morale che Marina Corradi descrive prescinde completamente dalla considerazione della volontà della persona oggetto di cura. Completamente. Ed è perciò che l’assistenza, praticata in un atto di donazione totale e gratuito, vale moralmente – dal punto di vista di Marina Corradi – solo ed esclusivamente in ragione di quel donarsi assoluto, ma non trova alcuna misura nell’eventuale volontà dell’assistita. E lo stesso, conseguentemente, per la nozione di accanimento, di cui si discute in maniera del tutto indipendente dall’elemento della volontà soggettiva.
Io mi domando non se Marina Corradi abbia o no ragione, ma come mai – visto che per fortuna qui si tratta di morale e non di scienza, e non c’è da riportare qualche definizione scientifica in materia – com’è possibile che Corradi non ci rifletta almeno un secondo su, prima di escludere che quella misura (che nella tradizione morale occidentale si traduce in rispetto, essendo il rispetto un limite anche dell’amore) abbia la sia pur minima rilevanza.