Archivi del mese: aprile 2009

Solidarietà un euro un minuto

Celebrare il 25 aprile a Onna, in un paese distrutto dal terremoto, è stato un gesto dal forte valore simbolico: una dimostrazione visibile della solidarietà dell’intero paese verso l’Abruzzo. Anche la decisione di tenere il G8 a L’Aquila non è solo la soluzione che consente di risparmiare milioni di euro; è anche un modo per far sentire tangibilmente vicinanza e solidarietà alle popolazioni colpite. Dalla notte del 6 aprile ad oggi c’è stato l’impegno di tutti e di ciascuno: dagli interventi della Protezione civile ai soccorsi dei volontari, dalla presenza delle istituzioni a quello dei singoli cittadini non si può dire che gli italiani non abbiano dimostrato partecipazione e solidarietà.

Già, ma che cos’è la solidarietà? Un valore perenne, si dirà. E si dirà giusto, nel senso almeno che è difficile immaginare un sistema di morale (e, quindi, un paese civile) che non apprezzi il gesto solidale con il quale ci si rivolge al prossimo per aiutarlo, al di là del proprio interesse, sul solo fondamento della comune appartenenza alla famiglia umana. Ciò non toglie che le forme in cui la solidarietà può manifestarsi siano storicamente diverse: ogni società ha i suoi modi per stabilire, anzitutto fra i suoi aderenti, vincoli di solidarietà.
Oggi, per esempio, la solidarietà si presenta con almeno un paio di caratteristiche un tempo pressoché sconosciute. La prima consiste nella visibilità che i gesti di solidarietà prendono più o meno necessariamente. Un po’ perché la società trasparente non consente, neanche volendo, di nasconderli; un po’ perché solo la solidarietà che si fa visibile, tangibile, riesce ad essere davvero efficace e credibile; un po’, infine, perché la capacità di una collettività di riconoscersi come tale sembra ormai affidata a poche occasioni, e i momenti di solidarietà sono tra questi (il che però sembra significare che c’è un interesse generale della società a che la solidarietà si manifesti fra i suoi membri, ma allora in che modo la solidarietà sarebbe veramente disinteressata?). Più banalmente, non c’è oggi attività umana che non abbia bisogno del testimonial, e anche la solidarietà non può non piegarsi a questa logica. Stessa cosa per la cosiddetta "gara di solidarietà", che è anch’essa una necessità dei nostri tempi: per stimolare la partecipazione, occorre che ci sia una gara, e perché la gara funzioni occorre stabilire un record: di telefonate e di raccolta di fondi, ad esempio (record stabilito peraltro in base alle promesse di donazione, non alle donazioni effettive: anche questo è un segno dei tempi).
L’altra caratteristica sono appunto i nuovi modi di fare la colletta. Un tempo c’era il cestino che girava tra i banchi della chiesa, e pochi luoghi di raccolta di generi di prima necessità. Oggi c’è un intero settore dell’economia che ruota intorno alla solidarietà. Oggi si può donare e dedurre; donare e dare un occhio al bilancio. E soprattutto si può donare via sms, al telefono, con la carta di credito. Si può cioè procedere più speditamente, ma anche compiere un gesto di solidarietà restando comodi a casa propria. È un gesto che viene così compiuto senza troppo sacrificio personale, e la cui moltiplicazione per il numero delle cause per le quali viene sollecitato finisce col rendere meno significativo. Alla stessa persona che è disponibile a donare un euro, provate peraltro a chiedere un minuto: il risultato non sarà lo stesso.
Ivan Illich, una grande figura di intellettuale irregolare, ha speso gran parte della sua vita per criticare l’istituzionalizzazione delle forme essenziali della convivenza umana: nella sua critica rientrava per esempio l’educazione, scolarizzata ed erogata come un ‘bene di servizio’, e la cura della salute, medicalizzata e burocratizzata. Persino la Chiesa non andava esente da questa critica, avendo essa trasformato il gesto evangelico dell’ospitalità nelle forme istituzionali di amministrazione della carità. L’intero Stato sociale, straordinaria invenzione del ‘900, appariva, in questa luce, come una gigantesca sottrazione per mano pubblica della libera esperienza di autentica convivialità tra gli uomini: proprio quella che i terremotati abruzzesi riscoprirebbero in questi giorni sotto le tende, come qualche servizio televisivo ci ha fatto vedere, scaricandoci addosso qualche senso di colpa in più per il fatto che non solo noi non viviamo sotto le tende, ma nemmeno ameremmo viverci.
C’era qualcosa di vero, forse persino di profetico nei moniti di Illich. A confronto con la solidarietà autentica, ogni forme intermediata di solidarietà appare fredda e ipocrita. E spesso persino interessata, poiché non c’è mediazione su cui non cresca robusto l’apparato, e il relativo costo. E tuttavia, a ben pensarci: abbiamo idea di cosa comporti vivere un’esistenza autentica 24 ore su 24? Vivere in assoluta sincerità, in assoluta dedizione, in assoluta benevolenza? Siamo sicuri che sarebbe il paradiso, e non invece una buona approssimazione dell’inferno?
Mi sono convinto, perciò: datemi un numero (verde, mi raccomando). Non sarà il massimo, ma non è nemmeno il minimo.

(Il Mattino)

Il piano casa

Io non so bene a che punto sia il piano casa del governo Berlusconi. Se però non è ancora cosa fatta, invito il governo a rifletterci con cura. Non mette questo governo fra i suoi valori fondamentali di riferimento quello della famiglia? Bene. Se devo giudicare da quello che può succedere in casa mia, io lo pregherei caldamente di desistere.
Fino ad oggi, non ho alcun motivo di abbandonare il tetto coniugale. Ma la ristrutturazione del tetto coniugale, quella sì mi metterebbe a dura prova, ne sono certo. E non credo che sia il solo a temere giustificatamente l’impatto devastante sull’equilibrio familiare di rifacimenti, ampliamenti, modifiche e progettazioni varie. La semplice pressione informativa che viene esercitata su di me mi stressa (è uscito? Non è uscito? Uscirà? Ma il regolamento comunale? Ma la legge regionale?): figuriamoci l’avvio dei lavori, il piano di avanzamento, l’architetto, l’ingegnere, la ditta, il mobiliere, il pavimentista, l’imbianchino, il tappezziere e via così. Un incubo. 
Rinnovo dunque l’appello: non è che io sia per la decrescita e contro lo sviluppo, però la famiglia non era un bene prezioso, per questo governo?
Sono sincero, veramente: io non ho mai visto andare d’accordo due cuori e la ristrutturazione di una capanna.

La scorciatoia per il deserto referendario

Nel libro che Gore Vidal ha dedicato ai padri costituenti degli Stati Uniti d’America è riportato, sul finire, il malinconico ricordo di un mattino a casa di John Fitzgerald Kennedy. Tra una partita a backgammon e un sigaro, Jackie domanda all’amico scrittore come fu possibile che il secolo XVIII producesse geni del calibro di Franklin, Jefferson o Hamilton, mentre tra la gente potente e influente dell’epoca sua non vi erano che mediocrità. «Il tempo. Loro ne avevano di più», risponde Vidal. E Kennedy di rimando osserva che, effettivamente, più nessuno ha il tempo di rileggersi «tutti quei dibattiti sulla Costituzione».
Nel dibattito sulle riforme costituzionali che affligge l’Italia da un bel po’ di anni pare che sussistano entrambe le condizioni che definivano, agli occhi dei due amici, la mediocrità:

Il seguito lo trovate su Left Wing, dove trovate anche uno splendido articolo di Claudio Sardo, di segno un po’ diverso dal mio.

Franco Volpi

Non ho scritto nulla sulla morte di Franco Volpi. Rimedio oggi. Conoscevo Volpi, anche se superficialmente. Ero ancora studente quando lo vidi per la prima volta, ospite ad un convegno heideggeriano all’Università di Salerno: mi fece impressione l’autorevolezza che gli veniva riconosciuta, pur essendo ancora molto giovane (parlo di più di vent’anni fa, se non ricordo male). L’ultima volta che l’ho visto è stato a Napoli, in occasione della presentazione del romanzo di Feinmann L’ombra di Heidegger, tradotto da un mio grande amico e da un suo grande amico, Lucio Sessa. Romanzo che lessi in bozza, e di cui pure discutemmo un po’, con Lucio. E con il mio heideggerologo di fiducia, da cui sarei curioso di avere un parere, a proposito del testo che metto qui sotto (pubblicato sul Domenicale del Sole 24 Ore). Volpi si è nutrito di Heidegger per tanti anni, ne ha curato un bel po’ di roba, e colpisce che sia giunto a un bilancio così fallimentare. In verità, penso che questo bilancio Volpi lo avesse tratto da tempo: ricordo un suo saggio sulla riabilitazione della filosofia pratica, e ricordo che pensai allora che un tal saggio era abbastanza incompatibile con le vertigini e gli abissi dell’ultimo Heidegger.
Che Volpi non poteva amare. Lo dico senza conoscere per bene il suo lavoro di storico. Ma ne conosco l’opera fondamentale, quella su Heidegger e Aristotele. Vitiello, che stimava molto Volpi, leggeva Heidegger in maniera non opposta ma quasi: Essere e Tempo non è solo una riambientazione di concetti aristotelici, ma ha almeno due anime, una greca e una cristiana. Le vertigini e gli abissi dipendono essenzialmente da quest’ultima, che Vitiello ha finito col preferire. Volpi ha preferito l’altra.
Infine. Sono stato all’Università di Padova, lunedì scorso, per una chiacchierata. Ho visto alcune splendide persone di cui ho molto stima, e sono veramente felice di averle reincontrate. Ma c’era un clima di mestizia, in una città che mi ha sempre dato l’impressione di essere mesta fino alla depressione (ma forse è solo colpa della pioggia, che immancabilmente vi ho incontrato). Sarà per questo che Volpi aveva trovato quasi una seconda patria in Sud America?
Ai muri c’erano i saluti al professor Franco Volpi, e qui io lascio il mio.

I «Contributi alla filosofìa»? «Il diario di un naufragio. Avventurandosi troppo in là nei mari dell’Essere, il suo pensiero va a fondo»
L’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Heidegger, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi alla filosofia. È forse un caso che Heidegger ponga in esergo ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961) una epigrafe tratta dall’Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Contributi? Questi terminano con una "fuga" che tratta dell’ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione: «Quasi due millenni e non un solo nuovo dio!».
Forse Heidegger non è più riuscito a risollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche. Nella triste luce dell’esaurimento, l’Essere – quest’ospite solitamente fugace dei nostri pensieri – rimane per il grande Heidegger l’ultima chimera che valga la pena di sognare. Tutti i suoi sforzi mirano a quest’unica meta, l’Essere, ma i sentieri si sono interrotti. La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo "procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofìsta, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose – l’Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo – soffiando sul mito greco-germanico dell’originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l’aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell’etimologia si rivela un abuso (…). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l’uomo funge da pastore dell’Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell’ultimo Heidegger, bensì l’ammirazione supina e spesso priva di spirito critica che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Certo, i comuni mortali spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero allora davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell’Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime.

Primi bagni

Lo so, è brutto tempo in larga parte d’Italia. Fa ancora freddino. Ma fra un mese ci sarà il sole. E si potranno fare i primi bagni. E si potranno fare a Marina di Camerota, fra una lezione e l’altra di Sini e Severino, Margalit e Moreiras, Marino e Schiavone, Sequeri e De Sanctis.

Insomma, è on line il programma della II edizione della Scuola di Filoaofia e Politica della Fondazione Italianieuropei. Non avete molto tempo per iscrivervi, perciò sbrigatevi. Ne vale la pena.

Ora però, non so che fine abbia fatto il bottoncino per inserire i link (sarà colpa di Google Chrome?), quindi vi metto l’indirizzo per esteso qui sotto:

http://www.italianieuropei.net/content/view/1251/32/lang,it/

Reduce

Reduce da Perugia (venerdì) Firenze (sabato) Bologna (domenica) Padova (lunedì) Roma (martedì) – reduce, in serata, da una macchina che non parte allora chiamo mio fratello che viene coi cavetti ma la macchina non parte lo stesso allora andiamo a prendere un’altra macchina perché forse la batteria non è sufficiente ma la mia macchina non parte lo stesso allora forse sono i cavetti e allora mi accompagna a casa sicché ci son volute due ore da roma a salerno e due ore da salerno a casa e domani mi toccherà scendere di nuovo a salerno per cercare di far ripartire la macchina – reduce da tutto questo, mi segnalano questa meravigliosissima intervista che mi tocca segnalare pure a voi.

La tortura svelata

È lecito torturare? È lecito privare un detenuto del sonno, è lecito denudarlo, è lecito restringerlo in uno spazio limitato e buio, e lasciare che nell’oscurità sia tormentato da invisibili insetti? È lecito procurargli la sensazione dell’annegamento, oppure schiaffeggiarlo ripetutamente, colpirlo all’addome, e sbatterlo con violenza contro un muro? Sono lecite le “tecniche avanzate” usate dalla Cia negli interrogatori dei presunti terroristi di Al Qaeda? A quanto pare dai documenti che il Presidente Obama ha reso pubblici, durante l’Amministrazione Bush simili pratiche venivano ritenute lecite, dal momento che, diversamente dalla tortura vera e propria, la quale comporta, secondo le convenzioni internazionali, l’afflizione di un “grave dolore fisico o sofferenza mentale”, le pratiche minuziosamente descritte nei documenti segreti dell’intelligence comportavano sì privazioni, umiliazioni o dolori fisici ridotti, ma nessun dolore grave o “danno mentale prolungato”.
La via burocratica alla tortura di Stato prevedeva dunque che venissero rispettate le forme legali, con l’accorto aiuto delle formalistiche interpretazioni del Dipartimento di Giustizia americano, capace di discettare sulla durata e l’intensità del dolore inflitto o dell’offesa patita, pur di accordare ipocritamente le necessità della lotta al terrorismo islamico con il crisma del diritto.
In realtà, è dal tempo in cui si è affermata la sovranità dello Stato moderno, dunque molto prima che esso assumesse le caratteristiche di un ordinamento liberaldemocratico, rispettoso dei diritti umani fondamentali, che si stringe il nodo che anche Obama ha dovuto sciogliere: se cioè si possa, quando gli affari di Stato lo richiedono, adottare per la salvezza della res pubblica una morale più larga e grossolana della morale valida invece per i “privati”, sudditi prima cittadini poi.
La storia ha però cercato di dare una risposta, nella misura almeno in cui il suo corso è descrivibile, sotto il profilo politico-giuridico, come il tentativo di incapsulare e assorbire il grumo di nuda forza che pure resiste alla sua integrale giuridicizzazione: e ogni volta che si strappa la tela che il diritto ha faticosamente tessuto, la sconnessione fra politica e diritto si ripresenta e si mostra nei suoi crudi lineamenti il “volto demoniaco del potere”.
Obama ha portato allo scoperto il “piccolo, sporco segreto” della democrazia americana. Il quale era segreto, certo, ma solo fino a un certo punto: non perché si fosse vista la carta intestata su cui erano descritti i metodi sbrigativi adottati dalla Cia, ma perché si conosceva, e bene, il risvolto pubblico di simili condotte: l’unilateralismo, la dottrina della guerra preventiva, l’idea che, quando è in gioco la sicurezza nazionale, né il diritto internazionale né gli organismi sovranazionali, né gli interessi e le politiche di altri paesi, per quanto amici, possono limitare il raggio d’azione degli USA. Togliere il segreto sulle “pratiche avanzate” della Cia è un gesto del tutto coerente con la nuova stagione della politica estera americana, e ne rafforza la credibilità.
Per coloro che amano definirsi realisti, la decisione di Obama è stata una mossa avventata, che indebolisce l’azione di contrasto al terrorismo. Per tutti gli altri, è stato invece un atto di grande fiducia nelle risorse di un paese democratico. E in quanto questo atto è accompagnata da una politica e ne costituisce un tassello, non è affatto il comportamento ingenuo di un’anima bella.
La politica è precisamente quel che serve per non farsi mettere dinanzi al dilemma che giustifica ogni abuso, per non rimanere ipnotizzati dall’alternativa: o la salvezza dello Stato o il rispetto dei diritti umani. Quando ci si infila in una simile aporia (e soprattutto quando la si costruisce a bella posta, come a volte purtroppo capita), allora si rischia di non avere più nessuna ragione per limitare l’impiego della forza e resistere alla limitazione dei diritti che l’asprezza del conflitto può comportare.
Naturalmente, si può ritenere che la democrazia sia in ultima istanza disarmata rispetto ai suoi nemici, che non hanno l’impaccio di un’opinione pubblica dinanzi a cui rendere ragione dei propri atti, né una coscienza giuridica alla quale rispondere; ma la democrazia è precisamente quella cosa che gli uomini hanno inventato per allontanare da loro le istanze ultime. Come ogni impresa umana, anche la democrazia può fallire, ma rinunciare al rispetto delle sue forme e delle sue garanzie, accettare la tortura non è fallire: è capitolare.

Aggiornamenti mancati

Spinto da un insano impulso (ma anche da qualcuno), ho guardato un po’ quel che si dice del referendum elettorale sul sito dedicato.  E’ in via di spegnersi la polemica sull’election day, cioè su abbinamento sì o abbinamento no fra referendum ed europee (ma anche uno splendido abbinamento quasi), e perciò è ora che capisca bene "che cosa succederebbe al sistema politico italiano se venisse approvato il referendum". Leggo (e approssimativamente commento, tra parentesi quadre]:

"L’approvazione del referendum produrrebbe un radicale rinnovamento dell’attuale sistema elettorale – e, attraverso quello, del sistema politico –" [questo è vero. Ma come sarebbe, il sistema elettorale e politico rinnovato? I refendari assicurano che sarebbe] "in grado di assicurare all’intero contesto politico più trasparenza [e perché? Guardate il parlamento italiano: c’è nulla che non sia oggi, elettoralmente e politicamente, trasparente? Non si capisce chi è maggioranza e chi è opposizione?], agli schieramenti più unità [Gli schieramenti attuali non sono sufficientemente uniti? Mettere tutti dentro un’unica lista assicura unità alla lista?], ai cittadini più opportunità di spendersi per far valere le proprie capacità e meriti [questa mi è del tutto incomprensibile]. L’eliminazione del frazionismo e dello sbriciolamento della rappresentanza, garantirebbero una ristrutturazione profonda del sistema dei partiti [all’anima!: L’unica cosa che si è ristrutturata sono proprio i partiti: sono nuovi di zecca, ed è difficile affermare che siano migliori dei precedenti]. I quali sono sempre più avvitati su se stessi e stentano ad operare qualsiasi ricambio [vorrei però capire in che modo questo referendum assicurarebbe il ricambio dentro i partiti: a me pare in nessun modo].
Selezionano le proprie classi dirigenti in base a criteri poco trasparenti che spesso non hanno nulla a che vedere con il merito, le capacità o la passione disinteressata [ho capito: questo non è un referendum: è una bacchetta magica!].
I partiti, inoltre non riescono a realizzare l’unità negli schieramenti, con una strisciante, continua guerra di posizione ed uno scontro di paralizzanti veti incrociati, all’interno delle coalizioni".

E’ inutile che continui: i referendari si sono dimenticati di aggiornare il loro sito, e parlano come se il sistema politico ed elettorale non fosse mutato dal 92′ ad oggi, e in particolare come se non si fosse votato nel 2008.

Europa laicità diritti

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Metà del guado

E’ Pasqua. Sono esausto. E c’è ancora la Pasquetta.

Umbri di tutto il mondo, aspettatemi

Si conclude oggi il Festival internazionale del giornalismo, in svolgimento a Perugia dal 1° aprile. Come con il Festival di Sanremo, era prevista la più frontale delle controprogrammazioni, e nello stesso giorno (il 3 aprile), alla stessa ora  in cui c’era Marco Travaglio, era in programma l’incontro su Europa, laicità, diritti. Un po’ come Schopenhauer che faceva le lezioni nella stessa ora in cui le teneva Hegel.
Io perciò, memore del precedente storico, ci sarei andato lo stesso.

Ma poi s’è pensato di lanciare un segnale distensivo e l’incontro è ora fissato per il 17.

A proposito del peso del web nella candidatura di Debora Serracchiani alle europee

Ma facciamo, anzitutto, che il punto è, in generale, quanto il web orienti (formi e sia un pezzo de) l’opinione pubblica? Non vedo ragioni per escluderlo. Vi sono, per dirla alla buona, aspetti materiali (quanti soldi sposta il web, per esempio) e aspetti formali (ci vogliono candidati che funzionano sul web? oppure: ci vogliono messaggi che funzionano sul web?). E’ ovvio che è più facile rilevare gli aspetti materiali, perché lì basta far di conto, ma questo non significa che non abbiano rilievo gli aspetti formali.
Che abbiano rilievo gli aspetti formali non significa, a sua volta, che il web decide di candidati e messaggi. Una condizione necessaria, o quasi-necessaria, o più semplicemente: una condizione di qualche peso, non è una condizione necessaria e sufficiente. E non è nemmeno una condizione esclusiva, come se si dicesse: la novità passa sul web e solo sul web.

Quel che dovrebbe forse dare maggiormente da pensare (posto che una simile candidatura sia esemplare: cosa che non so, ignorando tutto il resto delle liste alle Europee) è invece se (non so: dico se) il partito democratico cercasse le sue candidature indipendentemente da una preoccupazione circa gli interessi reali e le domande di riconoscimento che intende rappresentare. Dico: interessi reali e domande di riconoscimento per non dire solo idee nuove. Il punto è che la credibilità di una proposta politica deve soddisfare la condizione necessaria, o quasi-necessaria, o anche solo di qualche peso, dell’attratività presso l’opinione pubblica (televisioni, carta stampata, web, telefono e quant”altro), ma deve anzitutto essere una proposta politica. (Per tutto il resto, torno a rinviare a Left Wing)

Addizione

Io: – Se tanto mi dà tanto… -.
Enrico: – Hai due tanti, papà! -.

"From Plato onwards, Communism is the only political idea worthy of a philosopher"

(Come che sia, qui è come la vede il Guardian, a proposito di On the Idea of communism. Qui potete ascoltare Rancière, Badiou, Zizek. Qui invece potete leggere Nancy).

(Se però non vi basta: Roma, 3 aprile, Palazzo Marini, Sala delle Colonne, via Poli 19, ore 17.30 E. Laclau, La ragione populista, con l’autore e con almeno un paio di persone in gamba)

Pesce d'aprile

"Scherzo sempre" (L. V. Tarca, ma mi sa che già l’ho messa).