Archivi del giorno: aprile 24, 2009

La scorciatoia per il deserto referendario

Nel libro che Gore Vidal ha dedicato ai padri costituenti degli Stati Uniti d’America è riportato, sul finire, il malinconico ricordo di un mattino a casa di John Fitzgerald Kennedy. Tra una partita a backgammon e un sigaro, Jackie domanda all’amico scrittore come fu possibile che il secolo XVIII producesse geni del calibro di Franklin, Jefferson o Hamilton, mentre tra la gente potente e influente dell’epoca sua non vi erano che mediocrità. «Il tempo. Loro ne avevano di più», risponde Vidal. E Kennedy di rimando osserva che, effettivamente, più nessuno ha il tempo di rileggersi «tutti quei dibattiti sulla Costituzione».
Nel dibattito sulle riforme costituzionali che affligge l’Italia da un bel po’ di anni pare che sussistano entrambe le condizioni che definivano, agli occhi dei due amici, la mediocrità:

Il seguito lo trovate su Left Wing, dove trovate anche uno splendido articolo di Claudio Sardo, di segno un po’ diverso dal mio.

Franco Volpi

Non ho scritto nulla sulla morte di Franco Volpi. Rimedio oggi. Conoscevo Volpi, anche se superficialmente. Ero ancora studente quando lo vidi per la prima volta, ospite ad un convegno heideggeriano all’Università di Salerno: mi fece impressione l’autorevolezza che gli veniva riconosciuta, pur essendo ancora molto giovane (parlo di più di vent’anni fa, se non ricordo male). L’ultima volta che l’ho visto è stato a Napoli, in occasione della presentazione del romanzo di Feinmann L’ombra di Heidegger, tradotto da un mio grande amico e da un suo grande amico, Lucio Sessa. Romanzo che lessi in bozza, e di cui pure discutemmo un po’, con Lucio. E con il mio heideggerologo di fiducia, da cui sarei curioso di avere un parere, a proposito del testo che metto qui sotto (pubblicato sul Domenicale del Sole 24 Ore). Volpi si è nutrito di Heidegger per tanti anni, ne ha curato un bel po’ di roba, e colpisce che sia giunto a un bilancio così fallimentare. In verità, penso che questo bilancio Volpi lo avesse tratto da tempo: ricordo un suo saggio sulla riabilitazione della filosofia pratica, e ricordo che pensai allora che un tal saggio era abbastanza incompatibile con le vertigini e gli abissi dell’ultimo Heidegger.
Che Volpi non poteva amare. Lo dico senza conoscere per bene il suo lavoro di storico. Ma ne conosco l’opera fondamentale, quella su Heidegger e Aristotele. Vitiello, che stimava molto Volpi, leggeva Heidegger in maniera non opposta ma quasi: Essere e Tempo non è solo una riambientazione di concetti aristotelici, ma ha almeno due anime, una greca e una cristiana. Le vertigini e gli abissi dipendono essenzialmente da quest’ultima, che Vitiello ha finito col preferire. Volpi ha preferito l’altra.
Infine. Sono stato all’Università di Padova, lunedì scorso, per una chiacchierata. Ho visto alcune splendide persone di cui ho molto stima, e sono veramente felice di averle reincontrate. Ma c’era un clima di mestizia, in una città che mi ha sempre dato l’impressione di essere mesta fino alla depressione (ma forse è solo colpa della pioggia, che immancabilmente vi ho incontrato). Sarà per questo che Volpi aveva trovato quasi una seconda patria in Sud America?
Ai muri c’erano i saluti al professor Franco Volpi, e qui io lascio il mio.

I «Contributi alla filosofìa»? «Il diario di un naufragio. Avventurandosi troppo in là nei mari dell’Essere, il suo pensiero va a fondo»
L’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Heidegger, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi alla filosofia. È forse un caso che Heidegger ponga in esergo ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961) una epigrafe tratta dall’Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Contributi? Questi terminano con una "fuga" che tratta dell’ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione: «Quasi due millenni e non un solo nuovo dio!».
Forse Heidegger non è più riuscito a risollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche. Nella triste luce dell’esaurimento, l’Essere – quest’ospite solitamente fugace dei nostri pensieri – rimane per il grande Heidegger l’ultima chimera che valga la pena di sognare. Tutti i suoi sforzi mirano a quest’unica meta, l’Essere, ma i sentieri si sono interrotti. La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo "procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofìsta, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose – l’Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo – soffiando sul mito greco-germanico dell’originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l’aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell’etimologia si rivela un abuso (…). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l’uomo funge da pastore dell’Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell’ultimo Heidegger, bensì l’ammirazione supina e spesso priva di spirito critica che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Certo, i comuni mortali spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero allora davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell’Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime.