Archivi del mese: Maggio 2009

Tecnologia sapiens nel futuro dell'uomo

Tecnica con la maiuscola o con la minuscola? Tecniche per cosa o per chi? Pensi uguale con o senza internet? Tecnica di qua e natura di là, oppure queste sono sciocchezze? Su Quinta di copertina, intervistato da Antonio Sofi, per ben venti  minuti!

Vorrei e non vorrei

Chiunque abbia minimamente a cuore la filosofia, e abiti a sud di Formia e a nord di Eboli, sappia che questa settimana Carlo Sini è all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, a Napoli, per un ciclo di lezioni su Spinoza. Vi tremerà il cuore. Avete tempo oggi e domani per rompere gli indugi.

(E se venite, là ci darem la mano, là ci direm di sì)

La filosofia e lo statuto del vivente

A beneficio del mondo, metto qui sotto lo schema della relazione tenuta da Carlo Sini a Marina di Camerota, quella che m’è parsa filosoficamente più densa. Siccome è di mia mano, dico in premessa che lo schema riproduce abbastanza bene l’ordine dell’esposizione, meno bene il movimento del pensiero (com’è inevitabile, peraltro). A voi:
 
In premessa: la natura umana non ha un passato e un futuro stabilii. Qualunque affermazione ‘ assolutistica’ è, in senso stretto, ignorante: ignora ciò che l’uomo è. Solo un pensiero relazionale, del relativo (che non vuol dire un pensiero banalmente, debolmente relativistico) consente di pensare che cos’è l’uomo.
La filosofia parte del vivente. Ogni altra ‘partenza’ è inadeguata. La filosofia nasce con Parmenide. In Parmenide l’uomo è eidos phos, colui che sa. Sapere è ‘avere visto’. L’uomo è colui che, avendo visto, sa. Ciò che l’uomo ha visto, e che lo stacca da tutti gli altri esseri viventi, è la morte, il cadavere. Questo è il sapere antropologico per eccellenza.
Hegel dirà dell’uomo il medesimo: l’uomo è il photizomenos, il rischiarato, l’illuminato. Per Hegel, fin dai suoi scritti giovanili (cf. Lo spirito del cristianesimo e il suo destino) “il carattere di ogni realtà è la vita”[1]. Il mondo è la vita che accade.
Come però accade? Hegel distingue la vita immediata, indistinta, e la vita illuminata dal sapere. Non sono però due vite ma due modi d’essere della stessa vita. Non son due ‘cose’ separate: la vita è immediatamente la sua mediazione. Siamo già sempre, immediatamente, nell’evento della sua mediazione. Il che in breve significa: non ci sono sostanze metafisiche (per stare ai termini moderni: ‘soggetto’, ‘oggetto’, ecc.). Le fantasmagorie metafisiche sono nate molto spesso non per amore del sapere ma per amore del potere. Whitehead: ogni cosa prende (com-prende) un’altra cosa. Ogni vita e ogni vivente è immediatamente la relazione in cui si disegna il suo stesso vivere. Il vivente è la vita che si individua. Non c’è un assoluto essere organico e un assoluto essere inorganico. L’organico è ciò che di volta in volta si ritaglia l’inorganico come suo altro – e ciò, l’evento di questa mediazione, immediatamente.
Questo individuarsi separandosi è la relazione (l’essere-in relazione). Io e te siamo relazionati dalla nostra separazione, separati dalla nostra relazione.
Zoè, la vita nel suo primo senso immediato, è l’accadere di phos, luce del sapere che nell’uomo giunge sino al sapere la morte, come s’è detto, ma che è anzitutto un saper fare, un assumere abiti e un com-prendere. Il vivente è ‘illuminato’, si diceva, ma è illuminato dalla sua stessa prassi: ciò che vale per le forme infinitesimali del vivente come per l’uomo.
Con l’uomo – che, diceva Heidegger, è aperto al mondo, a differenza dell’animale – la ‘luce’ giunge sino a illuminare l’ente nella sua verità. L’uomo è il photizomenos photi aletheias (Hegel, ancora lo Hegel giovane). Ossia: l’animale fa quel che sa e deve fare, (oppure: patisce quel che deve patire), ma non si dà mai per lui un sapere complessivo del mondo, non si eleva mai alla luce dell’orizzonte complessivo dell’ente, l’uomo ha il mondo, è l’illuminato, è il rischiarato nel senso che sta, sa e si sa come colui che sta nel mezzo della totalità dell’ente.
Ora però quel che Hegel ci ha infine insegnato – e che non ci hanno insegnato né Parmenide né Kant (o Fichte o Schelling) –è la storicità essenziale della vita stessa. In quanto la vita è l’evento stesso del vivente che si illumina nel suo sapere; in quanto questo sapere è anzitutto un saper fare, e dunque è prassi, in tanto essa è storia. E’ Dilthey ad aver segnalato con forza questa soglia: la vita come storia.
La storicità della vita è la storicità dei suoi saperi. Anche dei saperi scientifici. Il phos, la luce, il sapere è – lo si è visto – del mondo nel senso soggettivo e oggettivo del genitivo: non è solo la luce che cade sul mondo, ma è la luce in cui il mondo viene al mondo come mondo (vs. ogni lettura ‘soggettivistica’ di Hegel). Questo implica l’essenziale storicità di ogni biologia, di ogni scienza del vivente. Non avremo sempre questa biologia, e soprattutto: non avremo sempre questa architettura del sapere. Ma affermare la storicità di ogni biologia non comporta tanto un abbassamento relativistico quanto un innalzamento del relativo (del vivente in quanto vivente).
Di nuovo: sapere è essenzialmente saper fare. Il lavoro della scienza è, appunto, un lavoro. La scienza deve essa stessa liberarsi dei suoi fantasmi naturalistici e riduzionistici. Se la vita è storicità, se la scienza è (anche) il suo lavoro, allora significa che sono letteralmente ignoranti proposizioni le quali dicano ad esempio che la vita è sacra e intangibile o che, per altro verso, dicano che la vita è una scarica elettrica. E il compito della filosofia – dinanzi a simili affermazioni – deve essere quello di chiedere: fammi vedere che lavoro fai, quando intendi e dici così; mostrami le tue operazioni, come prendi e com-prendi.
Solo così possiamo comprendere come l’uomo abbia un futuro, e come abbia un passato (nel modo in cui li ‘ha’)[2].

[1] Anche L. Wittgenstein dirà, in apertura del Tractatus: il mondo è tutto ciò che accade. E nei Taccuini coevi: il mondo è la vita stessa
[2] Nella discussione, Sini ha aggiunto, in risposta a chi lo invitava a riflettere sulle possibili manipolazione genetiche e sulla necessità di tutelare la natura umana, che questa tutela non si esercita sul piano dei principi ma si misura sulle conseguenze. In breve: dobbiamo chiedere conto delle conseguenze, vedere le conseguenze. Ha poi negato che la sfera dell’etica e della politica siano separate dall’economico e svolto brevissimamente una critica del liberismo economico, evidenziando come siano profondamente insufficiente le stesse nozioni fondamentali del nostro sapere economico. Ha poi proposto la questione della libertà nei termini del numero di occasioni che ha ognuno di noi. La libertà di movimento è dove puoi e hai occasione di andare, ben più del suo astratto principio. La sinistra ha oggi il coraggio di mettere in discussione le forme correnti del capitale finanziario?
Ha poi chiarito il senso della sua ‘apologia del relativo’. La totalità non è che il sogno della parte: è ciò che sogna la parte relazionandosi all’altra parte. E anche quando affermo il carattere ‘trascendentale’ della relazione, lo dico però ‘da parte a parte’ – precisamente: dalla parte della filosofia. Il trascendentale non è che una figura della prassi filosofica. Il che non vuol dire che lo dovrei dire altrimenti, ma che devo stare sempre in guardia dalla ‘superstizione’ dell’assoluto.
Infine: bisogna smetterla di voler essere immortali. C’è anche nel cristianesimo nella sua teologia, una possibilità di pensare così il Cristo: il sepolcro è vuoto, e vuoto vuol dire che non c’è niente, che lì non ci va niente, che io sono già salvo perché lì non ci andrà nulla. Se si pensa così, si pensa in direzione di una religione della fratellanza universale, del Dio-con-noi, del Dio incarnato, cioè una religione senza il Padre nei cieli. Ma soprattutto, se si pensa così si pensa la vita come transito che non si risarcisce della mortalità procurandola agli altri (è la risposta di Freud ad Einstein sul perché la guerra: perché vogliamo essere immortali).

Futuro natura

Sul sito della Fondazione Italianieuropei, quindici minuti circa sulla Summer School di Marina di Camerota su Il futuro della natura umana. (Oltre al sottoscritto, in una discutibile prestazione a spalle incassate, si esprime anche – nel corso del filmato – il maggior heideggerologo vivente a sud di Scafati e a nord di Vietri sul mare).

Perché alla sinistra manca il popolo

Premessa maggiore: il liberalismo costituisce l’orizzonte della politica contemporanea, almeno nei paesi a democrazia avanzata, come l’Italia, nel quale è acquisita la cultura dei diritti individuali fondamentali. Premessa minore: in questi stessi paesi, però, il populismo fa passi da gigante. Il populismo ha molte facce, ma un denominatore comune: si alimenta del discredito della vecchia politica, scavalca le forme tradizionali della rappresentanza, sminuisce la centralità dei parlamenti e dei partiti. E nel nostro paese questo genere di cultura politica fiorisce rigoglioso in una pluralità di varianti che vanno dal leghismo al giustizialismo, passando (più di recente) per il velinismo.
Se queste son le premesse, quali conclusioni deve trarre una forza politica riformista, che voglia difendere i principi di un ordinamento liberaldemocratico, ma che non voglia limitarsi ad apparire una forza conservatrice: di equilibri costituzionali e di buone maniere?
Alla scuola della Fondazione Italianieuropei, conclusasi domenica, D’Alema ha ragionato di questo. Il tema generale aveva una formulazione decisamente ambiziosa: "il futuro della natura umana", ma a riportare la discussione nell’orbita dei problemi che ha oggi l’opposizione ci ha pensato il filosofo Avishai Margalit: la politica è vincere o perdere le elezioni, ha detto; perciò, lasciamo perdere le diagnosi di lunghissimo periodo, come ad esempio le cause remote dei disastri storici della sinistra (e dire che Margalit non conosce Fausto Bertinotti, né ha letto il suo ultimo libro!) e dedichiamoci invece a quel che più modestamente va fatto qui e ora, per rovesciare un ciclo che non ha nulla di irreversibile o di inevitabile.
Anche perché è solo lo spettacolo che offre l’Europa a deprimere la sinistra: altrove nel mondo, in paesi più giovani e più dinamici di quelli europei, la sinistra ha ancora carburante sufficiente; è invece sul continente, e in Italia in particolare, che una crisi dalle proporzioni non modeste non basta a rilanciare una qualunque iniziativa politica di stampo progressista.
Da dove cominciare, allora? Forse dai fondamentali. Perché se è vero che negli ultimi decenni il collante ideologico della globalizzazione è stato un "liberalismo antipolitico" (così lo ha chiamato D’Alema), è allora un altro liberalismo, attento alle ragioni della politica democratica, a dover essere costruito. Se ad esempio la nostra democrazia rischia di assumere sempre più un carattere censitario, a causa del fatto che milioni di lavoratori non ne fanno parte in quanto stranieri, è chiaro che una forza di sinistra, che guarda anzitutto al mondo del lavoro, dovrà battersi per modificare questo stato di cose. Né può bastare la vernice postmoderna con cui si passa oggi dal singolare collettivo al plurale individualizzato – dal lavoro ai lavori – per ampliare lo spazio politico democratico e includervi quel consistente numero di uomini e donne a cui è negata oggi la condizione fondamentale della rappresentanza politica.
Però forse la cosa suona troppo di sinistra, si potrebbe obiettare. Ma almeno suona, si dovrebbe allora rispondere. Ed è molto dubbio che rinunciando ad essere qualsiasi cosa si riesca davvero a parlare al "paese profondo"; piuttosto, si rinuncia a parlare punto e basta. Né vi è motivo per ritenere che i cattolici e i moderati non possano vedere il loro interesse in una visione che non si affida solo alle ragioni dell’economia e del successo individuale. Basta il richiamo di ieri dei vescovi alle tutele per i lavoratori a dimostrare il contrario. Qui c’è indubbiamente un lavoro di più lunga lena, di scomposizione dei quadri ideologici nei quali è contenuta oggi una consistente parte del voto moderato. Ma una sinistra che rinunci a sostenere che né Dio né il mercato né nessun altro ha stabilito, men che meno dimostrato, che è razionale solo ciò che è mosso dall’egoismo individuale (o peggio che ciò che tutto muove è solo l’egoismo individuale) semplicemente non è una sinistra, e quel lavoro non potrà neppure avviarlo.
Questo però significa inventarsi in fretta un nuovo linguaggio, un linguaggio condito di speranza e di fiducia, invece di continuare a fare del vittimismo, storico o cosmico che sia. Guardate Obama, he detto Margalit, e anche su questo non aveva torto. Obama non è stato eletto perché nero e sfigato, ma perché vincente e convincente. Sicché non ha vinto perché nero, ma: anche se nero. Magari aveva persino ragione Berlusconi: han preso il colore della sua pelle per un’abbronzatura, ma proprio così Obama ha dimostrato non di dover cancellare la sua identità di colore, ma che si può far politica in uno spazio che è diverso o che è più grande di quell’identità. Qui c’è insomma da tracciare un limite anche sul lato sinistro: i teorici delle differenze oppresse devono sapere che il vittimismo è un lusso che si possono permettere solo i vincenti (e infatti Berlusconi ne fa uso solo quando è al governo, non dall’opposizione).
E la natura umana? Quella resta sullo sfondo. O meglio: viene piuttosto in questione come condizione umana (o, a volte, disumana). Può darsi infatti che inedite prospettive sulla specie si profilino già nel prossimo fine mese, e allora, forse, ci sarebbe di che spaventarsi. Ma di sicuro rimandare la soluzione dei problemi di fine mese a quando cambierà la specie umana non sarebbe, per la sinistra e per il partito democratico, una gran bella idea.

Il futuro della natura umana

La lingua greca, con cui è formata grande parte del lessico politico che ancora oggi usiamo, distingueva fra la zoè e il bíos: con il primo termine indicava la vita nel suo senso ancora non differenziato, che coinvolge tutti gli esseri viventi; con il secondo, indicava invece forme di vita proprie di una determinata specie, che nel caso della specie umana possono essere diverse (mentre una e sempre la stessa è la forma di vita propria di ciascuna specie animale). Proprio la distanza tra un piano e l’altro consentiva la posizione del problema politico: che concerneva, per Aristotele, l’insieme delle scelte situate non semplicemente sul piano del vivere, ma del vivere bene, della buona vita. L’una e l’altra dimensione appartengono alla physis dell’uomo, cioè alla sua natura, ma solo la seconda sollevava per Aristotele problemi politici, poiché investiva la dimensione eminentemente pratica della decisione.
Una caratteristica puramente formale di questo modello di comprensione dello spazio politico si ritrova anche negli autori moderni, per i quali la determinazione rigorosa di condizioni e leggi dello stato civile comporta anzitutto l’uscita dallo stato di natura: richiede cioè – da Hobbes a Locke, da Kant a Marx – una distanza e uno scarto rispetto ad una dimensione naturale pre-politica, dalla quale, per l’appunto, si esce. Pensare la politica significa pensarla a partire da una simile soglia. Benché tutto o quasi sia cambiato nel passaggio dall’orizzonte classico a quello moderno, quello che viene comunque mantenuto in un caso e nell’altro è l’idea che lo spazio della politica non coincide con quello vitale o naturale, ma si situa a una certa distanza da esso. Quello spazio si staglia perciò su uno sfondo non modificabile di natura che mette l’uomo in comunicazione non solo, in basso, con la natura animale e la natura in generale, ma anche, in alto, con potenze religiose trascendenti l’ordine politico. È quindi inevitabile che queste potenze si sentano chiamate in causa dai movimenti contemporanei di riconfigurazione della soglia della politicità umana, e più specificamente dal fatto che lo sfondo naturale non stia più affatto sullo sfondo, essendo ormai venuto in superficie per divenire oggetto di interventi sulla vita sempre più profondi e invasivi. Qui c’è dunque un punto di domanda: è infatti del tutto ovvio che una così estesa ‘mobilitazione’, capace di coinvolgere il mondo intero e la sua ‘base’ naturale, solleciti anzitutto, nel pensiero religioso, analisi preoccupate, le quali si assumono spesso l’onere di segnalare il bisogno di istanze compensatrici, capaci di controbilanciare la spinta relativistica e nichilistica che sarebbe propria della modernità: capaci insomma di integrare tutto quello che appartiene alla mera "ragione del potere e del fare", alla ragione strumentale e calcolante che nell’enciclica Spe salvi viene indicata da Benedetto XVI come carente non solo rispetto alla fede, ma anche rispetto a un concetto (opportunamente ‘allargato’) di razionalità. Non è difficile ravvisare, in questo genere di interpretazione diagnostica del tempo presente, i tratti caratteristici di un pensiero conservatore tradizionalmente diffidente nei confronti della modernità, e troppo fiducioso in risorse metafisiche che la filosofia contemporanea ha da tempo posto in crisi. Ciò nondimeno, resta il punto, e cioè se le categorie politiche moderne siano ancora in grado di assicurare intellegibilità al proprio oggetto, e soprattutto, se siano ancora in grado di legittimare decisioni politiche fondamentali negli inediti ambiti nei quali devono oggi essere assunte.

(M. Adinolfi – D’Attorre, Introduzione a Aa. Vv., Religione e democrazia, Roma 2009)

Venerdì 22 maggio

10.00-13.00    “La filosofia e lo statuto del vivente”
                      intervengono: Giulio Giorello, Carlo Sini

15.00-17.00    “L’etica, la medicina e lo Stato”
                      intervengono: Piergiorgio Donatelli, Ignazio R. Marino, 
                      Adriano Pessina

17.30-19.30     “Diritto, vita e proprietà”
                      intervengono: Francesco De Sanctis, Eligio Resta

Sabato 23 maggio

11.00-13.30    “L’uomo e la tecnica”
                      intervengono: Emanuele Severino, Mons. Pierangelo Sequeri, 
                      Aldo Schiavone

16.00-19.00   “Natura umana e homo oeconomicus”
                      intervengono: Laura Bazzicalupo, Alberto Moreiras, 
                      Alessandro Pizzorno

Domenica 24 maggio

10.00-13.00    Tavola rotonda “La politica e le trasformazioni dell’umano”
                     modera: Giancarlo Bosetti
                     intervengono: Rocco Buttiglione, Massimo D’Alema, Avishai Margalit 

 (a Marina di Camerota, la II Summer School della Fondazione Italianieuropei)

Ripartenze

La Fondazione Italianieuropei e la Casa della Cultura di Milano, in occasione della pubblicazione del volume “Filosofia al presente”, organizzano a Milano lunedì 18 maggio alle ore 21 alla Casa della Cultura (Via Borgogna, 3) un seminario di discussione tra esponenti del mondo politico e accademico.

Filosofia al presente

Lunedì 18 maggio ore 21
Milano, Casa della Cultura
Via Borgogna 3  

Illustrerà il lavoro

Massimo Adinolfi

 

Ne discutono

Salvatore Veca

Pier Paolo Portinaro

Il volume “Filosofia al presente”, a cura del gruppo Filosofia della Fondazione Italianieuropei, contiene una riflessione su due nodi principali: le condizioni di salute della forma politica moderna ed europea per eccellenza, lo Stato, e la biopolitica, cioè gli inediti scenari in cui si ridisegna l’azione politica una volta che investa, come oggi sempre più accade, gli uomini in quanto viventi prima ancora che come cittadini. Oltre al merito delle questioni che così si intrecciano, sta anche l’esigenza di segnalare la necessità di una nuova presa di parola dell’intellettuale nello spazio pubblico. Sotto questo profilo, l’obiettivo non è certo quello di racchiudere il presente nelle parole della filosofia, ma eventualmente di immettere la filosofia nello spazio del presente


Ma che freddo fa

(Si noti il finale Pizza Express)

Friday, 15th May, 2009
9:15am

Introduction
9:30am
Keynote:
Jose Luis Villacañas [Murcia] – Hobbes versus Spinoza: Pertenencia y contingencia
10:30am
Coffee/Tea Break
11:00am
1st Panel:
         ·      Jacques Lezra [NYU] – The Aleatory Republic: Young Hegelians, Young Marranos
·      Nick Nesbitt [Aberdeen] – Marranism and the Movement of Ideas in the Radical Enlightenment
·      Antonio Rivera [Murcia] – Uriel da Costa, Marranismo n  y Modernidad
 
1pm
Lunch
2:30pm
2nd Panel:
·      Beth Lord [Dundee] – ‘Disempowered by Nature:’  Returning to the Question of Women in Spinoza’s Political Treatise
·      Massimo Adinolfi [Cassino] – Res quae finitae sunt:  Qualche riflessione sui fundamenti ontologici dei concetti politici spinoziani
·      Victor Egio [Murcia] – Del Dios de Grocio al Dios de Spinoza: Problematizar el laboratorio holandes.
4:30pm
Coffee/Tea Break
5:00pm
Juan Pedro Aparicio [Cervantes Institude, London] – Word Festival Event (Move to King’s College Center)
7:00pm
Return to Hotel
8:00pm
Dinner for Participants – Pizza Express, Union St., Aberdeen

Intellettuali dipietristi

E ora anche l’Italia dei Valori ha tra le sue file esponenti illustri della cultura italiana. Li mette in vetrina, li coccola, li candida, li impegna in convegni serissimi sulla società della conoscenza. Qualcuno, come Camilleri, non scende più in campo a fianco di Di Pietro, con la sua scombiccherata lista dei senza partito (la più qualunquista che si potesse immaginare, in effetti), ma resta comunque alla finestra in attesa che prima o poi lo si chiami (meglio prima che poi, però); qualche altro, come Claudio Magris, non si candida, ma dall’alto della sua indiscutibile statura intellettuale voterà convintamente il partito di Antonio Di Pietro, di cui dichiara di apprezzare soprattutto la fermezza.
Sarà. Se però si volesse fare dell’ironia la si potrebbe mettere così: se uno nutre pensieri dolenti sul decadenza della nostra civiltà (Giorgio Pressuburger, candidato), se un altro teorizza da trent’anni un’ontologia del declino (Gianni Vattimo, candidato), vuoi che non possa essere Di Pietro il baluardo contro l’imbarbarimento della vita pubblica continentale? Si chiama o no il suo partito l’Italia dei Valori? E vuoi che un esperto in declini e brutte pieghe dell’Europa continentale, come Magris, non abbia ragione di affidarsi, in un così difficile frangente, almeno agli amici, candidati nella lista di Tonino, per costruire con la loro serietà un argine dinanzi all’abisso?
Naturalmente, si può vedere la cosa anche in un altro modo. Come la dimostrazione che all’interno del partito democratico non circola uno straccio di idea, ad esempio. È comprensibile allora che uomini ricchi di idee, rappresentativi per storia personale e intellettuale di una fetta importante della cultura italiana del Novecento, cerchino casa altrove. E se proprio non trovano una casa piena dei serissimi balocchi mitteleuropei a cui sono abituati, non si può dire che non trovino almeno un taxi che li porti fino al Parlamento di Strasburgo. Non è che non si possa dire, per la verità; è proprio che Vattimo l’ha detto, quando ha spiegato che cosa sono ormai, per lui, i partiti: il mezzo di trasporto più veloce per andare in Europa. Roba che dovrebbe bastare per sollevargli contro tutto il feroce moralismo della base del partito in cui si candida, e iscriverlo per sempre tra quelli della casta, ma che invece, buon per lui, non sembra indignare più di tanto il partito degli indignati.
Ma sono davvero uomini ricchi di idee, quelli che Di Pietro porta in Europa? Qui non si giudicano i meriti letterari o filosofici, che non sono in questione, ma i meriti (o demeriti) politici, e una certa complessione intellettuale, che sembra farli sentire a loro agio più e portarli più a pensare i tramonti, i declini, le fini, che non a prospettare qualche nuovo inizio di cui almeno l’opposizione avrebbe urgente bisogno. Da questo punto di vista, comunque si giudichi la condizione in cui versa il partito democratico, è difficile immaginare che abbia perso, con queste candidature, il lievito concettuale necessario per ripensare il proprio ruolo, e la costruzione di culture politiche all’altezza del tempo.
Il fatto è che è problematico anche solo individuare la cultura politica del partito di Di Pietro, nel senso almeno che l’espressione "cultura politica" ha, nella temperie culturale di provenienza dei prestigiosi candidati dell’IdV. Si può forse dire che di una roba del genere non c’è più traccia nemmeno nel Pd, o anche che nella politica italiana non ce n’è più bisogno, ma, questo, oltre ad essere un errore storico e politico, sarebbe l’ennesima dimostrazione di quella supponenza intellettuale con cui si può sfiorare il paradosso, senza preoccuparsi delle conseguenze. E candidarsi così nel partito, tra i tanti e variopinti che ancora bene o male si barcamenano nello schieramento di centrosinistra, la cui caratterizzazione carismatica e personale, e cioè: la cui fisionomia da seconda repubblica berlusconiana è più accentuata tra tutte.
Ed è proprio così- Ed è la voce grossa e il parlar brusco di Di Pietro ad attirare studiosi di grande levatura. In fondo, di Di Pietro e della sua opposizione muscolare si potrebbe dire quel che una volta dicevano le mamme ai loro figli: è tutta salute, e si capisce che certe gracilità intellettuali provino una segreta ammirazione per chi mangia sano, vive all’aria aperta, e non si perde dietro la fatica di troppi pensieri.
A Magris sarà sicuramente venuto più volte in mente, in questi anni, quel personaggio de La Montagna incantata, l’olandese Mynheer Peeperkorn, ricco sfondato, magnetico e autorevole, che disprezza la cultura troppo "cerebrale" degli intellettuali, ma che è capace di raccogliere il consenso di tutti e dalle cui labbra tutti pendono. A cospetto di Peeperkorn, che "domina e spicca tra i presenti", le figure più pensose del romanzo sbiadiscono come immagini di un tempo ormai tramontato, pallidi fantasmi di una civiltà destinata a soccombere sotto i colpi del denaro, del successo, della notorietà. Se, com’è probabile, tra i pensieri che il grande borghese Magris avrà formulato, nel pensare all’Italia della seconda Repubblica e all’attuale Presidente del Consiglio, ci sono anche pensieri del genere, sia consentito di osservare che, a parte i soldi, di Peeperkorn e del suo andar per le spicce Magris ha finito con lo scegliersi una specie di astuta e neanche troppo nascosta caricatura.

Bronci

“Non si può mettere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno”. Così, con una citazione di Robert Musil, Massimo Adinolfi ha spiegato ieri il senso del “rapporto” elaborato dal gruppo di filosofia della fondazione ItalianiEuropei. Una citazione che si potrebbe considerare già smentita dal fatto che la fondazione presieduta da Massimo D’Alema e Giuliano Amato abbia un “gruppo di filosofia”, e che in quella sede, assieme a giuristi quali lo stesso Amato, Luigi Ferrajoli e Stefano Rodotà, il suddetto gruppo si ritrovi a discutere il proprio lavoro per buone tre ore.

(continua)

Il Paradiso (tu vivrai)

Roberto De Mattei si fa interprete, su Il Foglio, del pensiero di Benedetto XVI. Il punto è uno solo: i guai che provoca il rimettere tutto alla libertà della coscienza. Quel che sarebbe per l’ennesima volta da notare, è il modo in cui si argomenta in difesa della verità: siccome per la via del soggettivismo moderno (e relativismo e nichilismo, eccetera eccetera) non si salva nulla di ciò a cui tengo, allora il soggettivismo è erroneo. Anche a voler mettere al posto di "ciò a cui tengo" qualcosa di più solido e meno idiosincratico, resta che in tutte queste difese dell’oggettivismo nella morale (e non solo nella morale) ciò su cui l’argomento si regge è semplicemente l’indesiderabilità delle conseguenze. Un modo abbastanza comodo di argomentare.

Ma (lascio perdere quel che la filosofia contemporanea avrebbe da dire su queste superstizioni del soggettivismo e dell’oggettivismo) neppure questo modo è seguito veramente sino in fondo. Tra queste conseguenze, Roberto De Mattei mette infatti la seguente:
"I cattolici che rifiutano l’assioma extra ecclesiam nulla salus sono convinti che la ‘buona fede’ salva. Ma allora, assomigliano a quel teologo, conosciuto dal giovane professor Ratzinger, secondo cui persino i membri delle SS naziste sarebbero in Paradiso perché portarono a compimento le loro atrocità con assoluta certezza di coscienza".

Qualunque cosa pensasse il giovane professor Ratzinger, la mia idea è che se proprio devo trovare un posto per l’idea di Paradiso, se proprio mi deve tornare comoda, direi che è quel qualcosa in cui persino i membri delle SS naziste possono trovar posto. Non vedo a cos’altro potrebbe servirmi l’idea del Paradiso, e forse è vero: metterla in un modo o nel’altro è la misura oggettiva della coscienza dell’uno o dell’altro: di ciò su cui essa è fondata.

(Il Paradiso)

All'improvviso un dubbio mi assale

Mentre leggo della politica dei respingimenti: ma i rom, che fine hanno fatto? Sono stati tutti espulsi, sterminati, arrestati? Non c’è più neanche uno straccio di rom che delinque? Siedono per caso impunemente sugli autobus delle nostre città?

Enrico, domani

Vado su ffdes, ci trovo gli artisti uniti per l’Abruzzo. Mi ascolto la canzone: Se siamo insieme domani è già qui. La canzone finisce, comincia Enrico.

(Le parole che seguono sono state scritte in presa diretta, queste che avete letto invece no)
Enrico: – Domani non esiste vero papà? -.
Io: – Come? -.
Enrico: – Domani è un modo di dire un altro giorno -.
Io: – Ma un altro giorno esiste? -.
Enrico: – Per esempio domani sarebbe questo giorno, quindi venerdì è già passato e allora siamo a oggi e quindi domani non esiste. Venerdì è passato e oggi è sabato e non è domani. Domani ci sta sempre ma non è mai oggi. Se è venerdì, sabato era domani, di venerdì. Se venerdì è già passato, non è più venerdì, è sabato, e sabato non è più domani, perché oggi è sabato e domani non è sabato, se no ci sarebbero due sabati: capito? E quindi è lo stesso per domenica -.
Io: – Ma allora esiste? –
Enrico – Sì esiste solo che fa tutto il giro per i giorni. Pure oggi, e pure dopodomani. Se passi a quel giorno, quel giorno non è più domani, capito papà? Perciò hanno inventato i modi di dire: domani, dopodomani, eccetera -.

Il paradosso antropologico/2

Si può fare un’ontologia del presente? L’espressione, che è di Michel Foucault, ha un carattere paradossale: indica un oggetto di studio – il presente, le forme di vita contemporanee, quel che sta capitando proprio ‘adesso’ – che è storico quant’altri mai, e che anzi costringe persino a inseguire la cronaca; ma scomoda l’ontologia, cioè un sapere che, al riparo dal divenire storico, si propone di delineare le strutture universali e necessarie proprie di ogni ente in quanto tale: ieri come oggi, e oggi come domani. Perché dunque il proposito di costruire le linee di un’ontologia del presente non appaia soltanto un equivoco, occorre avanzare l’ipotesi che quel che sta succedendo oggi è perlomeno l’annuncio di qualche profonda modificazione in corso, che tocca se non la natura in generale, almeno la natura umana.

(continua su InSchibboleth)

Formula di chiusura

Mauro: – Papà, dove sta zio Vincenzo? -.
Io: – A Bologna -.
Mauro: – No: sta a casa sua -.
Io: – Ma casa sua sta a Bologna -.
Enrico: – E Bologna sta in Italia -.
Io: – Giusto -.
Enrico. – E l’Italia dove sta? -.
Io: – In Europa -.
Enrico: – E l’Europa? -.
Io: – Nel mondo -.
Enrico: – E il mondo? -.
Io: – Nell’universo -.
Enrico: – E l’universo? -.
Io: – L’universo non sta da nessuna parte -.
Enrico: – No. sta in Dio -.
Io: – E allora Dio? -.
Enrico ci pensa un po’, poi: – Dio è di Gesù -.