Perché alla sinistra manca il popolo

Premessa maggiore: il liberalismo costituisce l’orizzonte della politica contemporanea, almeno nei paesi a democrazia avanzata, come l’Italia, nel quale è acquisita la cultura dei diritti individuali fondamentali. Premessa minore: in questi stessi paesi, però, il populismo fa passi da gigante. Il populismo ha molte facce, ma un denominatore comune: si alimenta del discredito della vecchia politica, scavalca le forme tradizionali della rappresentanza, sminuisce la centralità dei parlamenti e dei partiti. E nel nostro paese questo genere di cultura politica fiorisce rigoglioso in una pluralità di varianti che vanno dal leghismo al giustizialismo, passando (più di recente) per il velinismo.
Se queste son le premesse, quali conclusioni deve trarre una forza politica riformista, che voglia difendere i principi di un ordinamento liberaldemocratico, ma che non voglia limitarsi ad apparire una forza conservatrice: di equilibri costituzionali e di buone maniere?
Alla scuola della Fondazione Italianieuropei, conclusasi domenica, D’Alema ha ragionato di questo. Il tema generale aveva una formulazione decisamente ambiziosa: "il futuro della natura umana", ma a riportare la discussione nell’orbita dei problemi che ha oggi l’opposizione ci ha pensato il filosofo Avishai Margalit: la politica è vincere o perdere le elezioni, ha detto; perciò, lasciamo perdere le diagnosi di lunghissimo periodo, come ad esempio le cause remote dei disastri storici della sinistra (e dire che Margalit non conosce Fausto Bertinotti, né ha letto il suo ultimo libro!) e dedichiamoci invece a quel che più modestamente va fatto qui e ora, per rovesciare un ciclo che non ha nulla di irreversibile o di inevitabile.
Anche perché è solo lo spettacolo che offre l’Europa a deprimere la sinistra: altrove nel mondo, in paesi più giovani e più dinamici di quelli europei, la sinistra ha ancora carburante sufficiente; è invece sul continente, e in Italia in particolare, che una crisi dalle proporzioni non modeste non basta a rilanciare una qualunque iniziativa politica di stampo progressista.
Da dove cominciare, allora? Forse dai fondamentali. Perché se è vero che negli ultimi decenni il collante ideologico della globalizzazione è stato un "liberalismo antipolitico" (così lo ha chiamato D’Alema), è allora un altro liberalismo, attento alle ragioni della politica democratica, a dover essere costruito. Se ad esempio la nostra democrazia rischia di assumere sempre più un carattere censitario, a causa del fatto che milioni di lavoratori non ne fanno parte in quanto stranieri, è chiaro che una forza di sinistra, che guarda anzitutto al mondo del lavoro, dovrà battersi per modificare questo stato di cose. Né può bastare la vernice postmoderna con cui si passa oggi dal singolare collettivo al plurale individualizzato – dal lavoro ai lavori – per ampliare lo spazio politico democratico e includervi quel consistente numero di uomini e donne a cui è negata oggi la condizione fondamentale della rappresentanza politica.
Però forse la cosa suona troppo di sinistra, si potrebbe obiettare. Ma almeno suona, si dovrebbe allora rispondere. Ed è molto dubbio che rinunciando ad essere qualsiasi cosa si riesca davvero a parlare al "paese profondo"; piuttosto, si rinuncia a parlare punto e basta. Né vi è motivo per ritenere che i cattolici e i moderati non possano vedere il loro interesse in una visione che non si affida solo alle ragioni dell’economia e del successo individuale. Basta il richiamo di ieri dei vescovi alle tutele per i lavoratori a dimostrare il contrario. Qui c’è indubbiamente un lavoro di più lunga lena, di scomposizione dei quadri ideologici nei quali è contenuta oggi una consistente parte del voto moderato. Ma una sinistra che rinunci a sostenere che né Dio né il mercato né nessun altro ha stabilito, men che meno dimostrato, che è razionale solo ciò che è mosso dall’egoismo individuale (o peggio che ciò che tutto muove è solo l’egoismo individuale) semplicemente non è una sinistra, e quel lavoro non potrà neppure avviarlo.
Questo però significa inventarsi in fretta un nuovo linguaggio, un linguaggio condito di speranza e di fiducia, invece di continuare a fare del vittimismo, storico o cosmico che sia. Guardate Obama, he detto Margalit, e anche su questo non aveva torto. Obama non è stato eletto perché nero e sfigato, ma perché vincente e convincente. Sicché non ha vinto perché nero, ma: anche se nero. Magari aveva persino ragione Berlusconi: han preso il colore della sua pelle per un’abbronzatura, ma proprio così Obama ha dimostrato non di dover cancellare la sua identità di colore, ma che si può far politica in uno spazio che è diverso o che è più grande di quell’identità. Qui c’è insomma da tracciare un limite anche sul lato sinistro: i teorici delle differenze oppresse devono sapere che il vittimismo è un lusso che si possono permettere solo i vincenti (e infatti Berlusconi ne fa uso solo quando è al governo, non dall’opposizione).
E la natura umana? Quella resta sullo sfondo. O meglio: viene piuttosto in questione come condizione umana (o, a volte, disumana). Può darsi infatti che inedite prospettive sulla specie si profilino già nel prossimo fine mese, e allora, forse, ci sarebbe di che spaventarsi. Ma di sicuro rimandare la soluzione dei problemi di fine mese a quando cambierà la specie umana non sarebbe, per la sinistra e per il partito democratico, una gran bella idea.

2 risposte a “Perché alla sinistra manca il popolo

  1. Fosse per me, il problema di fine mese consisterebbe in come disfarsi il più rapidamente possibile del Partito democratico (visto che, orfano dei Ds, sono finito a votare IdV). Ad ogni modo, una analisi abbastanza lucida mi sembra quella che ho letto qui

    http://falsoidillio.splinder.com/post/20582929/marciare+divisi+e+perdere+tutt

  2. utente anonimo

    ‘una sinistra che non rinuci a sostenere….’ tutto quello che ha scritto lei, sono d’accordo; mi azzarderei a dire ‘una sinistra che non temi di sostenere….’ ma ho paura che a volte quella sinistra di cui parliamo, o per lo meno la sinistra di cui i media mi offrono un’immagine (che è sempre più una caricatura), abbia paura di sostenere qualcosa di cui non è poi così tanto convinta e per questo un nuovo linguaggio che sia condito di speranza e fiducia mi spaventa almeno quanto un linguaggio condito di vitimismo, forse perchè, in questo senso, il problema mi si rappresenta sotto le vesti di quel ‘condito’…..lo ha detto anche Sini a Marina di Camerota “il linguaggio è la prima macchina a disposizione dell’uomo, la prima protesi che l’uomo butta fuori di sè, e quando lo reincorpora, lo reincorpora ancora e sempre come una protesi”. Allora, dopo questo sono sicura che, perchè la sinistra esaurisca il suo compito politico, una protesi non mi basta, anche se vestita del miglior abito possibile.

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