Archivi del mese: giugno 2009

Il centro di comando

"Sul mercato finanziario agiscono tutte le condizioni della vita della nazione, tutti gli eventi politici, economici e naturali, tutti i progetti e le prospettive riguardanti il futuro del sistema economico […]. I mercati finanziari sono e sono sempre stati il centro di comando del sistema capitalistico".

(A commento di questo articolo, da J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, cit. in G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del XXI secolo, Feltrinelli 2007, grande libro che finalmente  sono riuscito a finire. In memoria dell’autore)

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liberopensiero

 

50 centesimi

"Destra e sinistra. Che la distinzione fra destra e sinistra sia da buttar via, è ormai un luogo comune dell’attuale dibattito politico. Rispondo […] che non ho nulla in contrario a riconoscere la storicità della contrapposizione e la convenzionalità della denominazione. Ma ripeto che la tendenza di un universo conflittuale come quello politico a dividersi in due parti contrapposte non è mai venuta meno, e oggi più che mai una delle ragioni della divisione è il diverso atteggiamento di fronte al problema dell’eguaglianza e della diversità. E’ innegabile che uno dei grandi problemi del nostro tempo è quello delle migrazioni di massa che stanno sconvolgendo le nostre società. Di fronte a questo problema la distinzione fra un atteggiamento egualitario e uno inegualitario è evidentissima, e almeno sinora anche la denominazione di destra e sinistra per riconoscerli è appropriata.
"Religiosità-laicismo. Prima di dichiarare superata questa dicotomia occorrerebbe intendersi sul significato delle due parole e distinguere le varie aree nelle quali viene di solito applicata […].
Quanto alle diverse aree in cui vale la distinzione, alla distinzione fra religione e laicismo corrisponde in politica la distinzione fra Stati confessionali e Stati non confessionali o laici; in etica, la distinzione fra etica religiosa e etica laica, che sono come non mai in conflitto su temi all’ordine del giorno come aborto, eutanasia, trapianti […]. Se c’è un’epoca in cui il dibattito fra una visione laica e una visione religiosa della vita non accenna a spegnersi è […] proprio la nostra.
"Borghesia-proletariato. Che questa dicotomia sia superata almeno nei paesi capitalistici è sotto gli occhi di tutti. Il grande contrasto che aveva colpito Marx era quello che si era aperto nei paesi che stavano avviandosi alla grande rivoluzione industriale. Il ripeterlo oggi è una banalità. Ma questo era soltanto uno dei contrasti fra chi sta in alto e chi sta in basso nella scala sociale nel mondo di oggi. Il superamento del contrasto fra borghesia e proletariato, posto che sia avvenuto, non cancella altre «dicotomie» […] di cui la sinistra dovrebbe occuparsi e preoccuparsi".
E’ vero che la citazione che vi propongo è tratta da un libro che ho acquistato l’altro giorno al modico prezzo di 50 centesimi (N. Bobbio, Né con Marx né contro Marx, Editori riuniti, Roma 1997). E’ vero che si può trovare molta semplificazione nelle dicotomie che Bobbio presentava  al suo interlocutore (Costanzo Preve): tutto quello che volete. Ma siccome a fare il punto sul PD sembra che le dicotomie che vengono fatte funzionare siano nientepopodimeno che giovane/vecchio, oppure personalmente credibile/non credibile, e siccome si dice alquanto candidamente che dopo tutto ci si riunisce senza sapere "neanche bene perché", trovo di non avere fatto una follia spendendo i miei 50 cent per questo vecchio libro. Non saprò fare altrettanto bene il punto sul PD, ma almeno non sarà nel vuoto che fisserò il mio punto.

D ci piace

Pare che al prossimo Congresso del PD, nonostante lo spirito del Lingotto, i piombini non vogliano più Mi fido di te come colonna sonora. Io ho una modesta proposta, al riguardo, che ha il pregio di indicare già il profilo del prossimo segretario del PD:

Beh insomma… modestamente…
Il mondo di fuori non cambia colori
facciamoci sotto gli diamo due mani
Tutti d’accordo? D’accordo!!
Tutti d’accordo? D’accordo!!
Da questa mattina facciamo sul serio
chi vuole sognare lo faccia davvero!
Tutti d’accordo? D’accordo!!
Tutti d’accordo? D’accordo!!

A ci piace perchè parla con il cuore!
B ci piace perchè è buono come il pane!
C ci piace perchè sogna e fa sognare!
D ci piace perchè è il più più che speciale!

(ecco il link)

Giovani idee

Ma che lo facciamo a fare, il congresso del PD? Repubblica sa già cosa la base vuole. La base poi sta alzando la voce, quindi come si fa? Ratifichiamo il sondaggio di Repubblica: primarie con Debora, Serracchiani segretario, via tutti (vecchie facce, nomenklatura, cardinali), e ripartiamo.

("Giovani idee"? Ma se Repubblica dice ‘sta cosa da quando è nata? Che poi siano arrivate ad essere giovani pure le idee: beh)

Il punto metafisico

(A proposito delle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein:
Cosa consente alla maestra di decidere che un bambino, il quale abbia eseguito correttamente nove addizioni su dieci, si è semplicemente distratto nell’unico caso errato? Perché non pensa invece che non ha ancora compreso la regola dell’addizione? La risposta è: la forma di vita. E non è, come si comprende sotto, una risposta definitiva).
 
"«Un bambino si è fatto male e grida: gli adulti parlano e gli insegnano esclamazioni e, più tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo comportamento del dolore». Strano miscuglio di ovvietà e intuizioni profonde! Gli adulti insegnano al bambino il modo di connettere parole e cose. E come glielo insegnano? Con le parole («gli parlano»), il che implica che il bambino sa già come connettere parole cose, altrimenti nulla capirebbe" (V. Vitiello, In lotta con il linguaggio. Da Wittgenstein a Nietzsche (passando per Hegel), in Il pensiero, 2/2008, p. 120).
L’implicazione è errata, a mio avviso. Anzitutto però direi: è proprio quello che accade! O almeno: io ho fatto proprio così, coi miei figli! Io ho parlato loro ben prima che loro capissero quel che dicevo! Insegnare un nuovo comportamento di dolore non significa affatto insegnare il significato delle parole che costituiscono quel nuovo comportamento. È ben chiaro che impariamo a parlare ben prima di imparare il significato delle parole. Che impariamo a connettere parole e cose senza passare per il loro significato. Proprio questa è la ragione per cui LW parla di addestramento o di ammaestramento, al riguardo. E tutta la faccenda è proprio che non si può indicare il punto o la soglia o il meccanismo che consente di indicare che l’addestramento è completato e che solo ora si comprende davvero; che è finito l’automatismo macchinico (o animale: ma metto tra parentesi queste parole), e che siamo entrati nel regno dello spirito.
Ma non c’è in questo nulla di misterioso, perché una lettura radicale (ma fedele, per quel che conta) di LW deve mostrare che questo punto non c’è! E non c’è non perché non sia un punto (ma poi: cosa?) ma perché l’attraversamento di quel punto non è alle nostre spalle, così che lo si debba indicare (o mancare di indicare, per misteriose ragioni). Il fatto è che quel punto non lo si è mai superato una volta per tutte e definitivamente, quel passaggio o quella metabasis non si è mai compiuta, ed è perciò che non la si può indicare (ed è perciò che io non direi mai che noi siamo dentro l’area del significato, dentro l’iconologia della mente o dentro qualunque altra cosa: io non concedo questo dentro). Proprio come non si può dire una volta e per sempre (riprendo l’esempio di sopra) che per la maestra, per noi o per Dio il bambino che ha eseguito correttamente nove operazioni su dieci ha superato la fase dell’addestramento e possiede il significato concettuale della regola che ora sa applicare (mentre prima no).
Non lo si può dire per il bambino, e naturalmente non lo si può dire per noi stessi.
Si può dare molteplice seguito a quest’osservazione, che ai miei occhi è essenziale. Quel che qui brevemente aggiungo è che la decisione (è LW che parla di una decisione: non mi spiego sulla parola) si accompagna sempre a un indecidibile, e che proprio perciò non c’è motivo di dire (come fa Sini) che noi abbiamo già da sempre attraversato la soglia più di quanto si debba dire che non l’abbiamo mai attraversata (la soglia, per esempio, che tanto preme oggi, dell’animalità).
 

La giostra della famiglia in vacanza

In un normale zainetto, ingenuamente brevettato nel secolo scorso, cioè prima dell’avvento dei parchi di divertimento di massa, la famiglia italiana media, composta da padre madre e due figli, cerca solitamente di stipare: la crema solare protezione totale, un paio di cappellini con visiera, due costumi da bagno, due paia di ciabatte di ricambio, un ricambio per ciascuno dei pargoli completo di calzini canottiere, pantaloncino, maglietta (e due giubbini antivento perché non si sa mai), due teli per il mare, un pallone gonfiabile, un Mp3 player, un apparecchio Nintendo, due lattine di coca-cola e due succhi di frutta, un paio di panini e un paio di tramezzini, una scatola di cerotti, qualche forcina per i capelli, fazzolettini di carta, salviette rinfrescanti, pile, caricabatteria.
Così equipaggiati vanno. Dinanzi a loro si estende al sole il parco: con le giostre, le attrazioni e gli spettacoli. Sono le dieci del mattino, la temperatura viaggia già intorno ai 30 gradi e i nostri eroi aspettano da un’ora per essere i primi ai tornelli di ingresso. Stanno già studiando la mappa del parco, e si chiedono come schivare le colonie e i gruppi organizzati che ingrossano pericolosamente le file. Hanno infatti solo otto ore di tempo per: assistere a spettacoli, musical e proiezioni, sbracciandosi furiosamente perché i bambini selezionati ogni volta per i giochi da pagliacci e maghi sul palco siano proprio i loro; provare tutte le giostre e le attrazioni senza lasciarsi spaventare da cartelli che precisano: "da questo punto il tempo di attesa è 90 minuti"; assecondare i figli ("siamo qui per loro") e fare tutti i giri che chiederanno, lasciandosi tirare per la maglietta; mangiare e bere non quello che hanno portato con sé ma quello che i figli vorranno (se nello zainetto c’è la coca cola vorranno l’aranciata, e viceversa: immancabilmente).
Il percorso netto prevede pure che ad ogni giostra, ad ogni pupazzo, ad ogni altalena, la nostra famiglia si fermi per qualche foto: foto a lui coi bambini, a lei coi bambini, a lui lei e i bambini, ai soli bambini, alla sola giostra. Siccome il progresso tecnologico ha messo nelle nostre mani quegli strumenti di tortura che sono le fotocamere digitali, con le quali si possono fare centinaia di foto a costo zero, e siccome – è noto – l’etica non tiene il passo della tecnologia e dunque tutto ciò che appare realizzabile per questo solo va anche realizzato, si scatteranno tutte le foto che la memory card della macchina contiene: e sono numeri a parecchie cifre. Lo stesso supplizio, naturalmente, va ripetuto con la videocamera.
E la giornata trascorre. Si avvicina l’orario di chiusura, i bambini cominciano ad essere stanchi e nervosi, forse si accontenterebbero di un gelato e di una panchina, ma il tempo corre e non sono state ancora affrontate le attrazioni estreme. Questa è l’ora in cui i duri cominciano a giocare, l’ora in cui i genitori tornano a comandare. Al diavolo ogni prudenza: adesso sono loro a tirare i figli per la maglietta, perché non si perdano l’ultimo giro sulle montagne russe, oppure la ruota panoramica, o anche solo il carosello che sarà pure riservato ai bimbi di due anni ma va fatto anche quello.
Uno pensa che su questa irresistibile pulsione al divertimento fosse tutto già scritto nel libro di Pinocchio, quando narra del paese dei balocchi e di come Pinocchio si lasciò sedurre; e invece non sta scritto proprio nulla. Sul far della sera, si capisce infatti che a salire sul carro trainato "da un omino "tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre" siamo oggi un po’ tutti: e più gli adulti che i bambini. Collodi, del resto, dei "cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi" non dice neanche una parola. Li salta a piè pari, e passa subito all’amaro risveglio con le orecchie d’asino. E si capisce: bastano due giorni in un parco di divertimenti per comprendere che cinque mesi là dentro sarebbero un inferno per chiunque.
Ma l’imperativo del nostro tempo è comunque: "Godi!". Lo ha scritto il filosofo sloveno Zizek ed è vero: non c’è nessuna ingiunzione che ci viene più insistentemente rivolta dal sistema della comunicazione, dalla pubblicità, dai media. "Godi!" è l’unico dovere al quale non possiamo sottrarci, senza che le nostre vite perdano completamente senso: a che vale una vita senza weekend? Cos’è mai un’estate senza bagni al mare, un compleanno senza la festa, un sabato senza sabato sera?
E purtroppo, in questi giorni, a leggere almeno i quotidiani, sembra che nessuno, ma proprio nessuno, che conduca il carro o ci si lasci portare, sia capace di sottrarsi a questo paradossale dovere. Speriamo solo che non tocchi anche a noi, come a Pinocchio, di ritrovarci tutti somari, perché buone bambine dai capelli turchini che ci aspettino pazienti purtroppo non ce ne sono più.
(Il Mattino, con un po’ di anticipo rispetto alla disponibilità on line: mi scuso col giornale. E mi scuso anche con la mia famiglia: nonostante certe apparenze, l’articolo non è precisamente autobiografico)

Il socialismo sostituito dal nuovismo

Si dice: i partiti che in Europa appartengono al campo socialista hanno subìto con il voto di giugno una dura sconfitta. La cosa è tanto più significativa in quanto la consultazione si è tenuta in un momento di crisi: sarebbe stato perciò naturale attendersi un risultato importante per la sinistra, che poteva tornare a cavalcare le sue ricette tradizionali nelle materie economiche e sociali. E invece non è andata così. La sinistra ha perso in quasi tutta Europa, mentre il Partito popolare risulta essere di gran lunga, nel Parlamento di Strasburgo, il primo raggruppamento. Si dice così, e si conclude: dunque alle socialdemocrazie europee tocca mettersi con maggiore convinzione sulla strada dell’innovazione, della rottura col passato, dal momento che con il voto nulla o quasi del vecchio patrimonio politico e ideologico pare essersi salvato. Se poi si traduce nel linguaggio della politica italiana questo ragionamento sembra che esso conduca diritti a quello «spirito del Lingotto» che aprì due anni fa, con il discorso di Veltroni a Torino, la prima stagione del Partito democratico. A quello spirito, infatti, nonostante i suoi progetti di vita lo portassero altrove, è tornato di recente l’ex segretario, senza tuttavia spiegare quando esso sarebbe andato smarrito, visto che lui stesso, che lo ha enunciato e impersonato, ha tenuto la segreteria del Pd fino al febbraio scorso, e che a sostituirlo dopo le dimissioni, per affrontare il voto europeo, non è andato un suo acerrimo oppositore ma il vicesegretario Franceschini, che ha tuttora il suo leale e convinto sostegnoA ogni buon conto, nel discorso del Lingotto si diceva analogamente: «L’Europa è andata a destra perché la sinistra è apparsa imprigionata, salvo eccezioni, in schemi che l’hanno fatta apparire vecchia e conservatrice, ideologica e chiusa». Se questo era vero (e in realtà era solo parzialmente vero), allora la domanda, riferita all’oggi, è se il Partito socialista di Zapatero o il Partito laburista di Brown si siano presentati alle scorse elezioni di giugno ancora nella forma «ideologica e chiusa» che il discorso del Lingotto imputava loro, e se, soprattutto, hanno perso per questo. La domanda è poi, per venire all’Italia, se il partito democratico, guidato da Veltroni e Franceschini, abbia conservato, nei due anni che lo separano dal Lingotto, una tal forma «ideologica e chiusa» – e in tal caso a chi poi se ne dovrebbe imputare la responsabilità, visti i ruoli dirigenti da loro ricoperti. In realtà, si vede bene che è piuttosto il contrario. Che almeno per il caso italiano le cose sono andate diversamente. Che cioè il Pd, che nel discorso del Lingotto si presentava come un partito del tutto nuovo, come il partito del nuovo millennio, non è apparso affatto imprigionato in una forma «vecchia e conservatrice, ideologica e chiusa», perché è apparso, casomai, stentare a trovare una forma che fosse una. Sul concetto di ideologia ci sarebbe poi da intendersi. Nel linguaggio corrente, e nel discorso del Lingotto, il termine, oltre a significare qualcosa di brutto e impresentabile, indica un insieme compatto di idee, abbracciate però indipendentemente dai fatti e adoperate come chiave generale di interpretazione dei fatti stessi: qualcosa come un partito preso, insomma. Poi però uno guarda i risultati delle europee, e scopre che i due partiti usciti vincitori dalle urne, l’Idv e la Lega, sono le due formazioni a più alto tasso di «partito preso»: quelli cioè di cui si può sapere cosa pensano i loro dirigenti intorno a questo o a quello ancor prima di leggere le loro dichiarazioni – mentre al contrario, nel caso del Pd, è difficilissimo sapere in anticipo quale linea mai prenderà. Forse anche il partito tutto programmatico e anti-ideologico sin qui immaginato, nello spirito del Lingotto, ha bisogno di qualche bussola in più. Tutto questo non significa che bisogna far macchina indietro e tornare appagati ai vecchi partiti di una volta. Ma poiché alla prova del voto la sinistra europea è andata avendo già da anni mollato gli ormeggi, e abbracciato una cultura vagamente liberale, è più ragionevole indicare nella confusione ideologica (o più banalmente culturale), sin qui comportata da un generico nuovismo, la prima responsabile delle sconfitte elettorali. Dopo di che, la nuova sintesi politica resta ancora da fare, e il congresso del Pd sarà probabilmente un buon congresso se proverà a farla. Il che però significa: piantare sì nuove radici, ma evitando di carbonizzare i vecchi alberi. Anche perché, per un partito, forse non è il caso di abbracciare euforici le parole di Nietzsche: rotolare «via dal centro verso la x», e affrontare il mare incognito della modernità senza avere né fondamento né scopo.

(Il Mattino)

Socialdemocrazia e voto europeo

Non entro nel merito della riflessione sul destino delle socialdemocrazie europee che Andrea Romano ha proposto su Il Sole 24 Ore. Mi soffermo solo sull’argomento finale: nel recente voto europeo le sinistre non hanno tratto affatto vantaggio dalla crisi, dice Romano (e questo è un fatto), il che dimostra che le ricette tradizionali della socialdemocrazia non sono più credibili, almeno agli occhi dell’elettorato europeo. E questo però non è un fatto ma solo un’opinione, che peraltro ho sentito far propria anche da Biagio De Giovanni, alla recente presentazione napoletana del suo ultimo, bel libro (A destra tutta, Marsilio).
E’ un’opinione, peraltro, discutibile per la banale ragione che non mi pare affatto che le forze di sinistra si siano presentate all’elezioni sbandierando programmi di schietta impostazione socialdemocratica. Non ho il quadro complessivo delle prese di posizione dei diversi partiti aderenti (o quasi aderenti) al partito socialista europeo, ma se devo giudicare dal caso italiano, mi sembra difficile sostenere che il nostro caro partito democratico si sia presentato con un profilo tradizionalmente socialdemocratico e che sia stato perciò punito dagli elettori. Tutt’altro.
Può darsi dunque che la sinistra debba fare ancora molti passi "all’insegna di quello spirito di libertà e innovazione che ne ha segnato la sua più recente e migliore stagione", come scrive Romano, ma può darsi anche che proprio quello spirito, di cui sono impregnate le sinistre europee che hanno governato negli anni Novanta, e con le quali si sono presentate all’appuntamento elettorale, non basti più, in tempi di crisi.

Duque e Vitiello

Le puntata di Europa, Occident, su Red Tv, si avviano ad essere disponibili (non scaricabili).

Qui trovate Vitiello; e qui Duque.

Effetto in quanto

"Occorre un nuovo materialismo, distante da ogni ontologia che basi il principio della realtà del reale sulla correlativa affermazione dell’irrealtà dell’irreale".
P. Macherey, a proposito di Spettri di Marx di Derrida.
Formalizzo: il nuovo materialismo deve porre A senza porre non-non-A. Si può fare?
Si può fare solo se A = non-non-A è la legge non di tutta la realtà, ma solo di una sua porzione (una proposizione problematica).
Naturalmente, questo non significa che in altre porzioni della realtà impazzi la contraddizione più sfrenata; significa invece che l’operazione logica di identificazione non è neutra né innocente, ma ha effetti su ciò che viene così identificato (e – occorre aggiungere – ha o può avere effetti alienanti).
L’effetto in questione si chiama effetto "in-quanto". Identificare è prendere una cosa in quanto è quella cosa (e così non è mai prenderla tutta: in quanto introduce un complemento di limitazione)
Tenetelo a mente, e torniamo a Derrida
* * *
Per Derrida, il limite della critica marxiana sta precisamente in ciò, che egli scopre il carattere spettrale della realtà (la "fantasmagoria" della merce), con riferimento economico-politico al dominio del capitale (ma in generale: del valore di scambio sul valore d’uso), quasi che il valore d’uso non ne fosse anch’esso toccato: "Chi ci assicura di questa distinzione?" – di questa pura distinzione, cioè, fra valore d’uso e valore di scambio?
Se la distinzione non è mai pura, significa che la cosa è sempre, già da sempre "scambiata". E infatti: il primo e più fondamentale degli scambi, quello che rende possibile ogni equivalenza (e per esempio quella fissata nel prezzo) è lo scambio dell’identificazione. Non è che identificare una cosa (una biglia di vetro, ad esempio) significa cambiarla o scambiarla, ma per scambiarla, potremmo dire, occorre che sia all’opera l’effetto "in quanto". E ancor prima per usarla: sia infatti che io voglia venderla, sia che voglia usarla, occorre che io la prenda in quanto gioco, e non in quanto pezzo di vetro (e per di più, per prenderla come gioco, occorre pure che altri la prendano così: ma questa complicazione, per cui nessuna identificazione si fa da soli, qui ce la risparmiamo).
* * *
La critica di Derrida dice dunque (o le possiamo far dire): ogni cosa è presa in quanto. Questo effetto non lo puoi togliere mai. La prima risposta potrebbe essere: d’accordo, non prenderò mai la cosa tutta. La cosa tutta (la realtà vera) è perciò un miraggio proiettato dall’in quanto? Ora, sarà pure un miraggio, ma senza quel miraggio, come posso vedere:
1- i molti in quanto della cosa?
2 – l’in quanto stesso?
1 – Prendere la cosa per un lato soltanto, senza vedere i suoi molti lati: questa è poi l’alienazione, che Marx critica.
2 – Con ciò, d’accordo, non siamo ancora alla cosa tutta, onnilaterale (il miraggio). Siamo ai molti lati, non alla cosa da tutti i lati. Ma senza di essa, la realtà tutta, vera e intera, non viene forse definita proprio dall’effetto "in-quanto"? Cioè: non è ora questo stesso effetto la verità della realtà tutta?
* * *
Ma poi (seconda risposta): è davvero così difficile prendere la cosa da tutti i lati? Prendo una biglia di vetro, e gioco. Derrida mi farà notare che la prendo in quanto biglia. Ma io dico: questo è solo il modo in cui tu intendi che io l’abbia presa, e di cui hai bisogno per distinguere i molti lati della cosa. Certo: se vuoi i molti lati della cosa, per criticare l’alienazione, devi prima mostrare l’effetto all’opera, e poi come l’alienazione consista nell’oscurare gli altri lati della cosa. Devi eseguire tutte e due le operazioni. E se invece ti porti al di qua dell’operazione stessa di identificazione, accusando l’effetto "in-quanto" in quanto tale?
Ora, Derrida penserà che così siamo catturati dal miraggio. Ma in realtà è lui che è prigioniero della intranscendibilità dell’effetto "in-quanto". E non è che così si rinuncia a criticare l’alienazione in quanto si rinuncia a mostrare gli altri lati della cosa; si afferma piuttosto la possibilità di un mondo dis-alienato (che può anche essere la possibilità di descrivere in questo modo una piccola porzione di mondo, o di vita).
Ecco tutto. Derrida pensa in fondo che la cosa tutta sia solo un miraggio, e che sia pericoloso non vedere che è solo un miraggio, perché è pericoloso pretendere di realizzarla, sganciando la cosa da tutti gli in quanto che le sono agganciati sul dorso. Io penso invece che è pericoloso pretendere di realizzarla (vedi post precedente), anche perché non c’è da sganciarla da alcunché (altrimenti non è la cosa tutta, ma la cosa sganciata) ma ciononostante non penso che sia un miraggio. Intendere il possibile come un miraggio solo perché non è realizzabile è infatti dare ragione alla realtà dell’alienazione.
* * *
Infine: la cosa tutta, se è tale, è sempre reale e mai da realizzare. È reale, ma ora non chiedetemi di identificarla. (E così si dà ragione a Macherey, che chiede di rimaterializzare Marx, dopo la dematerializzazione di Derrida. Rimaterializzarlo dopo la dematerializzazione richiede un nuovo concetto di realtà che, come si vede, non si oppone al possibile)
 

Il sorriso della giovane cameriera

 "Nei Souvenirs di Alexis de Tocqueville si narra di una giornata del giugno 1848. Siamo all’ora della cena, in un bell’appartamento della Rive Gauche, VII Arrondissement. La famiglia Tocqueville è riunita. Nella dolce serata, tuttavia, improvvise risuonano le cannonate che la borghesia tira contro la canaglia operaia insorta – rumori lontani, dalla Rive Droite. Ma a una giovane cameriera, che serve in tavola e che arriva dal Faubourg Saint Antoine, sfugge un sorriso. Viene immediatamente licenziata. Non v’era forse, in quel sorriso, il vero spettro del comunismo? Quello che atterriva gli Zar, il papa… e il sieur di Tocqueville? Non v’era là una scintilla della goia che costituisce lo spettro della liberazione?" (Il sorriso dello spettro, in Aa. Vv., Marx & Sons. Politica, spettralità, decostruzione, Mimesis, MIlano 2008)
* * *
"Perché la decostruzione si inceppa, subordinando la nuova fenomenologia dello spettro (che, ciononostante, ha una base ontologica produttiva e singolare) alla più antica delle ontologie reazionarie: quella teologica?"
Toni Negri su Jacques Derrida. Più precisamente: su Spettri di Marx (nel saggio citato).
Volgarizzando un po’: la fenomenologia dello spettro è la descrizione di come funziona il capitalismo moderno. Marx però poteva ancora descrivere il capitalismo moderno per smascherarne la logica, perché, a smascheramento effettuato, aveva da liberare dallo sfruttamento capitalistico il lavoro operaio: una cosa ben reale. Invece con Derrida diviene ingenuo pensare che vi sia un soggetto produttivo (reale e non spettrale) da emancipare. E così quel che rimane a Derrida (al "triste tergiversare di Derrida") non è una prassi politica ma solo un "discorso di resistenza etica" dai contorni paradossali (infinitamente altri da ogni definizione di diritto).
Invece Negri:
"Se Derrida, con zelo e intelligenza, affina le «armi della critica», gli fa tuttavia difetto l’altra spettrologia, quella organizzata dalla «critica delle armi".
Ecco il punto. Il concetto di realtà che non c’è in Derrida è quello che organizza e autorizza la critica delle armi. Se devi (come devi?), "costituire una nuova realtà", c’è poco da fare: le armi della critica non bastano.
* * *
Ora, il Sieur di Tocqueville avrà visto lo spettro del comunismo, sul volto della giovane cameriera. Ma la giovane cameriera no: lei non l’ha visto né, soprattutto, dato a vedere. E perché lo spettro diventi reale, "nuova realtà", c’è bisogno che anche lei, che anche la cameriera voglia darlo a vedere. Ma la cameriera vuole darlo a vedere? Vorrà mai darlo a vedere? Di quale critica c’è bisogno perché voglia anche lei "costituire una nuova realtà"? Se non bastano le armi della critica per strapparla alla tavola imbandita, la critica delle armi finirà col rivolgersi anzitutto contro di lei, contro il suo volere. Perché avrà pure sorriso, ma un sorriso non basta, per "costituire una nuova realtà".
Il sorriso della cameriera sta invece tra la tavola imbandita da lei ma non per lei, e le barricate, alzate non da lei ma per lei. Forse, non vi è sorriso se non lì. Negri pensa che la prima cosa non va bene, ma la seconda sì (il Sieur di Tocqueville pensa naturalmente che la prima va bene, la seconda no). Forse Derrida è più fedele al senso di quel sorriso, che si allarga sul volto della giovane cameriera tra le due situazioni: gli va bene questo tra, più rispettoso di lei delle altre due situazioni.
Questo tra è, infatti, il senso della realtà per la decostruzione: (più di) un sorriso tra le tavole e le barricate.
(E lo sfruttamento? C’è, e come se c’è. Ma forse ci si illude se si pensa che fiorirebbero più sorrisi, se accettassimo di morire sulle barricate per rovesciare le tavole).

L'autore impegnato

"Scurati ha indosso la sua solita scura tenuta oltre al solito sguardo accigliato – non per niente egli è un autore impegnato" – Gaetano Cappelli, intorno al Premio Strega. (Non ho mai letto un suo libro, credo che lo farò)

Avrà tre grandi anime

Con la consueta antiveggenza, Michele Salvati spiega a Il Foglio quale rotta deve scegliere il PD. Un partito unico, che tenga dentro anche socialisti, comunisti, radicali, dipietristi, e le cui anime politiche e culturali siano identificabili con Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi, Renato Brunetta.

Facile, no? Ha lasciato di là Fini ma, a parte questo, non mi viene in mente neanche un’obiezione

Obsolescenza

Vorrei affrontare il problema del rinnovamento del PD da cinque punti di vista differenti. Questi.