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Archivi del giorno: giugno 7, 2009
Tra geografia e politica
Se è la geografia che fa la politica, allora la "cifra" politica non può salire: resta legata al suolo, stabilita dalla conformazione di un paese, e dai suoi retaggi naturali ancor prima che storici. Eppure Giulio Tremonti, nell’importante intervista che ha rilasciato prima del voto a Il Messaggero, ha sostenuto il contrario: che la cifra della politica sta oggi crescendo e un nuovo primato sulla tecnica è consegnato ad essa dalla crisi economica in corso, ma che d’altra parte, almeno nel nostro Paese, il voto si esprime con una "storica fissità corrispondente alla geografia degli ottomila comuni dove voti come votava tuo padre".
Tra le due proposizioni non c’è aperta contraddizione. Se non altro perché la prima, quella ‘geografica’, è riferita solo all’Italia, alle sue abitudini di voto che, nonostante la recente alternanza al governo del paese fra centrosinistra e centrodestra – forse la vera innovazione politica, in meglio, della seconda Repubblica – rimarrebbero sostanzialmente immutate nel tempo, e soprattutto immutabili, come i monti o i fiumi che attraversano lo Stivale; mentre la seconda, quella sul crescente peso della decisione politica, è riferita piuttosto allo scenario internazionale e soprattutto europeo: è in Europa che è tramontata l’ora dei tecnocrati, mentre appare nel quadrante della storia l’ora dei governi e degli Stati (e, si spera, del Parlamento europeo).
Non c’è aperta contraddizione, ma ci sono due pesi e due misure. La misura europea è scritta, giustamente, nel tempo: con la crisi si apre un nuovo tempo della politica europea, e nuove responsabilità si profilano per le sue classi dirigenti. Se vi è infatti un continente che non è una mera espressione geografica ma una schietta manifestazione storica, questo è l’Europa (che d’altra parte ha inventato il concetto stesso di storia). Ortega y Gasset diceva che l’Europa è l’unico continente che ha un contenuto, proprio perché ha un’esistenza storica: nell’epoca in cui la geopolitica riprende i suoi diritti, mentre le filosofie della storia sono decisamente in affanno, non è inutile ricordarlo.
La misura italiana è scritta invece da Tremonti nel suo ordinamento spaziale: nella sua geografia urbana, anzitutto, che gli appare tenacemente resistente ai corsi storici. Più profonda di qualunque modernizzazione, di qualunque cambiamento demografico, di qualunque mutamento sociale e culturale che abbia interessato il Paese nel secolo scorso e in questo primo scorcio di XXI secolo: "Quello che cerco di dire è che, archiviato il caso impossibile del governo Prodi, questo è un paese fondamentalmente di centro-destra".
Ora, non è così. E non solo perché, come dicevano i medievali, ab esse ad posse valet consequentiam – se una cosa è accaduta, vuol dire che era possibile – ma proprio per le ragioni della politica che così efficacemente Tremonti difende. In una maniera che, va riconosciuto, è di gran lunga più convincente di quanto non osino fare oggi i leader del centrosinistra, ancora troppo condizionati, soprattutto quando sono all’opposizione, dal vento a volte impetuoso dell’antipolitica (che è l’altra innovazione della seconda Repubblica, ma questa volta non si può dire che sia in meglio). Tremonti ha infatti ragioni da vendere quando, rivolto al partito democratico, afferma che connotare un partito anzitutto sul terreno etico, di valori che sono essenzialmente individuali – la serietà, ad esempio, o la rettitudine, o il decoro: come in effetti, a leggere i giornali, pare che stia accadendo – "non è un’idea politica positiva". Ha ragione Tremonti proprio perché chiede al pd di esprimere una politica, e non semplicemente di fare una predica. Ma esprimere una politica, all’altezza dell’attuale momento storico, significa precisamente proporsi di modificare il comportamento elettorale degli ottomila comuni italiani: non consegnarsi alla geografia immodificabile del Paese, ma riprendere tra le mani il filo della sua storia. E se la "cifra" politica sta salendo, cresce anche la possibilità di farlo.
In un senso o nell’altro. In fondo, Tremonti è poco generoso anche nei confronti dello schieramento al quale appartiene. Che non è maggioranza nel paese solo perché il paese è "fondamentalmente di centro-destra", ma perché ha saputo chiudere una certa rappresentazione della storia d’Italia, e costruirne un’altra, in cui non trovano posto le tradizionali culture politiche della storia italiana del ‘900, finite tutte all’opposizione. Ha saputo cioè vincere una partita che – come sempre meglio si vede – si è giocata per l’appunto sul terreno accidentato e mosso della storia, non su quello immobile della geografia.
È una lezione impartita peraltro proprio dalla saggezza civile di Croce, a cui Tremonti stesso si richiama: "Qual è il carattere di un popolo?", si chiedeva Croce. E rispondeva: "La sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia", poiché è un errore "staccare il carattere di un popolo dalla sua storia e rappresentare prima il carattere, con l’intento di cercare poi come questo abbia agito e reagito agli avvenimenti, cioè quale storia abbia avuto. Ma se il carattere si pone come bello e pronto, nessuna narrazione storica può seguire".
Ed è un errore che, votino gli italiani a destra o sinistra, è bene che non commettano, se vogliono ancora avere, in Europa, una storia.
Amori
Torno a un mio vecchio amore: "Tre anni fa Antonio Scurati, autore di un romanzo storico, sosteneva che l’unica cosa che oggi uno scrittore può fare è scrivere romanzi storici. Oggi, autore di un romanzo su un fatto di cronaca, sostiene che l’unica cosa che uno scrittore può fare è misurarsi col tempo della cronaca".
Dentro di loro
Il tema dell’estate assegnato da Il Foglio è: "che c’è dentro di me". Il quale mi pare che dica – se capisco bene – che c’è una cosa che chiamiamo "sé", la quale ha un "dentro" (e immagino anche un "fuori", però evidentemente meno interessante), in cui ci sarebbe "qualcosa", che però non è ben chiaro cosa sia, perché altrimenti non staremmo a ragionarci sopra per l’intera estate. Nonostante questa poca chiarezza, ci sarebbe già un nome per questa "cosa" che si trova "dentro" di "sé" ma che non si sa bene che cos’è, ed è, stando a Il Foglio, "coscienza". Oppure la "coscienza" è ciò che serve per cercare quel che c’è "dentro" di "sé": ma allora dove si trova, a sua volta, la "coscienza"? Oppure chi "ha" coscienza (perché la coscienza è una cosa che si ha – oppure che si è?) sa già, per il fatto stesso di aver coscienza, che ha coscienza, e che ce l’ha dentro di sé? Ma perché per aver coscienza di aver coscienza, bisogna avercela "dentro"? O si tratta di quel che è "dentro" la coscienza, e di cui la coscienza stessa nulla sa? Ma come fa la "coscienza" ad avere un "dentro"? (Son metafore? D’accordo, e allora me le sostituite, per favore, con le espressioni proprie?)
Com’è chiaro, io ho difficoltà non con la ricerca di ciò che è dentro di me, ma con l’assegnare un significato chiaro ai termini che definiscono il campo dentro cui si dovrebbe condurre la ricerca. Presumo che mi si chiederà di non far finta di non capire, e di fare qualche sforzo, per esercitare in prima persona quella riflessione grazie alla quale ciascuno scopre di avere un sé (o scopre di avere un dentro, o scopre che il suo sé ha un dentro?). Come se poi fosse ben chiaro cos’è la "prima persona". In ogni caso, adesso è tardi, ma domani giro la domanda di Ferrara a Renata, di anni otto e mezzo, Enrico, di anni cinque e mezzo, e Mauro, di anni tre, e vediamo se loro capiscono meglio di me cosa si vuole con questa storia di quel che è dentro di loro