(A proposito delle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein:
Cosa consente alla maestra di decidere che un bambino, il quale abbia eseguito correttamente nove addizioni su dieci, si è semplicemente distratto nell’unico caso errato? Perché non pensa invece che non ha ancora compreso la regola dell’addizione? La risposta è: la forma di vita. E non è, come si comprende sotto, una risposta definitiva).
"«Un bambino si è fatto male e grida: gli adulti parlano e gli insegnano esclamazioni e, più tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo comportamento del dolore». Strano miscuglio di ovvietà e intuizioni profonde! Gli adulti insegnano al bambino il modo di connettere parole e cose. E come glielo insegnano? Con le parole («gli parlano»), il che implica che il bambino sa già come connettere parole cose, altrimenti nulla capirebbe" (V. Vitiello, In lotta con il linguaggio. Da Wittgenstein a Nietzsche (passando per Hegel), in Il pensiero, 2/2008, p. 120).
L’implicazione è errata, a mio avviso. Anzitutto però direi: è proprio quello che accade! O almeno: io ho fatto proprio così, coi miei figli! Io ho parlato loro ben prima che loro capissero quel che dicevo! Insegnare un nuovo comportamento di dolore non significa affatto insegnare il significato delle parole che costituiscono quel nuovo comportamento. È ben chiaro che impariamo a parlare ben prima di imparare il significato delle parole. Che impariamo a connettere parole e cose senza passare per il loro significato. Proprio questa è la ragione per cui LW parla di addestramento o di ammaestramento, al riguardo. E tutta la faccenda è proprio che non si può indicare il punto o la soglia o il meccanismo che consente di indicare che l’addestramento è completato e che solo ora si comprende davvero; che è finito l’automatismo macchinico (o animale: ma metto tra parentesi queste parole), e che siamo entrati nel regno dello spirito.
Ma non c’è in questo nulla di misterioso, perché una lettura radicale (ma fedele, per quel che conta) di LW deve mostrare che questo punto non c’è! E non c’è non perché non sia un punto (ma poi: cosa?) ma perché l’attraversamento di quel punto non è alle nostre spalle, così che lo si debba indicare (o mancare di indicare, per misteriose ragioni). Il fatto è che quel punto non lo si è mai superato una volta per tutte e definitivamente, quel passaggio o quella metabasis non si è mai compiuta, ed è perciò che non la si può indicare (ed è perciò che io non direi mai che noi siamo dentro l’area del significato, dentro l’iconologia della mente o dentro qualunque altra cosa: io non concedo questo dentro). Proprio come non si può dire una volta e per sempre (riprendo l’esempio di sopra) che per la maestra, per noi o per Dio il bambino che ha eseguito correttamente nove operazioni su dieci ha superato la fase dell’addestramento e possiede il significato concettuale della regola che ora sa applicare (mentre prima no).
Non lo si può dire per il bambino, e naturalmente non lo si può dire per noi stessi.
Si può dare molteplice seguito a quest’osservazione, che ai miei occhi è essenziale. Quel che qui brevemente aggiungo è che la decisione (è LW che parla di una decisione: non mi spiego sulla parola) si accompagna sempre a un indecidibile, e che proprio perciò non c’è motivo di dire (come fa Sini) che noi abbiamo già da sempre attraversato la soglia più di quanto si debba dire che non l’abbiamo mai attraversata (la soglia, per esempio, che tanto preme oggi, dell’animalità).