«Amici, amici, non ci sono più amici!», diceva Aristotele, e siccome sono passati più di duemila anni, e quegli amici ai quali il filosofo voleva spiegare quanta rara fosse la vera amicizia devono essere passati a miglior vita da un pezzo, la situazione, per l’amicizia, s’è fatta veramente difficile.
L’insegnamento di Aristotele ha attraversato i secoli ed è giunto sino all’arcivescovo di Westminster, Vincent Nichols. Il quale però non si è limitato a dire che gli amici sono rari, o a distinguere, come il Filosofo, le amicizie interessate (tante) dalle amicizie disinteressate (poche, pochissime). Né ha pensato di sollevare l’aporia che i rivoluzionari francesi hanno lasciato in eredità al mondo moderno, non spiegando come promuovere la «fraternité» che mettevano accanto alla «liberté» e all’«egalité», sicché si sono fondati per secoli partiti della libertà o dell’eguaglianza, mentre alla più amichevole fratellanza è andato solo l’omaggio formale tributatogli con l’Inno alla gioia di Beethoven nelle cerimonie ufficiali dell’Unione europea.
No, Nichols ha voluto aggiungere di suo una più che preoccupata riflessione a proposito dei social network che vanno oggi per la maggiore, come Facebook, Myspace o Friendfeed, sui quali è possibile fare un mucchio di nuovi amici: basta accettare con un clic la richiesta di amicizia di chi viene a bussare alla tua homepage, e il contatto è stabilito. Nichols ha spiegato molto saggiamente che la vera amicizia è un’altra cosa, che non si può chiamare amicizia uno scambio virtuale di messaggi tra perfetti sconosciuti, che quel che conta non è la quantità di amici, ma la qualità, e che la superficialità di una simile rete di relazioni mette in pericolo il valore stesso dell’amicizia. Esagerando un po’, ha infine paventato il pericolo che il trauma causato dal vedersi rifiutata l’amicizia online possa indurre i giovani al suicidio – nel che è evidente che le paure per la sorte dei giovani sono anzitutto le paure che l’incapacità di padroneggiare nuovi strumenti suscita invece nei vecchi.
Che si tratti di esagerazioni è facile, peraltro, mostrarlo. Per rimanere in materia, basti pensare che la stessa preoccupazione nutrita dall’arcivescovo si manifestò quando comparvero i primi amici di penna: qualcuno pensò che con la diffusione della scrittura il numero di falsi amici sarebbe incredibilmente aumentato, visto che è molto più facile simulare amicizia per iscritto che non guardando qualcuno negli occhi. L’autenticità andava a farsi benedire – e pare andarci sempre più, nell’epoca della moltiplicazione tecnologica dell’amicizia.
Più in generale, la denuncia del carattere disumanizzante della tecnica accompagna l’uomo da che è uomo. Si potrebbe addirittura provare a definire la specie umana in ragione della capacità, che possiede in esclusiva, di disumanizzarsi: in effetti, nonostante i profondi cambiamenti intervenuti nei loro rispettivi ambienti naturali e stili di vita, a cavalli o cani, gatti o piccioni proprio non è riuscito, di disanimalizzarsi.
La denuncia si è poi andata accentuando via via che si è accentuato l’impatto dell’innovazione tecnologica sulle nostre vite, e sotto questo aspetto la presa di posizione di Nichols rientra a pieno titolo nel filone di interventi allarmati nel quale spicca l’ottocentesco anatema di papa Gregorio XVI contro le ferrovie, strumento del demonio: si vedeva infatti che, facilitando gli spostamenti, sradicando dal suolo natio, i binari portano lontano dalle tradizioni e dai costumi aviti (e quindi anche dagli amici, dalle mogli e dai buoi dei paesi tuoi). Disumanizzano, appunto.
Ora, se non si vuole che simili angosce vengano ridicolizzate, occorre perlomeno rispettare una regola vecchia come una favola di Esopo: gridare “Al lupo! Al lupo!” ad ogni nuova moda non aiuta a capire se e quando la tecnica ha raggiunto davvero una soglia decisiva, se davvero la nostra umanità è minacciata dal lupo famelico della tecnica. E invece una volta gli arcivescovi, un’altra i sacerdoti laici delle anime, cioè gli psicologi di ogni specie (questi ultimi in verità persino più di frequente) non si può dire che gli uni e gli altri abbiano mai saltato un giro: prima la televisione, poi i videogames, quindi i telefonini, infine l’Ipod, ora i social network, ad ogni novità non fanno che mettere in guardia contro il disumanizzante predominio della tecnica. Senza dire che, non fosse per la tecnica, saremmo ancora come i gatti o i piccioni.
Dopo di che non ci è però proibito di pensare a quel che sta succedendo adesso, sotto i nostri occhi. A come cambiano le nostre vite. E pensare significa sottrarsi ai due atteggiamenti più facili. Uno è facile individuarlo: si tratta di quel riflesso conservatore per cui ad ogni cambiamento si sospetta che l’umanità sia alla fine. Al suicidio. La reazione Nichols, insomma. L’altro è invece più sottile, ma non meno familiare, e consiste in quella generica fiducia liberale per la quale siamo portati a pensare che, cambiano i tempi, cambiano i modi, ma l’uomo è sempre lo stesso – e così pure l’amicizia. E in questo modo in nessun cambiamento si riesce più a vedere non quel che viene alla fine, che se è giunto alla fine è probabile dovesse finire, ma quel che invece può avervi radicalmente inizio.
(Come si capisce, sono rientrato dalle ferie)