«Ho sentito la voce di Ercole nelle pagine della Scienza della legislazione». Ci sono dunque stati, a Napoli, uomini capaci di esprimere le loro idee con la forza di un Ercole. E di imporle all’attenzione del mondo: dei circoli illuministici milanesi – da cui proviene il giudizio citato, che è di Alessandro Verri – come di quelli europei dove l’opera di Gaetano Filangieri fu subito letta e tradotta, varcando persino l’oceano, per ispirare l’opera di uno dei padri della costituzione americana, Benjamin Franklin.
E ci sono state, soprattutto, le idee, e la capacità di individuare i mali endemici della società napoletana, e la volontà di mettervi mano. Con la tragica fine della repubblica del 1799, la stagione in cui la filosofia volle andare «in soccorso de’ governi» non si concluse felicemente. Ma senza quel soccorso non è che le cose siano andate molto meglio, nei duecento anni successivi. Né si può dire che quelle idee non tracciassero un profilo di modernizzazione del Regno, di cui non vi fosse assoluto bisogno.
E di cui non vi sia ancora oggi bisogno, per non lasciare che la politica si dibatta fra la mera amministrazione dell’esistente (non di rado: la cattiva amministrazione) e le improvvise fiammate populistiche, che faranno pure cantare di giubilo i sanfedisti di ogni epoca, ma che lasciano le cose come prima, o peggio di prima.
Si sente però la parola filosofia e subito si sospettano chissà quali velleitarie astrattezze. Del resto, entrare «con la fiaccola della filosofia nelle tenebre del Foro» non doveva essere semplice, allora. Non lo è nemmeno oggi. Ma se c’era una cosa che questa schiera di uomini – il Filangieri della «Scienza», o Francesco Pagano, autore di quel piccolo capolavoro che sono le «Considerazioni sul processo criminale», o Melchiorre Delfico, che condusse una vigorosa battaglia culturale contro gli abusi della giurisprudenza – se c’era una cosa che costoro avevano chiara, era che bisognava abbandonare i cieli della pura speculazione, e mettere la filosofia (cioè le idee, i saperi, e la cura dell’universale) a servizio dell’esperienza la più terragna possibile.
E il terreno di elezione di questo straordinario disegno riformatore era quello indicato dal giovane Filangieri: non i libri di teologia ma i codici, le leggi. Un terreno difficile, sul quale ci si doveva muovere con decisione, allo scopo di spezzare il tradizionale e soffocante equilibrio fra togati e feudalità, ammodernare l’assetto politico-istituzionale del Regno e migliorare le condizioni economiche e sociali di larghi strati della popolazione.
Vasto programma. Ma chi non ne sente ancora oggi l’esigenza? Chi non vede che c’è ancora oggi l’esigenza di stabilire un valido patto di cittadinanza, superare gli interessi particolari e recuperare la fiducia nei poteri pubblici? E per dove passa, quest’azione riformatrice? Gli studiosi contemporanei hanno coniato la formula del pan-penalismo, a proposito dell’abnorme estensione del diritto penale nelle società contemporanee: il che non si traduce affatto in più giustizia, ma, spesso, in paralisi amministrativa, e soprattutto nell’investimento dell’azione penale di inediti significati simbolici (quindi politici): i giudici d’assalto, la spettacolarizzazione della giustizia, i verdetti a mezzo stampa, e a volte persino l’avviso di garanzia o un’intercettazione come via breve alla celebrità.
Tanto più sarebbe necessario, allora, che le forme e i modi del processo stiano nell’alveo che la modernità giuridica ha tracciato per esso. Proprio per questo, a leggere oggi le pagine che Pagano dedica al diritto penale, si rimane ammirati per l’attualità della sua lezione. Si aprono libri che non hanno nulla di polveroso, e che a parte l’italiano settecentesco potrebbero ben figurare nei programmi politici dei partiti italiani, se tra un repentino cambio di nome e l’altro trovassero ogni tanto il gusto di riannodare le fila della storia patria. Basti pensare alle proposte in tema di giustizia: alla battaglia per la certezza del diritto, alla dura critica del rito inquisitorio, basato sulla segretezza degli atti istruttori, sulla disparità di rapporto fra accusa e difesa e sull’ampia discrezionalità del magistrato nella fase di raccolta delle prove. Son trascorsi più di due secoli, e non si può ancora dire che questo nodo cruciale sia stato del tutto sciolto, nell’ordinamento giuridico italiano. Si pensi anche alla chiarezza con cui Pagano chiedeva la separazione di inquirenti e giudicanti, e al rifiuto di ogni compressione delle libertà individuali e delle garanzie della difesa a fini di prevenzione generale del crimine o per qualunque altra superiore utilità sociale: una coscienza del valore irrinunciabile dei diritti fondamentali da far impallidire tanti riformatori di oggi.
Nei «Saggi politici», Pagano diede prova di saper intendere con il necessario realismo, anche grazie alla lezione di Vico, il senso dei processi storici e politici nei quali iscrivere la propria azione. La parola virtù, spiegava ad esempio, viene da «vis», che vuol dire forza: la morale della politica non consiste infatti in un’astratta predicazione del bene, ma nel disporre le forze in campo in modo che esse contribuiscano insieme alla libertà civile. Non c’è virtù pubblica, infatti, che possa imporsi a dispetto di ogni convenienza. Convenienza, d’altronde, è una strana parola, che bisogna saper leggere: non dice infatti solo egoismo e opportunismo, ma indica il luogo in cui gli interessi individuali debbono venire insieme – con-venire, appunto – per trovare il modo della loro composizione. La virtù di Pagano e degli illuministi napoletani non era dunque il «fiat giustitia, pereat mundus», ma qualcosa come «fiat mundus, pereat iniustitia»: solo al sorgere di un nuovo mondo storico e civile, ordinato dalle leggi, perirà l’ingiustizia, e l’ineguaglianza sociale.
Pagano morì sul patibolo. All’inquisitore che in carcere gli comunicava beffardo che a volere la sua testa non era solo la Corte, ma anche il popolo per il quale si era tanto battuto, pare abbia risposto che sarebbe morto contento se ci fosse stato veramente un popolo capace di imporre la sua volontà ai magistrati. Non era uno sbuffo di astratto e impotente furore giacobino, che avrebbe contraddetto tutta la sua esperienza ‘garantista’ di avvocato penalista. Non era l’auspicio di una giustizia popolare che rovesciasse il verdetto del persecutore, ma l’amara consapevolezza che nessun disegno di riforma politica e civile sarebbe mai potuto riuscire senza essere fatto proprio da una più larga volontà collettiva. Sarebbe stato contento, Pagano, se il popolo avesse battuto un colpo non sul parquet del tribunale, ma là dove la volontà popolare era stata chiamata a manifestarsi: a quel dì, in soccorso della filosofia andata in soccorso dei governi; oggi, più semplicemente, nelle urne.
E in verità, se davvero lo facesse, saremmo ben contenti pure noi.
(Il Mattino, 18 agosto 2009)