Può darsi che il dibattito parlamentare sul testamento biologico faccia alla Camera qualche passo in più rispetto al Senato. Il dibattito, prima ancora che la legge. Nelle parole con le quali ieri il Presidente Fini ha assicurato che la libertà di coscienza di ogni parlamentare sarà doverosamente rispettata, non c’è solo una mera rassicurazione formale, ma anche l’impegno a favorire una discussione sciolta da rigidi pregiudizi ideologici o confessionali. Nello stesso senso va la lettera dei venti parlamentari del Pdl che, scrivendo a Silvio Berlusconi dalle colonne de Il Foglio, hanno auspicato che l’ormai imminente esame della legge, a Montecitorio, si svolga in un clima meno conflittuale e più dialogico. Infine, anche il quadro politico più generale sembra muoversi di conseguenza, attorno all’iniziativa dispiegata da Fini, Casini e Rutelli in cerca di ragionevoli convergenze fra laici e cattolici.
Naturalmente i punti controversi restano, primo fra tutti la questione della sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali, che nel testo Calabrò già approvato al Senato è vietata senza se e senza ma. Ma se la laicità è anzitutto un metodo, allora questi tentativi di dialogo hanno perlomeno il merito di praticarla di fatto, senza la paralizzante paura di compromettere principi e valori irrinunciabili che, in quanto tali, non potrebbero neppure essere proposti alla discussione e alla decisione di legge. Una stagione di aspre contrapposizioni aperta da uno slogan troppo intransigente ("sulla vita non si vota", ai tempi del referendum sulla legge 40) proseguirebbe molto meglio se, messi dinanzi all’inaggirabile compito di legiferare, si provasse ad affrontarlo con senso di responsabilità, confidando che il quadro costituzionale entro il quale va scritta la legge sia robusto abbastanza per difendere la vita, come vogliono i sostenitori del testo Calabrò, senza però mortificare i fondamentali diritti di libertà di ognuno, come vogliono quanti auspicano significative modifiche a quel testo.
Vedremo la legge. Ma quel che intanto si comincia a vedere è, finalmente, un esercizio paziente di ragionevolezza, il tentativo di far avanzare i termini di un accordo possibile, e intorno ad essi la fatica squisitamente parlamentare della mediazione (dopo tutto, in Parlamento si parlamenta: ci si sta per quello, e non solo per ratificare decisioni prese altrove). È una prova importante, il cui significato va probabilmente al di là del testo di legge (pur importante) che sarà licenziato dalla Camera, e chiama in causa il senso stesso dell’agire politico.
Qualche tempo fa, il filosofo Stephen Toulmin si domandò provocatoriamente se i nuovi problemi posti dalle scienze della vita non avessero salvato l’etica da un lento ma apparentemente inesorabile declino. Si può oggi persino sospettare, vista la sua crescente rilevanza generale, che la bioetica, nata dall’incontro dell’etica con le tecnologie applicate alla vita umana, abbia a sua volta salvato la vita alla filosofia tutta intera, che sembra tornata ad avere qualche utilità nell’articolazione delle buone ragioni (proprie e altrui).
E la politica? Viene salvata o strangolata dalla bioetica? Resta uno spazio per la politica, una volta che i dilemmi morali occupano la scena, oppure le tocca in sorte di morire, schiacciata sotto il peso di questioni ultime che si sottraggono a quel luogo di mediazioni e di negoziazioni che è il Parlamento? La qualità del dibattito parlamentare che si svolgerà nelle prossime settimane sarà anche un modo per misurare la capacità della politica di compiere ancora una volta l’operazione per cui è sorta in età moderna, insieme agli Stati nazionali e alla loro complesse architetture giuridico-costituzionali: quella di trasformare laicamente le irresolubili questioni ultime in più malleabili questioni penultime, senza pretendere di risolvere a colpi di legge il mistero della vita e della morte.