«Contribuì in modo significativo alla difesa dell’Occidente e al consolidamento della pace»: è il contributo di Bettino Craxi, nelle parole che il Presidente della Repubblica Ciampi scelse per il telegramma di cordoglio ai familiari del leader socialista. Leggerle oggi dà da pensare, perché in esse compaiono termini – la pace, l’Occidente – che non hanno ancora posto significativo nelle discussioni sulla sua figura, nel decennale della morte. Il che non conferma solo un problema cronico della cultura politica del nostro paese, e cioè quanta poca considerazione si abbia, nella valutazione di un leader, per il suo impegno nella politica estera, ma anche quanto poco ancora si sia distanti da opinioni che si sottraggano alle opposte tentazioni della demonizzazione o della santificazione.
Forse, nel caso di Craxi, è inevitabile. Non però perché dieci anni siano pochi per storicizzare una stagione della vita democratica del paese, ma, credo, per due ragioni diverse. La prima: la fase attuale è ancora troppo legata all’esito di Mani Pulite, impelagata in una transizione verso un nuovo assetto del sistema politico che non accenna a finire, sicché il giudizio su Craxi diventa, per dirla in fretta, il giudizio su Berlusconi, ad onta di ogni plausibilità storica e politica,. La seconda: il drammatico discorso tenuto innanzi al Parlamento il 3 luglio 1992, in cui Craxi disse che il sistema di finanziamento ai partiti era per buona parte irregolare e illegale (e un anno dopo, nel processo Cusani, dinanzi al PM Di Pietro aggiunse: «dall’inizio della storia repubblicana») ha avuto per singolare contrappasso l’effetto di legare non solo il suo nome a quella vicenda, ma anche il giudizio sulla prima Repubblica – e in specie sul sistema dei partiti, e sulla sua costituzione materiale – ad un giudizio sull’inchiesta Mani Pulite. Il che è, di nuovo, un errore storico e politico.
Orbene, non accade proprio come in quel detto famoso citato da Hegel, ma quasi. Non c’è eroe per il proprio cameriere, si dice, ed Hegel chiosava: non perché l’uno non sia eroe, ma perché l’altro è cameriere. Nel caso di Craxi non si tratta certo di tramutare la sua azione politica in una serie di eroiche imprese – che si tratti di Sigonella o del decreto di San Valentino, della lotta all’inflazione o dell’espansione del debito pubblico, del nuovo Concordato o del progetto di riforma istituzionale in senso presidenzialista, rimasto però solo sulla carta –, ma non è neppure il caso di nutrire, nei confronti della sua figura, le meschinità e i risentimenti di un cameriere. C’è invece materia per un giudizio articolato e complesso, senza facili semplificazioni. E per il quale, dunque, non basta neppure la parola così spesso ripetuta che lega la sua azione alla modernizzazione del Paese: modernizzazione è ancora solo il nome di un processo, che di per sé poco o nulla dice sulla direzione e le finalità di quel processo.
Sul piano della riforma degli equilibri politici del paese, quelle finalità erano però per Craxi ben nette, anche se forse lo erano meno i mezzi con cui conseguirle, dal momento che si trattava sì di mutare i rapporti di forza a sinistra, col Pci – questo il disegno –, ma il mutamento doveva avvenire nel corso della collaborazione (che era insieme competizione) con la Democrazia Cristiana – il che rendeva il disegno perlomeno tortuoso.
Quanto fosse alta la posta in gioco lo si comprende comunque dalle parole con cui D’Alema l’ha rappresentata, parlando dalla parte dei comunisti: «eravamo come una grande nazione indiana chiusa tra le montagne, con una sola via d’uscita, un canyon, e lì c’era Craxi con la sua proposta di ‘unità socialista’. Come uscire da quel canyon? Come trasformare il Pci senza cadere sotto l’egemonia craxiana?». Il giudizio sulla trasformazione del partito comunista investe naturalmente la classe dirigente di quel partito, da Occhetto in poi. Ma la scena descrive una posizione per Craxi tanto favorevole, soprattutto dopo l’89, che non può non colpire quanto poco egli sia riuscito, a parte alcuni vantaggi tattici, a tradurla in una definitiva vittoria strategica. E in crescita di consensi, e di peso culturale.
Quel che è infatti accaduto, è che sono crollate, insieme al Muro di Berlino, anche le pareti del canyon della politica italiana, ma i socialisti, rimasti in quella posizione di vantaggio per più di un quindicennio, avevano nel frattempo esaurito tutte le potenzialità politiche riformatrici della loro tradizione, finendo così col rimanere travolti dal crollo. E anche a voler pensare che quell’esito dipese in tutto e per tutto dalle oscure trame più volte evocate da Craxi negli anni amari del ritiro ad Hammamet, non sarebbe meno vero che una sconfitta della politica va comunque addossata a chi del primato della politica era stato sostenitore e indiscusso protagonista.