Archivi del mese: gennaio 2010

Asti

Domani, convegno e tavola rotonda su "Confessioni cristiane, etica pubblica condivisa e democrazia":

Programma dei lavori
Mattinata di studio
Sala Pastrone, Teatro Alfieri Ore 10
Sessione di lavoro
Introduce:
Massimo Fiorio (deputato PD)
Confessioni cristiane e democrazia
Modera: Sergio Carletto (CESPEC/ Cuneo)
Gianni Genre (pastore, già moderatore della Tavola Valdese), La Riforma nel Novecento: democrazia ed etica pubblica
Giovanni Filoramo (Università di Torino), Dalla “potestas indirecta in temporalibus” alla religione civile: il cattolicesimo contemporaneo e la democrazia.
Coffee break
Adriano Roccucci (Università di Roma III), L’ortodossia orientale e il rapporto con la democrazia in Russia e nella CSI

Pomeriggio Ore 15,30
Saluti delle autorità
Tavola Rotonda
Modera: Graziano Lingua (Università di Torino/ CESPEC)
Un’etica condivisa come fondamento della democrazia in Italia oggi?
Eugenio Mazzarella (deputato PD, Università di Napoli “Federico II”)
Ugo Perone (Università del Piemonte Orientale)
Giuseppe Menardi (senatore PDL)
Massimo Adinolfi (Università di Cassino/ Fondazione Italianieuropei)

S'allarga il solco partito-cacicchi

A guardare le vicende che in questi giorni scuotono il PD un elemento emerge con sempre maggiore chiarezza: le dimissioni del sindaco bolognese Delbono, la schiacciante vittoria di Vendola nelle primarie pugliesi, le difficoltà ad individuare candidati condivisi in regioni nelle quali il centrosinistra è al governo (la Calabria) spesso anche da molti anni (l’Umbria, la Campania), la necessità di affidarsi a personalità esterne al PD (Emma Bonino nel Lazio), tutto questo mostra che qualcosa, nel rapporto fra il partito e gli amministratori locali, non funziona più.
Non è una novità di queste settimane, perché data anzi da molti anni: almeno da quando si è cominciato a modificare le leggi elettorali, e cioè dall’elezione diretta dei sindaci in poi. E tuttavia, poiché la partita in Puglia è stata giocata in proiezione nazionale, come banco di prova di quell’allargamento al centro che dovrebbe perfezionarsi in vista delle elezioni politiche, rischia di non essere abbastanza osservato il dato, assai preoccupante, che il partito democratico, e più in generale il centrosinistra, non sa più bene come regolarsi con gli amministratori che provengono dalle sue stesse file. Un punto di forza è divenuto un punto di debolezza; soprattutto al Sud, terra di cacicchi.
In alcuni casi, il centrosinistra si avvicina alle elezioni con l’intenzione di dare all’opinione pubblica il segno di una novità, ma allora accade che gli amministratori uscenti non ne vogliano sapere di passare la mano (più benevolmente: chiedono di essere giudicati dall’elettorato). In altri, la novità è proposta esplicitamente come elemento di rottura rispetto al quadro logoro dei partiti, che viene per ciò stesso declassato a "teatrino della politica", per dirla in linguaggio berlusconiano: e non è un caso se per i Vendola in Puglia e i De Luca in Campania si cercano paragoni con figure e modelli presenti già nel centrodestra. Infine, anche quando gli uscenti hanno titoli di buon governo da esibire, si trovano pezzi di partito non disposti a seguirli, pronti a saltare sul treno delle primarie pur di mettere il bastone fra le ruote. E così vanno le cose: dai consigli comunali alle assemblee regionali, dai sindaci ai governatori, l’impressione è che rischi di venir meno il collante che tiene insieme le diverse anime del PD.
Non si tratta però del fatto che il PD non sa ancora bene come selezionare le candidature, sicché se le vede dopo qualche anno (o addirittura qualche mese: vedi Bologna, che, ricordiamolo, ha scelto Delbono con il metodo delle primarie) ritornare addosso come un boomerang. In realtà, è evidente che fino a quando le primarie rimarranno nello statuto del partito, qualunque altro metodo di selezione apparirà meno democratico rispetto alla chiamata alle urne, e si potrà sempre trovare lo scontento di turno che a torto o a ragione, per personale tornaconto o per intima convinzione, accuserà il partito di ricorrere a metodi poco trasparenti, ad accordi di potere, a spartizioni di poltrone, a scelte calate dall’alto, e via elencando tutto il vocabolario di questi ultimi quindici anni di contestazione a volte anche virulenta della stessa pratica della politica. Come la metteva Celentano: le primarie sono rock, tutto il resto è inesorabilmente lento. Ma per l’appunto non si tratta di questo, che è piuttosto l’effetto, e non la causa di una debolezza di fondo dei partiti. Per la quale dovrebbe farsi valere l’altro pezzo della piattaforma congressuale di Bersani, tanto urgente e essenziale alla sua leadership quanto l’accordo al centro. E cioè la bocciofila. Bersani ha vinto il congresso chiedendo che il suo partito avesse quel minimo di disciplina che consente a una bocciofila di funzionare. Ora, a parte il fatto che i presidenti delle bocciofile non sono eletti con le primarie, ma è chiaro che è proprio nel rapporto con gli amministratori il punto dolente, perché sono anzitutto gli eletti, nel deserto di cultura politica di questi anni, a non capire più perché mai dovrebbero rispondere a una rissosa assemblea di partito piuttosto che al più vasto popolo delle primarie.
E così il partito democratico le affronta: con rassegnazione o entusiasmo, ma sempre senza rendersi conto che primarie vuol dire contendibilità, e che dunque la prima cosa che occorre per sostenerne l’urto è un partito più forte e più radicato degli stessi contendenti, altrimenti al termine della contesa il partito rischierà di non ritrovarsi mai dalla parte del vincitore, ma casomai del cacicco o del rocker di turno.

Io domani

E’ una settimana che Mauro si sveglia con la stessa domanda che gli frulla in testa, e io non posso che dargli, rispondendo, una piccola delusione. Così anche questa mattina ha aperto gli occhi e speranzoso mi ha guardato:
– E’ domani? -.
– No, Mauro, è mercoledì -.
– Ah! E quand’è domani? -.
Se a questo si aggiunge che la domanda successiva è: – Ma vado a scuola? -, si capirà quanto difficile si presenti, al risveglio, l’impatto con il principio di realtà.
(Le due domande temo siano legate, perché devo avergli detto con troppa enfasi, qualche venerdì fa: "domani non si va a scuola").

P.S. Il titolo è un doveroso omaggio a Marcella Bella


Due mani

In parrocchia fanno le cose per bene (a parte qualche errore di battitura): E dunque sul sito trovate la cronaca della giornata, nonché gli articoli e la foto della vincitrice (delle vincitrici).

Fra poco facciamo il blog a due mani, visto che il sottoscritto annaspa.

Dedicato/2

“L’angoscia è proprio la peggior guida che si possa immaginare verso ciò che è autentico e caratteristico”

Giornalisti per un giorno

Ve lo dico in anteprima, perché sul sito il risultato non è ancora stato inserito. Ma a me è giunto a casa, alle 13.30 (in compagnia della notiziata): Martina Villani e Renata Adinolfi premiate ex-aequo per il miglior testo giornalistico al primo concorso "Giornalisti per un giorno", organizzato dal giornale Incontro e dalla Parrocchia San Pietro di Aiello di Baronissi (prov. SA – Campania – Italia – Europa – Mondo).

Fin qui tutto bene. Il premio: oltre alla Bibbia, donata a tutti i partecipanti, Il piccolo Principe di Saint-Exupéry. E questo va un po’ meno bene.

Dedicato

“La Grecia antica non ebbe un potere sacerdotale e una teologia con dogmi obbligatori, per questo poté diventare il paese in cui nacque l’ontologia in senso classico” (G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale – I)

Ruoli

“Con l’avvento di Berlusconi la costituzione vivente del Paese era mutata in senso populistico, il ruolo dei partiti era stato neutralizzato e la compagine di governo era l’espressione di un partito personale guidato da élite post-partitiche”.
“Con l’avvento del pentapartito la costituzione vivente del Paese era mutata in senso oligarchico, il ruolo dei partiti era stato neutralizzato e la compagine di governo era l’espressione di un interpartito trasversale guidato da élite postpartitiche”.
Qual è il testo originale e quale la copia? (Quale che sia, se funzionano entrambi, il problema mi pare sia il ruolo dei partiti)

Insuperato e superabile

Mi sembra incredibile, ma va a finire che dovrò riprenderlo dall’inizio, il dibattito acceso dall’articolo di Gianni Riotta sull’attendibilità del web. Intanto, ho letto l’articolo che gli ha dedicato Miguel Gotor, che individua e enumera un certo numero di questione. E conclude così:

"Non a caso, il primo e ancora insuperato maestro della cultura occidentale non è né Platone né Aristotele, ma Socrate, una pura invenzione virtuale che non ha lasciato nulla di scritto, a parte la disperata cronaca della sua morte dentro il potere perché in lotta con esso, un racconto tradito (nel senso di tramandato, of course) dai suoi ambiziosi discepoli".

Ora, a parte il fatto che Socrate non ha lasciato di scritto nemmeno "la disperata cronaca  della sua morte", e abbiamo solo "il racconto tradito", ma sta il fatto che egli non è per nulla "una pura invenzione virtuale", ma proprio al contrario una pura (se proprio vogliamo dire così, ma sarebbe meglio dire impura, visto che il povero Socrate un’esistenza storica l’ha avuta) invenzione scritta, e impossibile senza la scrittura. Questo (e davvero: non a caso) è un buon argomento: ma a favore della scrittura, non dell’insegnamento orale dell’insuperato maestro. (Che poi, se uno ci pensa, è insuperato e insuperabile proprio perché orale, e in realtà superabile e superato proprio per il fatto che scriviamo).

Craxi, il tricolore sulla tomba e i conti aperti con la storia

«Contribuì in modo significativo alla difesa dell’Occidente e al consolidamento della pace»: è il contributo di Bettino Craxi, nelle parole che il Presidente della Repubblica Ciampi scelse per il telegramma di cordoglio ai familiari del leader socialista. Leggerle oggi dà da pensare, perché in esse compaiono termini – la pace, l’Occidente – che non hanno ancora posto significativo nelle discussioni sulla sua figura, nel decennale della morte. Il che non conferma solo un problema cronico della cultura politica del nostro paese, e cioè quanta poca considerazione si abbia, nella valutazione di un leader, per il suo impegno nella politica estera, ma anche quanto poco ancora si sia distanti da opinioni che si sottraggano alle opposte tentazioni della demonizzazione o della santificazione.
Forse, nel caso di Craxi, è inevitabile. Non però perché dieci anni siano pochi per storicizzare una stagione della vita democratica del paese, ma, credo, per due ragioni diverse. La prima: la fase attuale è ancora troppo legata all’esito di Mani Pulite, impelagata in una transizione verso un nuovo assetto del sistema politico che non accenna a finire, sicché il giudizio su Craxi diventa, per dirla in fretta, il giudizio su Berlusconi, ad onta di ogni plausibilità storica e politica,. La seconda: il drammatico discorso tenuto innanzi al Parlamento il 3 luglio 1992, in cui Craxi disse che il sistema di finanziamento ai partiti era per buona parte irregolare e illegale (e un anno dopo, nel processo Cusani, dinanzi al PM Di Pietro aggiunse: «dall’inizio della storia repubblicana») ha avuto per singolare contrappasso l’effetto di legare non solo il suo nome a quella vicenda, ma anche il giudizio sulla prima Repubblica – e in specie sul sistema dei partiti, e sulla sua costituzione materiale – ad un giudizio sull’inchiesta Mani Pulite. Il che è, di nuovo, un errore storico e politico.
Orbene, non accade proprio come in quel detto famoso citato da Hegel, ma quasi. Non c’è eroe per il proprio cameriere, si dice, ed Hegel chiosava: non perché l’uno non sia eroe, ma perché l’altro è cameriere. Nel caso di Craxi non si tratta certo di tramutare la sua azione politica in una serie di eroiche imprese – che si tratti di Sigonella o del decreto di San Valentino, della lotta all’inflazione o dell’espansione del debito pubblico, del nuovo Concordato o del progetto di riforma istituzionale in senso presidenzialista, rimasto però solo sulla carta –, ma non è neppure il caso di nutrire, nei confronti della sua figura, le meschinità e i risentimenti di un cameriere. C’è invece materia per un giudizio articolato e complesso, senza facili semplificazioni. E per il quale, dunque, non basta neppure la parola così spesso ripetuta che lega la sua azione alla modernizzazione del Paese: modernizzazione è ancora solo il nome di un processo, che di per sé poco o nulla dice sulla direzione e le finalità di quel processo.
Sul piano della riforma degli equilibri politici del paese, quelle finalità erano però per Craxi ben nette, anche se forse lo erano meno i mezzi con cui conseguirle, dal momento che si trattava sì di mutare i rapporti di forza a sinistra, col Pci – questo il disegno –, ma il mutamento doveva avvenire nel corso della collaborazione (che era insieme competizione) con la Democrazia Cristiana – il che rendeva il disegno perlomeno tortuoso.
Quanto fosse alta la posta in gioco lo si comprende comunque dalle parole con cui D’Alema l’ha rappresentata, parlando dalla parte dei comunisti: «eravamo come una grande nazione indiana chiusa tra le montagne, con una sola via d’uscita, un canyon, e lì c’era Craxi con la sua proposta di ‘unità socialista’. Come uscire da quel canyon? Come trasformare il Pci senza cadere sotto l’egemonia craxiana?». Il giudizio sulla trasformazione del partito comunista investe naturalmente la classe dirigente di quel partito, da Occhetto in poi. Ma la scena descrive una posizione per Craxi tanto favorevole, soprattutto dopo l’89, che non può non colpire quanto poco egli sia riuscito, a parte alcuni vantaggi tattici, a tradurla in una definitiva vittoria strategica. E in crescita di consensi, e di peso culturale.
Quel che è infatti accaduto, è che sono crollate, insieme al Muro di Berlino, anche le pareti del canyon della politica italiana, ma i socialisti, rimasti in quella posizione di vantaggio per più di un quindicennio, avevano nel frattempo esaurito tutte le potenzialità politiche riformatrici della loro tradizione, finendo così col rimanere travolti dal crollo. E anche a voler pensare che quell’esito dipese in tutto e per tutto dalle oscure trame più volte evocate da Craxi negli anni amari del ritiro ad Hammamet, non sarebbe meno vero che una sconfitta della politica va comunque addossata a chi del primato della politica era stato sostenitore e indiscusso protagonista.

Erasmo

Quando ci fu lo tsunami nel Sud-Est asiatico, collaboravo col Riformista e scrissi un lungo articolo, Il sisma di Voltaire e il disastro dell’Asia, che oggi ho cercato inutilmente sul blog e sul sito del giornale.
Per fortuna la massoneria (devo dire meritoriamente) se ne interessò, e oggi ritrovo il pezzo a pagina 20 di Erasmo. Bollettino d’informazione del Grande oriente d’Italia.

Il problema della tecnica

"Non siamo ancora giunti per ragioni esclusivamente tecniche all’accoppiamento fra Sharon Stone e un rinoceronte della Tanzania" (C. Preve, Marx inattuale. Eredità e prospettiva, Bollati Boringhieri, 2004, p. 183).
(La cosa più bella di questo post sono i tag: marx, tecnica, sharon stone, tanzania. Il rinoceronte non ce l’ho messo)

Utilità

Torno a scrivere sul blog, e quale modo migliore del segnalarvi l’utile articolo di uno degli intellettuali di punta del Corriere?

Le elezioni regionali si avvicinano. In un quadro ordinatamente bipolare, non dovrebbe essere complicato descrivere la fisionomia dei due poli, a poco più di due mesi dal confronto elettorale. E invece non è proprio così. Nel centrodestra l’accordo fra Pdl e Lega, al Nord, è stato trovato, e gli equilibri sono stati raggiunti; al Centro e al Sud, invece, tengono ancora banco le decisioni che il centrosinistra è chiamato ad assumere, per indicare con chiarezza quale strada intenda intraprendere, di qui al 2013. La Campania, infine, è un caso a sé, perché qui la confusione regna sovrana da entrambe le parti.

Ma nell’ambito del centrosinistra è il partito democratico a non poter restare più in mezzo al guado. In ottobre ha celebrato un congresso, lungo e dalla complicata procedura, che ha avuto un esito definito. La vittoria di Bersani ha significato il superamento dello schema immaginato da Veltroni, e riproposto da Franceschini: quello fondato sulla vocazione maggioritaria. Il suo inventore ha sempre spiegato che non si trattava di mera autosufficienza, ma concessa pure questa sottile distinzione, resta che la vocazione maggioritaria comportava il disinteresse per una politica di alleanze. Il Pd doveva scommettere sulla capacità di attirare pezzi dell’elettorato moderato, ed aggregare eventualmente le altre forze di opposizione sulla base di questa maggiore e trainante forza di attrazione. Ma nelle urne una tale forza non si è dispiegata, mentre è stata tenuta in piedi la sola alleanza con l’Italia dei valori che contraddiceva tutti o quasi i punti qualificanti della strategia veltroniana.

I nodi di quella stagione, non essendo stati risolti, vengono ora al pettine più intricati che mai. Il Pd è preso tra due fuochi: da un lato, c’è l’opposizione senza se e senza ma di cui Di Pietro vuole essere il campione; dall’altro, ci sono le richieste centriste di rompere con la sinistra estrema e il giustizialismo populista dell’Idv. Che si tratti della Puglia, dove l’Udc non vuole saperne di Vendola, o del Lazio, dove il Pd, che non riesce a portare l’Udc sul nome di Zingaretti, è tentato dalla carta Bonino, o anche della Campania, dove non è chiaro nemmeno il percorso per giungere al nome del candidato governatore, in tutti questi casi il Pd rischia di apparire paralizzato dalla paura di perdere voti a sinistra, alleandosi con l’Udc, o di perdere le elezioni, ma forse anche qualche credibile prospettiva per il futuro, rinunciando a quella alleanza. Quel che è peggio è che tanto le parole e le scelte di Di Pietro, da una parte, quanto quelle di Casini, dall’altra, condivisibili o meno che siano, appaiono descrivere bene il progetto delle rispettive forze politiche, mentre non godono di altrettanta chiarezza le parole e le scelte che finora il partito democratico ha usato per affrontare questa complicata partita elettorale.

Ma i nodi che non si possono sciogliere si possono anche tagliare: un segretario politico è eletto anche per quello. E in fondo c’è un solo modo per farlo: decidere quale debba essere, per il centrosinistra, l’approdo finale dell’infinita transizione italiana, e orientare verso quello forze, energie, programmi, e anche alleanze. Nella vittoria di Bersani c’era la scelta di incalzare il governo sul piano economico e sociale, in una chiave popolare e riformatrice, ma anche una valutazione sul sistema politico italiano nel suo complesso, per il quale si indicava un possibile punto di arrivo nell’adozione di modelli continentali di democrazia neoparlamentare, che non mettano in discussione il bipolarismo, ma lo calino dentro la realtà storica del paese, le sue tradizioni culturali e i suoi riferimenti ideali. Ora, delle due l’una: o queste grandi linee politico-programmatiche non sono determinanti per orientare le decisioni che il pd deve prendere a breve, e non bastano a farne una credibile forza di opposizione al centrodestra, e allora rischia di rivelarsi da subito insufficiente la famosa “piattaforma programmatica” di Bersani, ed è vano inseguire Di Pietro su un altro terreno, sul quale si muoverà sempre più agevolmente, libero com’è da piattaforme di qualunque sorta. Oppure lo sono, e allora occorre solo essere il più possibile conseguenti rispetto ad esse. In effetti, anche se il Pd è nato addirittura come il partito del terzo millennio, o almeno del XXI secolo, il primo, robusto banco di prova per il suo nuovo segretario è fissato non più tardi della fine di marzo.

(Sul Mattino di oggi)

Inversione

Report. A parte l’imperdonabile errore di mettere lo scarpone destro al piede sinistro di mia figlia Renata, e lo scarpone sinistro al piede destro, e avere dovuto provvedere sulle piste, dopo qualche discesa e dietro segnalazione di un maestro di passaggio, alla complicata operazione di inversione, tutto bene. Bel tempo, freddo polare, tutto bene.