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Archivi del giorno: febbraio 17, 2010
Pd e cattolici. I pezzi perduti
L’addio di Paola Binetti non può essere salutato con soddisfazione, dentro il Pd. Sarebbe infatti ben strano quel partito che plaudisse all’abbandono di un suo esponente, a qualunque area culturale appartenga, e solo una sempre più appannata consapevolezza di cosa sia un partito può suscitare reazioni soddisfatte ad un simile annuncio. Bene ha fatto quindi Bersani ad esprimere il suo rammarico. E ancor meglio farebbe a togliere l’impressione che le sue siano state solo parole di circostanza, come ha lamentato Sergio Soave sull’Avvenire di ieri: non è sorvolando su questa decisione, come su quelle analoghe prese da Rutelli, Lusetti, Carra, che si dimostra di avere a cuore il dialogo fra laici e cattolici.
Beninteso, si farebbe un torto ai cattolici stessi se si presentasse il fatto come la dimostrazione che essi non possono stare dentro il pd. Si farebbe un torto anzitutto ai cattolici che dentro il Pd rimangono, e sono molti, certamente più di quelli che se ne vanno, e rappresentativi di tradizioni del cattolicesimo politico italiano per nulla marginali. Ma il torto lo si farebbe anche a quelli che se ne vanno, perché la gara a chi è più inflessibilmente coerente con i propri valori “non negoziabili”, e che perciò, in un empito di autenticità, lascia il Pd, reca danno anzitutto all’espressione plurale, varia e articolata dei cattolici in politica. E in realtà non conviene nemmeno alla complexio oppositorum, che pertiene alla forma stessa della Chiesa cattolica, selezionare cattolici esemplari, con la denominazione controllata all’origine, in cerca di una rappresentazione pubblica dei propri valori la più rigorosa possibile: il rischio di rimanere solo con un pugno di perfetti ma solitari cavalieri della fede sarebbe assai alto. D’altronde, l’integrità che costoro dimostrerebbero, nel non piegare mai la propria coscienza religiosa alle richieste del mondo (e della propria parte politica) è forse moralmente apprezzabile, ma politicamente si traduce in integralismo. E se nella tradizione politica italiana, in cui pure vi sono molti difetti, uno per fortuna non c’è, è proprio quello di dare spazio a manifestazioni di integralismo religioso. In questo campo, meglio non innovare.
Il caso Binetti merita perciò una riflessione sia in uscita che in entrata .
In entrata, e cioè da parte dell’Udc. Tocca a Casini domandarsi se l’Italia abbia bisogno di un centro, o proprio di un centro cattolico con l’imprimatur. L’Udc ha un chiaro obiettivo strategico nella disarticolazione dell’attuale sistema maggioritario, ma la domanda è se a questo obiettivo si avvicina o si allontana di più a seconda che l’Udc diventi o meno il partito dei cattolici con la ceralacca. E probabilmente la risposta è che si allontana, accentuando il tratto culturale identitario invece del tratto più robustamente storico-politico, che si lega al modo determinato in cui leggere la storia d’Italia degli ultimi vent’anni: come un depauperamento complessivo delle risorse politiche del paese, piuttosto che come perdita di centralità dei cattolici. Ma più in generale, non ha scritto Buttiglione che con il Concilio si è affermata per i cattolici "la cultura della mediazione e la fine dell’intransigentismo"? E non occorre tener ferma questa cultura, invece di costruire bastioni in senso contrario?
In uscita, e cioè da parte del Pd. C’è un buon modello di laicità, costruito da pensatori come l’americano John Rawls, che consiste non nel mettere in guardia dalle opinioni religiose in quanto religiose, ma dalle opinioni, religiose o no che siano, quando non siano sostenute secondo i criteri moderni dell’uso pubblico, cioè universale, della ragione. Dopodiché è evidente che non tutti i conflitti si dirimono con le sobrie precauzioni di metodo. Sono a tutti presenti questioni valoriali ultime che sembrano per principio incomponibili. Ma anche nel centrodestra vi sono forti differenziazioni su questi punti: basti pensare ai diversi accenti con cui Fini e Berlusconi hanno ricordato in questi giorni il caso Englaro. Il che dimostra che il vero compito di un partito non è quello di ottenere prioritaria purezza ideologica e compattezza assoluta su tali vicende, ma dispiegare la propria azione politica su altri fronti, proposti come preminenti rispetto all’interesse generale del paese. Ciò non significa fare orecchie da mercante sui temi eticamente sensibili, ma fare in modo che le questioni ultime diventino, almeno in politica, questioni penultime, e che altre risultino, nella formazione di una parte politica, davvero dirimenti.
A ben vedere, è questa la prestazione che la politica, in generale, ha assicurato nella modernità, mettendo così fine alle guerre di religione. Di cui nessuno sente la nostalgia, neppure nella forma blanda della Binetti di là e tutti gli altri di qua.
Il problema è politico
Che curioso editoriale, quello di Galli della Loggia sulla corruzione. Dove si spiega che hai voglia a dire che il problema è politico, come se "la sfera della politica fosse malata e il resto della società sana". La corruzione è in realtà un fenomeno radicato "nella storia profonda" del Paese.
E chi può negarlo? Sono totalmente d’accordo. Ma domando: i fenomeni storici di lunga durata li consideriamo immodificabili, o proviamo a modificarli almeno un po’? In tal caso, chi si occupa di fare la storia di un Paese? Non è forse anzitutto la politica?
Il problema, dunque, è politico: non nel senso che solo la classe politica è corrotta, che solo la classe politica (la casta! la casta!) è il problema – questa è un’enorme fesseria – ma nel senso che tocca anzitutto alla politica porsi il problema nella sua dimensione ‘profonda’, ‘storica’ che Galli della Loggia segnala. Sicché tutti gli argomenti da lui portati, se non sono una resa incondizionata al fatalismo, e una malattia della coscienza storica, ma vogliono essere utili per la vita del Paese, sono buoni per concludere che il problema, ebbene sì, è politico.
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