Archivi del mese: marzo 2010

La proposizione perfetta/12

"Noi non conosciamo la natura a priori, ma la natura è a priori".

(Le altre proposizioni possono essere ritrovate partendo da qui)

Pop philosophy/1

Il fatto che a occuparsi di Pop-philosophy sia stato, su Repubblica, Valerio Magrelli mi ha spinto a leggere l’articolo. Il fatto che in conclusione Magrelli abbia distinto due fasi del processo speculativo ("una cosa è applicare uno strumento ai più diversi aspetti della cultura di massa, un’altra, assai più complessa, riuscire a forgiarlo") mi ha reso più lieve l’articolo intero.
Ciò non toglie però che non può non lasciare perplesso discutere se vi siano oggetti a cui l’analisi filosofica non dovrebbe applicarsi, dal momento che la questione era già (risolta) in Platone (vedasi Parmenide che al giovane Socrate chiede se anche del sudiciume o dei capelli si dia o no idea). Il fatto è che non si capisce se debba essere la filosofia a gettare qualche schiarimento sugli oggetti che prende in considerazione, o se viceversa sia proprio l’esercizio sopra quegli oggetti a far fare qualche nuovo passo alla filosofia. Solo la seconda cosa conterebbe davvero, e invece si tratta (par di capire) sempre della prima. Ma anche in questo caso, uno vorrebbe perlomeno capire com’è fatto questo strumento filosofico che si applica ad oggetti presi altrove, e com’è fatta una considerazione filosofica e come la si definisce a parte dagli oggetti sui quali si esercita, e invece sembra che vada tutto da sé – ivi compresa, suppongo, la metafora dello strumento, che non è innocente e che forse non è affatto indovinata.
Magrelli cita poi con approvazione Sloterdijk che invita la filosofia a uscire dal recinto accademico, e siamo d’accordo, ma non è che se parlo di Dio o della sostanza mi trovo dentro il recinto e se parlo invece di Dr. House me ne vengo fuori: oppure è anche qui un problema di divulgazione? Ma allora io, che durante il corso dello scorso anno tiravo in ballo ad ogni passo tiravo i neomelodici, sono già abbondantemente a posto.
Che poi la tesi, in generale, è persino ovvia: il metodo filosofico (qualunque cosa sia) getta una luce potente sui prodotti della cultura bassa, "un po’ sul genere dei Miti d’oggi di Roland Barthes". Si dice dunque: come vedo un quadro e ci filosofeggio su, così leggo un fumetto e faccio altrettanto. Il primo oggetto non è teoricamente più denso e la filosofia non ci ricava più sugo di quanto non riesca a fare nel secondo caso. Ma come si può prendere questa affermazione per un principio generale, valido a prescindere dall’oggetto in questione, senza chiedersi nemmeno perché e per come un simile principio si farebbe valere?
(Eccovi invece una bella questione filosofica: la perdita di esemplarità di un certo numero di oggetti).

Champions League

Secondo i dati riportati dallo storico inglese Paul Ginsborg (su Il Fatto quotidiano, oggi), la società politica italiana è messa malissimo, ma la società civile, per la miseria, è quarta, è in Champions League!

(su Ginsborg e il modo in cui gli inglesi raccontano l’Italia, cf. Andrea Romano)

Marx a Rosarno

marx a rosarno

Io so che tu sai che io so

Mi piacerebbe scrivere anche questa volta una lunga mail, a proposito degli appunti di Giulio Mozzi (che continuano una discussione nata qui, proseguita qui e per parte mia qui) ma non ne ho il tempo. Poiché però a un certo punto Giulio domanda: "quella ‘comunità’ che ‘sapeva quali fossero le opere da leggere’, come faceva a saperlo?" pongo la questione:
chi sa (una qualunque cosa) come sa che la sa? Qualunque risposta si dia a questa domanda, si potrà riprodurre la domanda. Ad esempio, uno risponde: lo sa perché sa questo e quest’altro. Replica: ma come sa di sapere questo e quest’altro? Si danno due maniere, credo, di chiudere la discussione. Una di esse dice semplicemente: lo sa e basta. L’altra presuppone invece che si accetti, entrando nella discussione, che sia messa da parte (a un certo punto, in un certo modo) la replica che, però, si può sempre riproporre.
La differenza fra le due maniere non è di ordine logico, ma nel secondo caso quel certo punto, o quel certo modo, è tale perché accettato da una comunità che lo fa proprio (almeno come risposta sufficiente, anche quando non la si condivida, in tutto o in parte). La ‘fuga nei logoi’ non si arresta, in tal caso, perché qualcuno sbotta di brutto, ma perché qualcuno risponde in un certo modo, e quel modo viene ritenuto sufficiente. Ma naturalmente che sia sufficiente non può essere stabilito a priori, e anche la formalizzazione dei criteri relativi non metterebbe al riparo dal riaprirsi della questione (benché vi possano essere comunità che ritengano indispensabile procedere a una simile formalizzazione, e comunità che non lo ritengano, non necessariamente le prime sono da preferire alle seconde).
Tutto ciò non significa che talune comunità di giudizio non siano (per esempio) semplicemente autoreferenziali, che certi ristretti circoli o certe società letterarie non siano troppo strette al punto da apparire soffocanti: è di nuovo cosa disputabile, nel modo che dicevo poc’anzi. Significa però che non è troppo consigliabile buttarla sul piano epistemologico (= come si sa quel che si sa). La comunità di giudizio si riconosce meglio nel modo in cui rende i giudizi su questo o quel libro, che non invece dal modo in cui risponde alla domanda come sa quel che sa.
In ogni caso, e più precisamente, questa seconda questione non è preliminare rispetto alla prima e gerarchicamente superiore ad essa (per gli amanti di Wittgenstein: l’ortografia della parola ortografia non è più importante dell’ortografia di ogni altra parola).
(Direi volentieri pure qualcosa sul resto degli appunti di Giulio, e sul fatto che neanche a me convince la faccenda di Mc Donald’s, ma questa è un’altra storia)

Regalo

Oggi vi voglio bene e vi regalo il link alla Conferenza su Une poétique de la pensée di George Steiner dello scorso primo marzo.

Il professore Adinolfi

Martedì, ore 19.05: il professore Adinolfi osa entrare nel suo studio, sfidando le tenebre già calate sull’edificio con poco meno di un’ora di anticipo rispetto all’orario di chiusura. Si aiuta col cellulare, riesce a raggiungere il proprio studio e a recuperare quanto aveva dimenticato. Ma al momento di uscire scopre con sommo dispetto che nel frattempo sono state chiuse le porte, e gli tocca scendere per le scale d’emergenza e scavalcare sotto la pioggia il cancello per le auto, per guadagnare l’uscita.

Mercoledì, ore 8.45. Il professore Adinolfi protesta garbatamente con il custode il quale prende nota ma dice di non sapere chi fosse di turno la sera precedente.

Mercoledì, ore 19,45. Il professore Adinolfi ha terminato di lavorare al computer ed esce dallo studio. L’edificio è di nuovo avvolto nelle tenebre. Nessuno lo ha avvertito di nulla, nessuno ha bussato alla sua porta per verificare se non vi fosse qualcuno. L’università dovrebbe chiudere alle 20, e i docenti dovrebbero lasciare l’edificio alle 19.45 (per l’appunto). Ma evidentemente i custodi di turno di sera hanno la fregola, oppure fanno i dispetti, e comunque non fanno il loro dovere, e il professore Adinolfi scende di nuovo per le scale d’emergenza alla luce del telefonino, poi scavalca il cancello e strappa il cappotto rimasto impigliato nel filo spinato.

Il professore Adinolfi s’è incazzato un po’.

L'errore dietro le due piazze

E così si va in piazza. Con motivazioni opposte, ma si va in piazza ugualmente. Sabato prossimo a Roma ci sarà la manifestazione dell’opposizione indetta in seguito alla decisione del governo di varare in tutta fretta un decreto interpretativo, per ovviare all’esclusione delle liste in Lazio e in Lombardia. Nel frattempo i giudici si sono celermente pronunciati, senza che quel decreto producesse sulle loro decisioni alcun effetto giuridico (ultimo, mirabile esempio di come non si debba legiferare in un paese serio). La settimana dopo, sempre di sabato, è la volta della maggioranza. Il Presidente del Consiglio ha detto che il PDL è da sempre abituato alla proposta, non alla protesta, e quindi si può stare tranquilli che la manifestazione sarà una grande manifestazione di proposta. E si vorrebbe ben vedere, viene fatto di pensare, visto che non si capisce contro che cosa potrebbe davvero protestare chi, sedendo al governo, ha utilizzato tutti gli strumenti disponibili (e controversi) per sanare i difetti – formali o sostanziali che fossero – della presentazione delle liste.
La cosa divertente (si fa per dire) è che tanto Bersani quanto Berlusconi hanno detto la stessa cosa: in piazza, assicurano entrambi, ci vanno con spirito propositivo e non protestatario. Eppure ognuno vede che le motivazioni reali, quelle sulla base delle quali saranno mobilitate decine di migliaia di persone, stanno invece in una protesta che appare per giunta abbastanza scomposta e mal riposta: nei confronti di un decreto che è già finito nei cassetti dei tribunali, da una parte; e, dall’altra, contro una sinistra “sovietica” – così dice Berlusconi, ma solo perché non ce la si può prendere, in pubblico, contro se stessi.
Passeranno anche queste manifestazioni: si spera senza troppi danni. Senza, per esempio, tirare in ballo il Presidente della Repubblica, al cui equilibrio l’Italia deve solo essere grata, e senza appesantire la piazza di insofferenza per le forme, la legalità, i poteri di controllo, in mancanza dei quali non c’è democrazia possibile.
Ma resta il fatto che la campagna elettorale è stata oscurata da questioni che in un paese normale non sarebbero neppure oggetto di confronto politico; e resta, soprattutto, che l’opera di discredito che la classe politica continua imperterrita a compiere non su altri ma su di sé, essa dimostra ogni giorno di volerla condurre autolesionisticamente fino in fondo.
E’ difficile dire quanto l’intera vicenda e l’eco delle manifestazioni peseranno nell’urna; è per fortuna probabile che tutto si svolgerà senza incidenti, pacificamente, in un clima che qualche commentatore potrà persino descrivere come allegro e colorato. Quel che però è certo è che difficilmente si potranno prendere quegli appuntamenti come segno della ferrea salute e della straordinaria vitalità della nostra democrazia. Tutt’al contrario: la piazza appare sempre più il luogo di una caricaturale difesa della democrazia da pericoli che, in realtà, esistono solo per spostare ogni volta l’attenzione dai problemi reali del Paese: dalla pesante situazione economica, dal ritardo nelle riforme, e da un’architettura istituzionale a cui si dovrebbe mettere mano in Parlamento, senza trascinarla nei tribunali e nelle corti. Non si discute, ovviamente, il diritto a manifestare, che è sacrosanto, ma le ragioni delle opposte mobilitazioni. Le quali restano poi nelle menti e nei cuori di chi manifesta, e formano l’identità di una parte politica molto più di tante belle piattaforme programmatiche.
Perché la democrazia, per la buona sorte di tutti, non è in pericolo: e però accade che i due schieramenti continuino a fare le loro mosse come se invece toccasse loro di difenderla, proprio mentre sferrano qualche colpo sgangherato e malaccorto. Parlano di ingiustizie e soprusi, mentre li commettono, oppure attaccano il Presidente della Repubblica, quando dovrebbero difenderlo.
E questo significa purtroppo che, in un caso del genere, fra i due litiganti, il terzo, cioè il Paese, non gode affatto.

Wish you

Oggi abbiamo mangiato tutti insieme da amici. Verso le sei siamo tornati. Mauro ed Enrico, un po’ stanchi, si sono sistemati sul divano a guardare la tv, Renata è salita in camera, per sistemare l’album di figurine. Io sono andato in camera da letto per cambiarmi. E mentre mi toglievo le scarpe ho pensato, distintamente ho pensato che dovevo realizzare qualcosa di eterno.
Non so se c’entri qualcosa il fatto che, rientrando poco fa, mentre eravamo ancora per strada e io tenevo per mano Mauro ed Enrico, mi sono visto all’improvviso con gli occhi di me bambino, o meglio: ho visto mio padre con gli occhi di me bambino, ho guardato le mie scarpe nere, i miei passi mentre tenevo per mano Mauro ed Enrico e ho visto le scarpe e i passi di mio padre, dall’altezza di quando ero bambino. Non ho visto gli occhi o il volto di mio padre, ma solo i suoi passi, la sua andatura, forse la sua sigaretta mentre camminava piano dietro di me, e ho pensato che forse i miei figli un giorno ricorderanno confusamente di quando nelle giornate invernali, infagottati nei cappotti, con il cappello tirato su e la sciarpa attorno al collo, mi tenevano la mano cercando di scappar via appena io mollavo la presa, per poi dire loro di fermarsi alla fine del marciapiede. Forse ricorderanno di quando li inseguivo mentre uno, Enrico, gridava "Papà lumaca! Papà lumaca!" e l’altro, Mauro, gli correva dietro e voleva a tutti i costi far come lui, e infine si fermava soddisfatto accanto al fratello, voltandosi indietro in cerca dei miei passi accelerati alle sue spalle.
Non so cosa c’entri tutto questo: in comune c’è solo il fatto che poco fa e prima, per strada, io ho guardato le mie scarpe nere. Prima le ho viste ai piedi di mio padre, e ora ho pensato, con un’acutezza quasi dolorosa, che dovevo realizzare qualcosa di eterno e incancellabile. E ho anche pensato che non c’era altro modo di riuscirvi se non sciogliendo per bene, lentamente e senza fretta, i nodi delle scarpe.
Ho tolto le scarpe e mi sono gettato all’indietro, sul letto. Per qualche secondo ho chiuso gli occhi.

Dieci, otto, una

Nazione Indiana ha posto dieci domande "a un certo numero di autori, critici e addetti al mestiere". A cui Giulio Mozzi ha risposto proponendone a sua volta otto. A cui a mia volta rispondo (qui sotto), proponendone solo una (alla fine).
1. L’uso di parole come «tavolo» o come «lastra» non è affatto complicato. Eppure se mi si chiede una definizione di «lastra» ho qualche difficoltà a darne una decente. La mia idea di «lastra», non essendo io un artigiano, è dotata di una certa vaghezza, ma è anche sufficientemente precisa per gli usi ordinari del linguaggio in cui mi trovo per lo più a impiegarla. Suppongo che sul sito Nazione Indiana  si dia della parola critico un uso che è, allo stesso modo, abbastanza vago, ma anche sufficientemente preciso per la maggior parte degli utenti del sito, anche quando questi non siano in grado di darne una definizione rigorosa capace di escludere tutti i non critici, e di includere tutti i critici. Con buona pace di Socrate-Platone, e a maggior gloria di Wittgenstrein, essere in grado di formulare degli esempi, ma non possedere la parola o le parole che squadrino il concetto da ogni lato non vuol dire affatto non avere minimamente idea di cosa sia ciò di cui si dà esempio. Se d’altra parte così non fosse, si potrebbero formulare molte ipotesi, tutte sensate: sulla comunità di utenti, sui cambiamenti d’uso della parola, sulla rilevanza che prendono determinati casi-limite e sul perché la prendono, sulle ragioni per cui sarebbe o non sarebbe richiesta una maggiore precisione, ecc. ecc. Queste eventuali difficoltà devono però manifestarsi motivatamente: ci vogliono dubbi reali, non dubbi logicamente (meramente) possibili circa la correttezza nell’uso di questa o quella parola (va da sé che dubbi di quest’ultimo genere ci possono essere sempre). Bisogna cioè  dubitare motivatamente che la parola sia usata in maniera apertamente incoerente o contraddittoria, o in maniera assolutamente vaga e inconsistente. Poiché la parola non è stata ritirata dal vocabolario, e fino al manifestarsi di radicali incomprensioni, è lecito da parte di chi la usa supporre che il suo significato sia sufficientemente preciso nel contesto in cui viene usata – così come è lecito da parte di chi risponde premettere alla risposta una qualche ulteriore precisazione. E il fatto che questa precisazione possa essere avvertita come necessaria non rende per ciò stesso imprecisa la domanda da parte di chi l’ha posta, dal momento che l’uso di ogni parola può essere sempre ulteriormente precisato.
(Sulla presenza o assenza di critici che denunciano "la totale mancanza di vitalità, ecc." non so dire)
2. Si può rispondere come sopra. Il questionario non chiede di discutere in cosa consista la qualità, ma chiede se, posto che sia sufficientemente noto, a partire da alcuni esempi significativi (che potrebbero essere addotti senza pretendere che il valere come esempio valga quanto il possedere un univoco criterio) posto che sia noto quando si possa parlare di buona qualità di un’opera, se questa sia in qualche modo frenata dall’industrializzazione crescente, ecc. (d’altra parte, io non sono un sociologo, e avrei difficoltà anche a dare una definizione ‘esatta’ di "industrializzazione crescente"). Il questionario suppone che ci sia sufficiente accordo non su tutte, ma almeno su alcune opere significative di buona qualità. Non è una supposizione irragionevole, oppure: bisognerebbe a propria volta dimostrare che la supposizione è irragionevole, per giudicare poi la domanda male impostata.
3. La domanda avrebbe potuto (non so se dovuto) essere formulata nel modo seguente: quale rapporto si ritiene vi sia fra ‘stato della nostra letteratura’ e ‘pagine culturali dei quotidiani’? Anche in quest’ultimo caso, si sarebbe potuto chiedere di essere più precisi e rigorosi (cosa mai si intende, infatti, per ‘rapporto’?), e tuttavia credo che sarebbe ragionevole attendersi che una domanda del genere ingeneri una famiglia di risposte fra di loro sufficientemente imparentate perché si dimostri che la domanda possiede una sua determinatezza (benché non assoluta, benché non nel senso della più rigorosa univocità, ecc.). Per la verità, la stessa verifica sperimentale (a posteriori, a partire dalle risposte suscitate e dall’aria di famiglia che si stabilirebbe fra di loro) può verificarsi anche a partire dalla primitiva formulazione della domanda. È ragionevole supporre infatti che con la parola ‘rispecchiamento’ si faccia riferimento a quello che in generale si ritiene il compito del giornalismo (a torto o a ragione, ma in entrambi i casi in modo approssimativamente condivisibile), ossia dire come stanno le cose. E cioè (più o meno): uno che legga solo le pagine culturale dei quotidiani si fa un’idea abbastanza precisa e fedele dello stato della letteratura oppure no?
4. Qui domanderei: quando dico a mio figlio che è un bravo figliolo, avrebbe senso che lui mi chiedesse in che senso preciso prendo l’aggettivo? E se lo facesse, me la potrei davvero cavare con poco? Temo di no. Io tendenzialmente mi accontenterei perciò, in casi simili (come in sostanza nelle precedenti risposte), che buono venga definito come ‘quel che la comunità di coloro che si interessano a un questionario simile ritiene in generale che sia un buon livello, ecc.’: ne verrebbe fuori una lista di caratteristiche aperta e, di nuovo, un po’ vaga, ma non per questo priva di qualunque sensatezza o apparentabile all’enciclopedia cinese di borgesiana memoria. Aggiugno, il che mi pare rilevante per la proposta stessa di un questionario simile, che non c’è affatto da preoccuparsi, ma anzi solo da auspicare che, nel rispondere o prima di rispondere, il rispondente dia insieme un contributo anche alla definizione dell’aggettivo, specificando in quale senso lo prende e perché. Esigere che sia fatto in via preliminare risponde a un modello di discorso scientifico non dialogico che non è necessariamente da preferire in discussione come quella avviata da Nazione Indiana.
5. Qui io sarei portato a intendere: azioni non specificamente letterarie, volte però ad aiutare la produzione letteraria, e in particolare quella di buona qualità. Per azioni non specificamente letterarie intendo ad esempio forme di sostegno economico-finanziario (ma non solo: la domanda in effetti chiede di ipotizzare in generale ‘possibili forme di sostegno’). (Se ad esempio elimino totalmente l’IVA sui libri, sostengo)
6. Per scrittore, in maniera a bella posta circolare (e perciò non priva di problemi: va anche detto però che persino per la scienza leggo definizioni del tipo: ‘ciò che la comunità degli scienziati ritiene che sia scienza’), per scrittori credo si possa intendere chi la comunità degli scrittori ritiene che sia tale. Se poi gli scrittori abbiano una cosa da dire in quanto scrittori, io qui risponderei: sì, il mondo intero. Ma un approfondimento riguarderebbe solo la mia idea di letteratura, e perciò lascio perdere.
Infine, è evidente che dietro il giudizio sulla crisi evidente della nostra democrazia c’è un giudizio politico. Rispondendo si può ben dire di non condividere un simile giudizio, ma il fatto che vi sia un simile giudizio (che io, peraltro, dettaglierei in un certo modo) non rende per ciò stesso male impostata la domanda. La domanda può essere errata, muovere cioè da presupposti errati (nel caso: che si dia questa evidente crisi) ma se per male impostata si intende che è posta in modo tale che non c’è modo di rispondere sensatamente o anche solo in maniera interessante ad essa, non sono d’accordo che essa lo sia. Per esempio: contestare il presupposto è un modo sensato e forse anche fruttuoso di rispondere alla domanda. (O anche: se uno mi domanda come intendo affrontare il lutto per la morte di mio fratello, io posso ben rispondere che mio fratello non è affatto morto e non c’è quindi alcun lutto che io debba elaborare. La domanda è, dal mio punto di vista, errata, ma non male impostata).
7. Qui è interessante che Giulio faccia propria, per amor di supposizione (e per arrivare probabilmente al punto che gli pare più rilevante), la distinzione fra mondo della cultura e mondo politico. Sicché gli domanderei: perché non prova a rispondere alle domande di sopra, per lui male impostate, supponendo che si sappia in genere cosa è un’opera di buona qualità, o chi sia uno scrittore, ecc.? Quanto poi all’appartenenza all’uno o all’altro mondo, è ben evidente ad esempio che Berlusconi e Bersani appartengono al mondo politico, e che Valerio Magrelli e Umberto Eco appartengono al mondo della cultura (si può anche contestare questa evidenza, perché è tutto contestabile, ma mi domando a cosa servirebbe contestarlo e perché non lo si potrebbe supporre per amore di discussione e per arrivare al punto). E’ altrettanto evidente che i primi non appartengono al mondo della cultura (il che non vuol dire che siano incolti) e i secondi al mondo della politica (il che non significa che le loro parole non possano avere effetti politici). Di più: la stessa persona (ad esempio: Bobbio, o Sciascia) può appartenere all’uno e all’altro mondo, e dire che parla ‘da uomo di cultura’ o che parla (per esempio in un discorso in Parlamento) da ‘uomo politico’. Tutto ciò gode di sufficiente evidenza perché sia accolto senza definizioni preliminari (e persino Cartesio, l’uomo delle idee chiare e distinte, diceva: non chiedetemi di definire che cos’è un uomo perché ci capiamo meglio senza buttarci tra le gambe la ricerca della definizione). Berlusconi e Bersani da una parte, Magrelli ed Eco dall’altra non sono naturalmente un criterio (men che meno un criterio valido universalmente), ma solo degli esempi. Se vengono intesi come se con essi si dicesse, ad esempio, che politico è solo chi siede in Parlamento o ha cariche istituzionali, vorrebbe dire che se ne si sarebbe frainteso la natura di esempio.
Dopodiché si possono sicuramente fare ulteriori passi avanti, ma credo di avere mostrato schematicamente che si ha ragione di parlare di ‘mondo politico’ (lo si fa tutti i giorni) e di ‘mondo della cultura’ (non lo si fa tutti i giorni, ma lo si fa e lo si può fare in maniera che l’espressione abbia sufficiente consistenza) e di chiedersi se si instaurino rapporti e quali. Il che non impedisce di pensare, ad esempio, che la cultura non è vera cultura se è separata dalla politica (ed eventualmente di rispondere anche, in questo modo), oppure di specificare che con ‘mondo della cultura’ si intende far riferimento solo al ‘mondo letterario’ e non anche a quello ‘musicale’, oppure alla ‘cultura alta’ e non a quella ‘bassa’ (oppure tutto il contrario), eccetera eccetera. Il ventaglio di precisazioni possibili non è necessariamente un difetto della domanda e non ingenera necessariamente equivoci. D’altra parte, se Nazione Indiana avesse domandato se vi è rapporto fra Berlusconi e Magrelli, se si conoscono o si frequentano, se leggono l’uno i discorsi dell’altro, e l’altro i libri dell’uno, la domanda sarebbe stata sicuramente più precisa, ma anche meno significativa. E non sempre con la precisione si guadagna in comprensione.
 8. Opportuno o no che uno scrittore scriva su giornalacci (o ritenuti tali) vuol dire: che faccia bene. (Inopportuno: che faccia male). Nell’accezione che queste espressioni prendono quando si dice: hai fatto bene a andare al funerale; hai fatto bene a chiedere scusa, ecc.
Giunto al termine di questa mia fatica, chiedo a Giulio:
sei disposto a ritenere che le domande non sono male impostate se le risposte che vengono raccolte mostrano una sufficiente aria di famiglia, e per esempio di riguardare se non proprio gli stessi fenomeni, perlomeno fenomeni vicini?
 
Infine: non è che a me piacciano tutte le domande. È abbastanza probabile che alcune di esse presuppongono un certo giudizio sullo stato della cultura nel nostro paese (e anche su che cosa sia cultura), ed è discutibile che esse siano le più perspicue per riflettere per l’appunto su ciò su cui chiedono di riflettere. Ma non per questo sono male impostate, né è impossibile, nel rispondere, mettere appunto in questione questi aspetti, e così contribuire a formulare migliori domande.
(Infine infine: si può prendere tutto ciò per una discussione del significato di: ‘domanda male impostata’ e dell’uso di parole che è duro definire, nonostante la loro relativa chiarezza).

Idee chiare

– Papà, non ti preoccupare. L’anno prossimo non mi fidanzo. Mi fidanzo alle scuole medie -.

Quando l'intellettuale imbarazza la politica

(il titolo è un po’ forte, diciamo):

Il dibattito sul ruolo dell’intellettuale, che periodicamente si riaffaccia sui giornali, fa spesso insorgere il sospetto che ormai l’unica discussione appassionata alla quale l’intellettuale è titolato a partecipare e che ne giustifica l’esistenza sia quella relativa al suo stesso ruolo. Se poi si aggiunge che ormai degli intellettuali ci si occupa quasi soltanto per fustigarne i vizi, denunciarne le debolezze e infine decretarne l’irrilevanza, quel che appare davvero misterioso è perché, se l’intellettuale è conciato così male e conta così poco, si continui inesorabilmente a dargli addosso. Tanto più che spesso lo si fa per opposti motivi. Lo si accusa, per esempio, di eccessivo conformismo e acquiescenza al potere. Pierluigi Battista ha dedicato al tema un libro, che parla chiaro e forte fin dal titolo: I conformisti, appunto, e pazienza se oggi suona di gran lunga più conformistico parlar male degli intellettuali che non invece esaltarne la figura.
D’altra parte, mentre Battista stigmatizza i cedimenti morali e gli altri obbrobri commessi dalla categoria, Sandro Bondi, riflettendo sullo stato dei rapporti nella maggioranza, muove il rilievo opposto e assolve il politico, cioè Gianfranco Fini, ma non gli intellettuali della Fondazione Farefuturo, che Fini presiede, ai quali imputa di andare ben oltre la volontà del loro Presidente: di prendersi cioè troppe libertà (quelle intellettuali, giustappunto), quando invece bisognerebbe avanzare, secondo lui, a schiere ben serrate.
È chiaro però che né lo sguardo rivolto da Battista ai casi individuali né la preoccupazione di Bondi circa le contingenze politiche del momento sono di aiuto per capire che cosa ci stia a fare l’intellettuale in società, e se abbia ancora qualche significato il fatto che ci stia proprio in quanto intellettuale – e non per eventuali, specifiche competenze in questo o quel settore di attività. Anzi, oramai si stenta del tutto a capire perché, oltre all’esperto di turno e al politico, debba comparire sulla scena pubblica, e per far cosa, il generico profilo dell’intellettuale non legittimato dal voto (come il politico) né dal possesso di un sapere tecnico-scientifico (come l’esperto). Non essendovi altre fonti di pubblica autorevolezza, l’intellettuale finisce così col comparire davanti alle telecamere o su qualche illustre palcoscenico per parlare approssimativamente di tutto, e perciò di nulla: per chiacchierare, insomma, che è precisamente la cosa che si fa quando si parla di tutto e di nulla, del più e del meno.
C’è poco da stare allegri, tuttavia. E non perché il confronto fra il maîre-à-penser di una volta e l’ospite televisivo con titolo accademico di oggi si risolverebbe a tutto vantaggio del primo. Peraltro, quelli che preferiscono la chiacchiera contemporanea al furore ideologico degli anni passati esagerano, ed esagerano proprio perché non fanno altro che conformarsi ai gusti dello spettatore medio (oltre che, si sarebbe detto una volta, alle esigenze del potere, che preferisce di gran lunga la ciarla alla critica). C’è poco da stare allegri perché l’opinione pubblica è tale se e solo se c’è un uso pubblico della ragione, e pubblico vuol dire libero e universale: non sacerdotale o sapienziale – nessuno se lo può più permettere – ma nemmeno meramente strumentale, e legato solo a scopi o interessi particolari, nobili o sordidi che siano. Pubblico è per l’appunto l’uso intellettuale della ragione. E il fatto che il pubblico decada a pubblicità, senza essere un inesorabile legge di struttura è però faccenda di gran lunga più pericolosa per la salute di una democrazia di tutti i pregiudizi pseudo-ideologici denunciati da Battista, come anche dei capricci politologici che innervosiscono Bondi.
Non bisogna però farsi illusioni: una parola che non sia intessuta di potere non c’è. Oppure, se c’è ed è davvero libera dai condizionamenti del mondo è anche, per ciò stesso, fuori dal mondo e quindi del tutto ineffettuale. Ma un’alternativa rimane: fra il dare parole al potere, e farsi suoi corifei, e dare potere alle parole, rafforzando i luoghi e i modi della critica e dell’esercizio intellettuale, non si può che scegliere la seconda strada. Tentare, almeno. E proprio per questo scandalizzarsi meno se l’intellettuale si è schierato e molto più se lo schieramento è rimasto del tutto privo di idee.