Archivi del mese: aprile 2010

La lunga marcia di Gianfranco

Di lunghe marce in politica ce ne sono state parecchie, e a giudicare dalle parole che il Presidente della Camera ha usato ieri è ad una lunga marcia che si sta preparando, dopo il fragoroso scontro in Direzione Nazionale. Fini ha escluso infatti tutte le soluzioni che porterebbero ad un’immediata resa dei conti: non fonda un partito, non prepara imboscate, non costituisce gruppi autonomi, non fomenta la crisi.
Come in ogni lunga marcia che si rispetti, non contano gli attuali rapporti di forza, ma la linea lungo la quale è possibile modificarli. Sui numeri ieri Fini ha (comprensibilmente) tagliato corto, sulle questioni politiche che intende sollevare no. Nessuna acquiescenza, ha detto, e si capisce che lealtà e responsabilità non impediranno a Fini di aprire discussioni su tutti i punti politicamente sensibili dell’agenda di governo. E siccome la lingua batte dove il dente duole, e siccome a dolergli è soprattutto il dente della trazione leghista del governo, è anzitutto sul federalismo, sui suoi costi, sulla salvaguardia della coesione nazionale che Fini ha battuto, molto più che sui temi della giustizia: questi ultimi, infatti, irritano sicuramente di più Berlusconi, ma molto meno Bossi e la Lega, con cui è aperta la partita vera. E la partita vera richiede tempi lunghi, perché si tratta nientedimeno che di mutare la ‘costituzione materiale’ della seconda Repubblica.
Al di là del testo costituzionale, infatti, il patto che oggi ci lega è fondato di fatto su due elementi: da una parte, un assetto politico e istituzionale tendenzialmente presidenzialista, unito alla mancanza di legittimazione di tutto ciò che somiglia sia pure alla lontana ai partiti tradizionali; dall’altra, la sostituzione della polverosa questione meridionale, divenuta agli occhi dell’opinione pubblica sinonimo di arretratezza, illegalità e inefficienza, con la questione settentrionale, col problema cioè di come lasciare le briglie finalmente sciolte al paese che funziona.
Qual è stato infatti il giudizio reso da Bossi, mentre chiedeva bruscamente le dimissioni del Presidente della Camera? È un vecchio notabile democristiano, ha detto, incurante della biografia politica di Fini. Appartiene alla prima Repubblica, voleva dire, quella che o è scomparsa o è finita tutta all’opposizione: noi invece, sottintende Bossi, siamo la seconda. Noi, cioè la miscela di populismo e federalismo in cui le perplessità e i distinguo di Fini non debbono trovare posto alcuno. Non che tutti gli umori e i sapori del centrodestra stiano in questa urticante miscela: sarebbe un grave errore pensarlo. Ma quando il gioco si fa duro, le durezze si fanno sentire eccome, e le linee di frattura si fanno, inevitabilmente, più visibili.
Ecco perché la marcia è lunga, e Fini ha davanti un percorso per nulla facile: perché ne va molto più che non del suo rapporto con Berlusconi. Dei due elementi su cui si fonda la legittimazione egemonica dell’attuale maggioranza, Fini sembra d’altra parte meglio attrezzato per mettere in discussione il secondo, quello che lo colloca dalla parte dell’unità nazionale contro gli egoismi localistici della Lega. Quanto invece al primo, ne vede tutti gli aspetti negativi nella vita interna del partito (che non è un partito, è un popolo, dice Berlusconi, ed è tutto dire), ma non ne discute affatto l’eventuale proiezione istituzionale. Si ha però un bel criticare il "centralismo carismatico" di Berlusconi, secondo la bella definizione di Alessandro Campi: finché il sistema politico resta imperniato su di esso, il dito alzato di Fini in Direzione rischierà di essere classificato come una piccola, per quanto clamorosa, impertinenza.
Naturalmente, uno i tempi non è che se li può dare a proprio piacimento, ed è da vedere se Fini di tempo ne avrà quanto gliene occorre, o se la sua fronda verrà assorbita, invece di ingrossarsi. Difficile fare ipotesi. D’altronde, il primo politico che ebbe la vista lunga riuscì, al termine di una lunga marcia, a portare il suo popolo nella terra promessa, ma, lui, Mosé, non ci entrò mai. Non è quello che auguriamo a Fini, ma che il paese abbia comunque bisogno di una buona leva di legislatori per completare finalmente la sua traversata, e trarsi fuori dal Mar Morto di un assetto politico-istituzionale che avrà pure il marchio della seconda Repubblica ma resta inconcluso, inefficace e inefficiente, questo, vista lunga o no, è ormai un’esigenza sotto gli occhi di tutti.

Bruno Gambarotta

Gentile signora Gelmini, mi consenta di felicitarmi con lei per la proposta del reclutamento regionale degli insegnanti a partire dal 2011, un grande contributo alle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità. La prego, fatto trenta, faccia trentuno. Prendiamo una regione a caso, il Piemonte. Si fa presto a dire piemontese. Da astigiano non vorrei mai che i miei discendenti avessero un insegnante biellese. Tutta brava gente, per carità, ma fanatica del lavoro e dedita al culto del dio denaro. Un langarolo? Per carità, tutta brava gente, ma giocatori, hanno inventato il pallone elastico per poter scommettere su ogni tiro. Tenga conto, la prego, che la mia famiglia è del rione San Secondo: purtroppo anche quelli che abitano al di là del Tanaro  si fanno chiamare astigiani, tutta brava gente per carità ma lei mi insegna che nonc’è niente come un fiume capace di differenziare i caratteri. Brava Gelmini: lei è troppo giovane per ricordarsene, ma c’è stato un tempo in cui i professori, vinto il concorso, venivano mandati in sedi lontane; così gli Augusto Monti, gli Umberto Zanotti Bianco scoprivano la spaventosa arretratezza del nostro Sud e ne scrivevano, mettendo in cattiva luce la loro patria all’estero. Non succederà più, ce ne staremo ciascuno nel suo bozzolo, al massimo andremo una volta a Catanzaro a farci dare l’abilitazione per esercitare la professione di avvocato.

(La Stampa, 24 aprile)

Invece

Oggi, invece, a Top of the Pops c’era Christina Aguilera:

Enrico: "Questa è brava, però canta con il sedere!".
Io: "Andiamo a giocare a pallone".

Ma perché?

"Non dimenticherò mai quel collega autorevole, e sicuramente di valore, che insegnava la fenomenologia e l’esistenzialismo heideggeriano in una prestigiosa università degli Stati Uniti e che fu mio ospite a Roma. Lo portai, tra l’altro, a vedere Campo de’ Fiori e gli mostrai la statua di Giordano Bruno. Interessante, disse, ma perché l’han bruciato?" (C. Sini).

Post

"Il prefisso post- regala a buon mercato l’illusione del rinnovamento dove non ce n’è" (E. Hazan).

Tu l'hai detto

Oggi pomeriggio a Top of The Pops c’era Shakira, con She, Wolf.

Enrico: "Questa cantante è proprio brava!"
Io: "Dici?"
Enrico: "Vedi come si abbassa? E’ proprio brava!".
Io: "Come si abbassa?"
Enrico: "Sì, perché una cantante più si abbassa e più è brava".
Io: "E chi te l’ha detto?"
Enrico: "Tu, papà!".

 

Bersani alla prova del federalismo

(Questo articolo è apparso su Il Mattino lo scorso otto aprile, giovedì. Il che la dice lunga su come riesca a tener dietro alle cose)

Si apre la partita delle riforme istituzionali, e le forze di opposizione devono esserci. Berlusconi scalpita, Bossi accelera, e la minoranza non può restare al palo. Il Pd ha certo un paio di argomenti per sfilarsi, ma ha anche un ottimo motivo per disputare fino in fondo la partita. I primi due sono essenzialmente tattici, l’argomento a favore è invece di natura strategica e può portare vantaggi di lunga durata, proprio quelli di cui avrebbe bisogno un partito nuovo, per attrezzarsi in the long run.
Ma vediamo anzitutto gli argomenti tattici. Il primo poggia sulla rendita di posizione dell’antiberlusconismo. Se si considera Berlusconi un pericolo per la democrazia, quel che si deve fare consegue con facilità. Agli elettori si deve solo spiegare, persino ossessivamente, che tutto quello che la maggioranza intende realizzare rappresenta una china pericolosa per il paese: verso derive sudamericane o balcaniche, a seconda delle proprie preferenze geografiche e dei pericoli che si vogliono denunciare, che si tratti dell’autoritarismo o della secessione. Se anche in passato ha potuto funzionare, è dubbio tuttavia che l’argomento possa stare in piedi indefinitamente, o almeno finché Berlusconi non lasci la scena politica. Senza considerare che al bacino dell’antiberlusconismo attingono già, a piene mani, Di Pietro e Grillo: quanti voti in più si pensa di raccogliere da quelle parti? E per farne che?
Il secondo argomento si fonda sulla proiezione del possibile scenario che si delineerebbe a riforme approvate: sarebbero calzate su misura di Berlusconi, e assicurerebbero alla maggioranza un risultato di indubbio prestigio da spendere alle prossime elezioni. L’argomento non è privo di validità, ma ha il difetto di dare per scontata in partenza la propria irrilevanza. Ora, può un partito scommettere sulla marginalità del proprio ruolo nello scegliere quale linea adottare? Non c’è bisogno di chissà quale vocazione maggioritaria per rispondere che no, non si può.
L’argomento che dovrebbe invece suggerire al Pd di vedere le carte e giocarsi davvero la partita suona press’a poco così: se il partito democratico ritiene di avere una funzione storica e nazionale, se vuole farsi interprete di un’idea di paese, se è consapevole che fisionomia e identità dei partiti non si costruiscono in vitro ma nel vivo della lotta politica, allora le riforme istituzionali sono il terreno migliore sul quale far valere non semplicemente le proprie ragioni, ma la propria stessa ragion d’essere.
È ben difficile infatti che un nuovo partito nasca da vecchie formazioni e si affermi a sistema politico immutato. Se così fosse, peraltro, vorrebbe dire che il partito democratico esiste solo per l’impossibilità dei partiti di provenienza, DS e Margherita, di continuare ad esistere. Magra consolazione (che le urne non mancherebbero di smagrire sempre più). E invece il Pd deve saper dimostrare il contrario: che cioè DS e Margherita costituivano solo la figura di transizione assunta in stato di necessità, dopo il crollo della prima repubblica, mentre il partito democratico è la risposta naturale al nuovo ambiente politico e istituzionale che si vuole e si deve costruire.
Qualcosa del genere prova del resto a fare anche l’UDC, che difatti non perde occasione di spiegare quanto la sua presenza si giustifichi non in base a una riedizione della politica dei due forni, ma in forza del tentativo di disarticolare l’attuale sistema politico per costruirne uno nuovo.
Come spiegare altrimenti ai cittadini che il partito è sì nuovo, ma sta lì solo per difendere la Costituzione? Questo non vuol dire che la Costituzione sia vecchia, o che i valori costituzionali siano da buttare: tutt’altro. Ma a difenderli deve pensarci, e ci pensa egregiamente, il Presidente della Repubblica, non un partito, che non è affatto un’istituzione di garanzia – salvo, ma saremmo daccapo all’antiberlusconismo, quando è in gioco la salvezza nazionale.
Per il resto viene difficile dirlo, perché l’espressione usata da Mortati ha preso un senso spregiativo, ma occorre che il Pd sappia davvero iscriversi nella costituzione materiale di questo paese. Per il momento c’è riuscita solo la Lega, sicché pare naturale che la riforma costituzionale non possa che essere federalista. Ma provi allora il Pd a chiedere per esempio: federalista davvero, ogni pezzo d’Italia con un suo proprio sistema normativo? E non comincia proprio qui, nel disegno di questo federalismo, lo spazio più ampio per l’iniziativa politica di una opposizione che abbia a cuore le sorti del paese?

La furia del dileguare condanna la sinistra

C’è una cosa che il partito democratico dovrebbe mettersi bene in testa, ed è che di qui alle elezioni politiche generali mancano la bellezza di tre anni. E i tempi, in politica, sono tutto. Sono il metronomo dell’azione, il ritmo che ne scandisce il passo. In cerca di profili più o meno riformistici, il partito democratico ha finora trascurato di darsi idee e programmi e uomini in ragione dei cicli elettorali che doveva affrontare. Questa negligenza, ancor più che la mancata definizione di una propria identità, è forse il suo vero peccato originale, che sconta ancora adesso, nei risultati di domenica.
Alla sua nascita, il partito democratico ha impresso con Veltroni una forte accelerazione alla crisi del centrosinistra: che abbia o no provocato la fine del governo Prodi, è un fatto che dal battesimo iniziale del partito alla prova delle elezioni passarono, nel 2008, pochi mesi. Troppo pochi per chi voleva, allora, ricominciare daccapo e fare un partito tutto nuovo. È poi stata la volta di Franceschini, alla guida del Pd fino al congresso, ma in sostanza quasi sbalzato di sella già con le europee del 2009, cioè solo pochi mesi dopo la sua nomina a segretario. Anche in quel caso, il progetto e i tempi di realizzazione non erano accordati fra di loro. Ora è la volta di Bersani: per il momento è solo la figlia di Veltroni, su Facebook, che si domanda con candore se non si debba dimettere qualche dirigente del Pd, visto il voto, ma può darsi che prima o poi si facciano vive anche anime meno candide e molto più determinate nel chiedere al segretario di farsi da parte. Hegel la chiamava "furia del dileguare", e la considerava una malattia tipica di quel democraticismo astratto, incapace di produrre alcuna opera positiva, che risultava paradossalmente non da poca ma da troppa, moralistica virtù. I tempi stretti con cui finora si sono succedute le stagioni dei segretari del Pd sembrano suggerire una diagnosi del genere: il partito democratico non riesce a non essere troppo esigente con se stesso, e trova sempre, sui giornali o in qualche outsider balzato agli onori della cronaca, un fustigatore sin troppo severo delle sue incertezze, delle sue ambiguità, delle sue mediazioni. Che si tratti di Luttazzi nei teatri o di Grillo nelle piazze, dell’IdV in parlamento o di Santoro in televisione, la richiesta non manca mai di essere elevata. Da ultimo, sembra ora che Nichi Vendola sia intenzionato a rivolgere alle formazioni che lo hanno sostenuto un invito di questo tenore: scioglietevi, sciogliete i partiti che ormai sono roba vecchia, e ricominciate, ricominciate un’altra volta, un’altra volta tutto daccapo. Non il vento del cambiamento, che richiede pazienti tessiture, ma la furia del dileguare torna a soffiare con forza. Prima si gonfiava solo con le intemerate di Di Pietro; a queste elezioni sembra farsi forte anche dei risultati di Grillo e del carisma movimentista del governatore pugliese, che non avendo un partito vero dietro di sé ha tutte le ragioni di questo mondo per desiderare di fare piazza pulita degli altri. L’intenzione dei 49 senatori che ieri hanno scritto a Bersani sarà forse diversa, ma intanto pure loro non dicono altro: «Bisogna cambiare passo, bisogna muoversi subito». Si tratta sempre della medesima furia. I senatori parlano, come veri rivoluzionari, di «imborghesimento» e scrivono pure che «le liturgie della casa sono stantie». Non si rendono conto che la Lega, il partito che ha vinto le elezioni, si è permesso il lusso di inventarne davvero una, quella dell’ampolla del Po, e di ripeterla uguale ormai da almeno un decennio. Sono tempi che il Pd dovrebbe sapersi dare, perché non è che la politica estera, la politica economica o le riforme istituzionali si facciano ogni sera, di bel nuovo, all’ora del telegiornale. Quando si dice basta al teatrino della politica è perché bisognerebbe riempirlo di scelte strategiche su questi terreni, capaci, nel caso del Pd, di dargli la forza e la credibilità di un vero partito, interprete dell’interesse nazionale. A Bersani bisognerebbe chiedere solo questo: non di cambiare genericamente quel che non va, ma di mandare avanti qualcosa che duri. L’analisi delle regionali non dà indicazioni determinate. Non si può dire infatti né che il Pd vada meglio con l’Udc, né che vada peggio. Né che faccia bene a imbarcare la sinistra radicale, né che faccia male. I dati non sono un’opinione solo se si evita di piegarli a beneficio di una tesi precostituita. È abbastanza evidente, infatti, che essi non indicano una linea che non sia responsabilità di Bersani e della dirigenza del Pd tracciare. Non gliela dettano: non gli danno certo un risultato che gonfi le vele del partito e lo porti in carrozza fino al 2013, ma non lo deprimono abbastanza da imporre l’ennesimo nuovo inizio. Gli chiedono invece di placare la furia del dileguare e di fare davvero politica. A tutto campo.