Archivi del mese: aprile 2011

Struzione!

Che è quando il gioco è in corso, qualcosa a Mauro non torna, bisogna cambiare le regole, allora si ferma, ti guarda, inclina la testa e con sguardo furbetto e voce squillante grida: "Struzione! Papà! Struzione!". E allora ti dà le nuove istruzioni, e tu non puoi più fare quello che stai facendo perché il gioco cambia ad personam, e tu puoi solo perdere.

(Ogni riferimento alle vicende politiche del paese, a leggi o referendum in discussione è, da parte di Mauro, assolutamente casuale. Lo giuro.).

Sinistra sinistra

Jean Luc Nancy: diamo una mano agli insorti di Bengasi.
Alain Badiou: Jean-Luc, ma che dici?

Napoli immobile muta solo l'abito

“La napoletanità: quell’impasto sociale in cui ogni differenza di ceto e di senso, anche se enorme, diventa secondaria di fronte alla più forte omogeneità antropologica”. La definizione è di Raffaele La Capria, e non si potrebbe dir meglio. Non si potrebbe scegliere introduzione migliore allo scenario che sembra delinearsi con le prossime elezioni.
Napoli viene da un lungo ciclo di amministrazioni di centro-sinistra. Prima Bassolino, poi Iervolino. Ci si aspetta che il voto del 15 maggio sia anche un giudizio su queste esperienze, oltre che sulla credibilità delle prospettive che i diversi schieramenti indicano all’elettorato. Il candidato del centrodestra, Gianni Lettieri, si presenta come l’uomo della discontinuità e del cambiamento. Subito dichiara però che è, sì, del centrodestra, ma che di fronte ai drammatici problemi della città quel che conta non è tanto l’essere di destra o di sinistra, quanto piuttosto “circondarsi di gente capace”. E così incassa senza imbarazzo l’appoggio di fette consistenti del ceto dirigente napoletano fino a ieri collocatosi a sinistra. In che modo però ritenga di garantire discontinuità e maggiore capacità nello sviluppo dell’azione amministrativa, preservando una fitta trama di rapporti, legami, interessenze, non è affatto chiaro. Il rischio di operazioni puramente trasformistiche è reale. Il timore che anche in questa tornata elettorale prevalga quella “forte omogeneità antropologica” che impedisce il prodursi di una svolta effettiva, persino là dove vi sarebbero state tutte le condizioni per farlo, è più che fondato.
Naturalmente, il dubbio investe l’intero spettro delle forze in campo. Questo giornale ha contato la ricandidatura di ben 48 consiglieri su 60 uscenti, una percentuale che dimostra da sola – se così si può dire – la forza del passato. E non aiuta affatto, in queste condizioni, la dichiarazione di irrilevanza circa il senso politico della competizione: il discredito di cui soffrono oggi i partiti è tale per cui si comprende bene che nessun candidato metta in vista la propria appartenenza. Eppure, la politica è o dovrebbe essere il luogo in cui si catalizzano progetti coerenti di trasformazione della città: rinunciarvi dimostra solo mancanza di ambizione, o di coraggio. Il discorso sulla competenza o sulla capacità delle persone è infatti solo l’altra faccia del “tanto sono tutti uguali”: si tratta sempre della stessa medaglia, per giunta di cattivo conio, visto che gli uomini, capaci o incapaci che siano, finiscono spesso con l’essere gli stessi.
Quel che queste vicende insomma restituiscono è l’immagine di una città immobile, che si lascia sfuggire ogni volta la possibilità di un cambiamento reale; di una città ridotta a palcoscenico, che dietro fondali dipinti lascia immutati tutti i problemi che l’assillano da sempre.
Il saggio di La Capria su Napoli si apriva con parole prese a prestito da Le città invisibili di Calvino. Eccole: “Nessuno sa meglio di te, saggio Kublai, che non si deve mai confondere la città col discorso che la descrive”. In confusioni del genere è facile incorrere, quando si tratta di Napoli. La tesi di La Capria era questa, infatti: da quando Napoli ha smesso di essere capitale ed è uscita dalla storia, si è inventata la napoletanità, la sua croce e la sua delizia, il luogo immobile e fittizio in cui recita se stessa, e che quindi è da contarsi non come un ‘di più’, ma come un ‘di meno’: qualcosa che fa da insuperabile ostruzione alla mobilità sociale, al cambiamento, alla modernità.
Forse il dramma di Napoli sta proprio in ciò, che il bilancio della sua storia si è così imbrogliato, che sono le stesse voci in attivo a dover essere ormai rubricate in passivo. Forse, il giorno in cui si potrà tirare una bella linea dritta e non ambigua tra le une voci e le altre, Napoli sarà più vicina al modo in cui una città moderna ed europea sa fare i suoi conti.
Oppure si può sempre pensare, con Pasolini, che la città si rifiuta di premiare chiunque provi a muovere qualche passo in direzione della modernità, perché nella modernità non vuole affatto entrarci. E politica e società civile non fanno che adeguarvisi. È bene però ricordarsi, ad ogni appuntamento mancato con la storia, ad ogni cumulo di immondizia che si incontra per strada, qual è di questo rifiuto l’amaro risvolto.
(Il Mattino)

Ablativo assoluto

Tanti parlano di McLuhan senza averlo letto. Per esempio: "Come estensione dell'uomo, la poltrone è un'ablazione specialistica del posteriore, una specie di ablativo assoluto del sedere".

(Trattasi di paragone fra la poltrona del direttore di giornale, e il divanetto dello psichiatria, che lo psichiatra adoperebbe perché, a differenza della poltrona, "soprrime la tentazione di esprimere punti di vista personali", che la comoda seduta in poltrona favorisce e incoraggia).

P.S. Mi fosse tornato in mente per tempo, avrei consigliato a Stefano Fassina di servirsene in replica alla risposta di Ferruccio De Bortoli.

Romanticismi

La frase è: "Piccola mia, io ti proteggerò". Chi l'ha pronunciata?

a) Leonardo di Caprio nella scena madre del film Titanic di J. Cameron;

b) Il primo spasimante di mia figlia Renata di cui si sia avuta notizia;

c) mio figlio Enrico cingendo una insalatiera colma di insalata verde (e all'indirizzo dell'insalata);

d) Valerio Scanu.

… … …

La risposta corretta è c). (Ed è da dire che il gesto protettivo era volto a tenere il fratellino Mauro alla larga dall'insalatiera, prima di vuotarla con avidità). 

Come ti recensisco il segretario

Un partito riformista. Un partito del lavoro e dell’uguaglianza. Un partito di stampo europeo. E soprattutto un partito della Costituzione: sono le quattro espressioni chiave su cui Bersani intende costruire il partito democratico del XXI secolo. Quattro più una, in verità: affidata alla parola partito, visto che solo il Pd, fra le forze politiche italiane, la mantiene nel suo nome, rivendicando il suo carattere di partito (non di lega, di movimento o di popolo) come un punto di forza e non di debolezza: i circoli, le feste, gli iscritti, gli organismi dirigenti – tutto, dice Bersani, giova alla «ditta». Nel libro-intervista, a cura di Miguel Gotor e Claudio Sardo, che esce oggi, Per una buona ragione (Laterza, pagg. 201, euro 12), le quattro parole (più una) ricorrono e sono argomentate in lungo e in largo. A volte non abbastanza a lungo, a volte – poche volte – un po’ troppo alla larga: abbastanza, comunque, per farsi spazio sugli scaffali delle librerie tra l’autobiografia di Renzi e il manifesto di Civati. Ai due il libro di Bersani dedica solo un paio di passaggi veloci e un po’ infastiditi: «sono sempre stato assai critico con i cultori del nuovo», l’immagine della rottamazione è un’immagine «ostile». Può bastare. Ben altra attenzione è riservata invece all’incontro con la cultura cattolica democratica e liberale, in cui ci si imbatte in tutti i passaggi decisivi del libro: quando si tratta di declinare i temi della laicità o di rivendicare l’eredità positiva della prima Repubblica; quando si prova a formulare i contorni di un nuovo umanesimo o quando ne va dei limiti della politica e del suo rapporto con la società civile: tanto che si potrebbe pensare che ad uscirne un po’ ridimensionata è proprio la famiglia di appartenenza del «comunista emiliano», che stira e allunga la sua storia, all’indietro e in avanti, dal socialismo delle origini ottocentesche fino all’ulivismo dell’ultimo decennio del XX secolo, con in mezzo, come un capitolo tra gli altri, il Pci, la cui cultura storicista Bersani dichiara di non avere mai amato troppo. I temi però ci sono tutti, e sono ben ragionati: l’ambiente, la scuola, le riforme costituzionali, un nuovo fisco, un piano europeo per il lavoro – forse il terreno sul quale risulta più convincente e più incisiva la proposta di Bersani, a cui riesce anche l’intento di non apparire soltanto il pragmatico amministratore rosso, ma anche il portatore sano di una coerente visione del futuro. E non manca neppure la proposta politica. Sta in fondo, alla fine del libro. Come se, per coglierla appieno, bisognasse accettare di dedicare all’intervista tutta la pazienza che una lettura attenta richiede: ed è l’idea di unire le forze dell’opposizione in una prospettiva di ricostruzione nazionale, che metta fine al decennio populista di Berlusconi. La proposta sta tutta nella subordinata: e se anche il Terzo Polo di Casini e Fini, che è ancora in cantiere, non ci stesse ad allearsi fin dalle elezioni, il Pd non si stancherebbe di proporne la necessità anche dopo, in vista del governo del paese. Chissà. La scommessa di questa proposta, a ben vedere, non sta tanto nel testo, ma nel contesto: se davvero assistiamo – come asserisce Bersani – «a un movimento di ritorno di un pendolo» per cui è tornato il tempo «del circolo, della festa, della vita di associazione», di nuove forme di partecipazione democratica, Bersani potrà dire di avere avuto una buona ragione. Diversamente, populismo e leaderismo resteranno gli unici rintocchi della politica italiana. E forse gli presenteranno il conto anche nel partito.
(Il Mattino)

Le grandi domande

“Posso accettare il rischio dell’amore? Posso trpvare un amore che non generi solo insoddisfazione? Posso unire l’amore al godimento? Posso amarrne una senza volerle tutte? Posso trovare un partner che non abusi di me? Posso evitare che ogni amore si trasformi in merda? Posso esserle fedele? Posso esserle infedele? Posso sopportare la sua mancanza? Posso amare la sua mancanza?”

Puoi farmi una domanda alla volta? (M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Cortina 2010. Oggi Recalcati è a Roma, per il ciclo su Le passioni della politica, curato dl sottoscritto per il Centro Studi del Pd e la Fondazione Italianieuropei)

I fondamenti culturali della democrazia

La Fondazione Italianieuropei organizza la quarta edizione dell'International Summer School di Filosofia e Politica dedicata a “I fondamenti culturali della democrazia”, che si svolgerà a Capaccio (SA), dal 5 all’8 maggio 2011. La School, rivolta anzitutto a un pubblico qualificato di studiosi e ricercatori, vedrà la partecipazione di docenti ed esperti di fama internazionale.

International Summer School di Filosofia e Politica

I fondamenti culturali della democrazia

 

Capaccio-Paestum (SA), 5 – 8 maggio 2011

 

 

Si può descrivere un sistema politico democratico in termini di leggi, di metodi elettorali, di garanzie costituzionali. Ma una vita politica democratica suppone, oltre alle forme e alle procedure, anche una cultura conforme. Con il tema di quest’anno la School si propone di andare oltre l’apparente ovvietà di questa affermazione, per affrontare alcuni degli interrogativi che in essa si annidano. Da dove viene, infatti, questa cultura? Di cosa si sostanzia? È una e la stessa in ogni angolo del mondo? Quanto essa deve alla storia, per nulla pacifica, della sua affermazione? Chi o cosa la promuove, e in forza di che si organizza? E quale funzione essa svolge, di giustificazione della democrazia o di semplice coronamento dell’edificio democratico?

In un’epoca di allarmante sfilacciamento di un ethos civile condiviso, di messa in discussione dei legami statuali, attraversata da profonde modificazioni della sfera pubblica e da imponenti processi di tecnicizzazione, segnata dalla presunta fine delle ideologie e da nuove appartenenze etniche o religiose a volte in tensione con le condizioni di una cittadinanza democratica, una riflessione sui fondamenti culturali della democrazia si rende necessaria, perché la parola del vocabolario politico più usata al mondo non diventi un passe-partout buono per tutti gli usi, ma in realtà incapace di mordere il reale.

La School è suddivisa in quattro sessioni e si conclude con una tavola rotonda finale.

È possibile iscriversi entro martedì 26 aprile 2011.

 


Programma

 

Giovedì 5 maggio

Arrivo dei partecipanti e accoglienza

20.30                Cena


Venerdì 6 maggio

10.00                Apertura dei lavori

10.30-13.00     Cultura e ideologia
Intervengono: Michele Ciliberto, Elio Matassi
Coordina: Geminello Preterossi

13.30               Pranzo

15.30-18.30    Cultura, scienza e oggetto tecnico 
Intervengono: Mauro Ceruti, Jelica Sumic Riha, Rocco Ronchi
Coordina: Davide Tarizzo

20.30               Cena


Sabato 7 maggio

10.30-13.00    Cultura, nazione e Stato
Intervengono: Remo Bodei, Roberto Esposito, Ernesto Galli della Loggia
Coordina: Alfredo D’Attorre

13.30               Pranzo

15.30-18.30    Cultura, religione e diritti
Intervengono: Anna Elisabetta Galeotti, Michele Nicoletti, Wolfgang Schluchter
Coordina: Luca Baccelli

20.30               Cena


Domenica 8 maggio

10.00-13.00    Tavola rotonda conclusiva – I fondamenti culturali della democrazia
Intervengono: Robert Alexy, Massimo D’Alema, Rado Riha
Coordina: Massimo Adinolfi

13.30               Pranzo
 

Fuoco cammina con me

Mauro: – Dlin dlon! -.
Io: – Chi è? –
Mauro: – Fammi entrare .,
Io – Chi sei? –
Mauro: – Mi chiamo Fuoco. Sono una fiamma con le gambe -.

Il Pd riparte dalla questione meridionale

Trovare traccia del Mezzogiorno nell’agenda politica nazionale è impresa ardua. Gli annunci del governo non sono mancati: grandi investimenti infrastrutturali, incisivi interventi sulla fiscalità, e una banca nuoca di zecca, la Banca del Sud. Quelli che all’annuncio dovevano seguire, i fatti, sono però mancati clamorosamente. Ed è facile pronosticare che continueranno a mancare, vista l’egemonia leghista sul governo: non c’è politica del governo, dall’economia alla sicurezza, dall’immigrazione alla destinazione dei fondi europei, in cui Bossi e la Lega non ci mettano lo zampino, di regola a discapito del Sud.
È comprensibile che il Pd provi dunque a ripartire dal Mezzogiorno. E la convention che si apre oggi a Bari, con il sindaco Emiliano a far da padrone di casa e i segretari regionali in prima fila e a dar man forte Fioroni, Bindi, D’Alema (che tirerà le conclusioni), dovrebbe avere anzitutto questo significato: il governo non fa nulla per il Sud, ma il Sud non può più aspettare.
In realtà di significati ne vorrebbe avere più d’uno. Di mezzo c’è infatti anche il fenomeno Vendola, a cui il partito democratico non può più lasciare l’intero palcoscenico, qui al Sud: bisogna dunque dimostrare di avere un’idea di sviluppo, una proposta politica, e una capacità di visione più forte e convincente delle narrazioni vendoliane. Di mezzo c’è poi una sottile questione generazionale. La classe dirigente locale deve crescere e trovare il suo spazio, e non può lasciare che a fare la parte dei giovani innovatori siano, nel Pd, solo i Renzi e i Civati, il fiorentino e il meneghino. Anche il Pd meridionale deve, insomma, produrre nuova classe dirigente. E in effetti, al di sotto del Garigliano, non sono pochi i dirigenti con meno di quarant’anni , che di essere rottamati prima ancora di essersi messi alla prova, di legare il loro nome a stagioni politiche ormai superate non  dovrebbero avere nessuna voglia.
Ma c’è soprattutto la questione più ampia e generale, la necessità di porre la questione meridionale come questione nazionale. Qui c’è veramente, per il centrosinistra, lo spazio per una proposta politica forte e ben riconoscibile. Cosa infatti sta accadendo dalle parti del Pdl? Che in forza del gran condizionamento esercitato  dalla Lega, il ceto politico meridionale è entrata in fibrillazione: e da Micciché alla Carfagna – passando per lo stesso Caldoro – prova a organizzarsi in forme spiccatamente autonome, un piede dentro il Pdl e un piede se non proprio fuori almeno sulla soglia. Prende sempre più forma uno schema con il quale il centrodestra si propose già nel ’94, all’alba della seconda Repubblica: al Nord si lascia mano libera alla Lega, al Sud si dà la stura a autonomismi, localismi, leghismi meridionalistici, sigle che sul piano nazionale significano poco o nulla, ma che servono comunque a drenare consenso, cercando di non subire più lo smacco leghista.
In questo modo, però, c’è davvero, per il Pd e più in generale per l’opposizione, la possibilità di disegnarsi un ruolo e finanche una funzione storica, quella di tenere unito il Paese: non per ragioni meramente patriottiche (le quali, peraltro, non guastano), ma perché è solo in un quadro nazionale unitario che l’Italia può ritrovare il sentiero della crescita – e un ruolo nel consesso europeo.
Insomma, le premesse ci sono tutte. Il titolo dell’iniziativa, peraltro, è immaginifico e battagliero: «Mezzogiorno di fuoco», come il capolavoro di Zinnemann, con Gary Cooper nei panni dello sceriffo solitario. Al di là dell’effetto epico e roboante, il film però qualche dubbio lo fa venire. Il western raccontava infatti di uno sceriffo che, abbandonato dalla popolazione, deve affrontare da solo una banda di pistoleri. E solo dopo che la sparatoria finale si è consumata, i pavidi cittadini di Hadleyville escono fuori dalle loro case, mentre lo sceriffo, un Gary Cooper premiato dall’Oscar, lascia la città gettando via la stella. Una vittoria che sa di sconfitta.
Forse a Emiliano piaceva la parte dello sceriffo, forse no. Quel che è certo, è che il Pd dovrebbe provare a recitare un altro ruolo: quello di un partito che torna ad essere credibile tra la gente e ad averla dalla propria parte. Perché se i cittadini resteranno a guardare, non basterà nemmeno uno sceriffo per ogni città a ripulire le strade del Sud. E soprattutto per costruirne di nuove.

Il caso Tedesco e l'onore del Pd

La richiesta di arresto per Alberto Tedesco, ex assessore della sanità in Puglia, attualmente senatore, scuote il Pd. E quale partito non sarebbe scosso, dalla richiesta di arresto di un suo senatore? (A pensarci bene, qualche partito del genere c‘è, ma non è il caso di parlarne adesso). Per tutti i parlamentari chiamati a stabilire se la documentazione inviata dai magistrati giustifichi la richiesta, si tratta di capire anzitutto cosa c‘è scritto in quei documenti.

(continua su Left Wing, ma anche su Il Riformista)

Absoluter Gegenstoss

L'assoluto contraccolpo in se stesso. Perovateci voi a spiegare la riflessione ponente (Scienza della Logica, Dottrina dell'essenza, L'essenza come riflessione in lei stessa, La parvenza). Provateci voi a spiegare questo:

"Die reflektierende Bewegung ist somit nach dem Betrachteten als absoluter Gegenstoß in sich selbst zu nehmen. Denn die Voraussetzung der Rückkehr in sich – das, woraus das Wesen herkommt und erst als dieses Zurückkommen ist –, ist nur in der Rückkehr selbst".

Avanti, fatevi venire esempi convincenti. Io avrei pensato questo: le chiavi della macchina chiuse nello studio. Le chiavi dello studio chiuse nella macchina. Che nemmeno Agata Christie. (Ragazzi, la filosofia non sono solo chiacchiere, si è filosofi in parole ed opere)

Onesto, attuale, simpatico

Splendida recensione di Matthew Fox,  In principio era la gioialibro che inaugura la collana di Vito Mancuso presso Fazi e che a Fox valse l'espulsione dall'ordine domenicano. L'autore è Massimo Faggioli.
Riprendo la conclusione: "Dichiarare finito il ressourcement teologico, che è stata una delle chiavi di volta della ricostruzione  della teologia cattolica nel Novecento, dopo la stagione arida della filosofia neo-scolastica, equivale a dichiarare finita la teologia del Vaticano II: una dichiarazione che tutti i cattolicissimi nemici di Fox sarebbero felici di sottoscrivere". 
Riprendo anche il punto decisivo segnalato nell'articolo: Fox sembra ignorare il passaggio capitale, compiutosi nel corso del '900, dalla teologia come metafisica alla teologia come storia della rivelazione. In effetti, è il passaggio decisivo e non è un passaggio semplice. Né sono sicuro (ma non sono abbastanza competente, in materia), che il teologo Joseph Ratzinger l'abbia bello che eseguito.

(Ma poi vi segnalo pure la presentazione di Mancuso, su Repubblica, che giudica quello di Fox un tentativo "onesto, attuale e simpatico di tornare a far capire alla coscienza contemporanea quali grandi ricchezze sono in gioco nella spiritualità". Peccato che le tesi che interessano Mancuso (o che Mancuso ritiene che interessino al lettore, anzi alla coscienza contemporanea) non dicano molto sui problemi che il libro solleva da un punto di vista teologico. Si ha l'impressione che l'infrastruttura teologica a Mancuso interessi molto poco, tutto quello che gli interessa sta dalla parte dell'onestà, dell'attualità e della simpatia).

Una domanda idiota

"Ci sono tre attività intellettuali, e a quanto mi consta solamente tre, in cui degli esseri umani abbiano realizzato grandi imprese prima dell'età della pubertà.Sono musica, matematica e scacchi" (G. Steiner, Morte dei Re).

Io, per me, senza grandi imprese, mi sono attenuto agli scacchi. E c'è stato anche per me un momento, intorno all'età della pubertà, in cui è valso quanto Steiner aggiunge più avanti: "Perché cos'altro esiste al mondo oltre gli scacchi? Una domanda idiota, ma che tutti i veri giocatori di scacchi prima o poi si sono posti"

Perché il Paese va all'indietro di vent'anni

La sequenza di insulti in Parlamento e lancio di monetine in piazza, gesti ingiuriosi fra i banchi dell’aula e spintoni dinanzi a Montecitorio, non può lasciare indifferenti. Non si tratta solo richiamare tutti al senso dello Stato o al decoro delle istituzioni, al rispetto per gli avversari politici o ai doveri connessi alla funzione, benché, si trattasse anche solo di questo, non dispiacerebbe che ci venisse risparmiata qualche sceneggiata di troppo, che avvilisce anzitutto chi se ne rende protagonista. È vero peraltro che di parapiglia in Parlamento ce ne sono sempre stati, così tanti che s’è potuto scrivere un libro sui tumulti in aula e le sospensioni di seduta, libro in cui sfilano tutti o quasi i personaggi della prima Repubblica, e in cui non sfigurano nemmeno quelli della seconda. Non c’è stato, anzi, passaggio importante della nostra vita politica e parlamentare che non abbia conosciuto il risvolto del dileggio e della rissa: dall’adesione alla Nato al dibattito sulla legge truffa, da Tangentopoli alla caduta del secondo governo Prodi, in Parlamento è volato di tutti: improperi e ceffoni, faldoni e pezzi d’argenteria, penne e fette di mortadella.
Proprio per questo, però, non si può non chiedere se non ci si trovi anche in questo caso dinanzi a un passaggio del genere. In tutta onestà, si fa fatica a non rispondere che è così. E siccome la prima repubblica è tramontata sotto il lancio delle monetine a Craxi, dinanzi all’Hotel Rafael, viene naturale chiedersi se la parabola della seconda non si stia chiudendo qui, con le monetine al ministro Ignazio La Russa.
In realtà, qualche differenza c’è. E non solo per la diversa statura dei personaggi. Il fatto è che vent’anni fa il sistema politico italiano non era solo travolto dagli scandali e sotto attacco da parte della magistratura: era anche avviato al tramonto, essendo esaurita la funzione di fedeltà al legame atlantico che aveva svolto fino alla caduta del muro di Berlino, in chiave anticomunista. Dopo l’89, il quadro politico internazionale si era bruscamente messo in moto, e sotto le macerie del muro non potevano non finire partiti improvvisamente invecchiati, ai quali non c’era più ragione di perdonare nulla.
Oggi la politica della seconda Repubblica non discende in via diretta dalla collocazione internazionale del Paese. Non c’è alle spalle un evento di analoga portata che imponga irresistibilmente un mutamento di assetto politico. E tuttavia sembra vero anche oggi che si è appannata, fin quasi a svuotarsi, la funzione che le forze di governo si assegnano. Fior di commentatori  si affannano a cercare tracce di questo disegno di più ampio respiro nelle proposte di riforma avanzate nel corso di questi anni, senza però riuscirci per davvero: modernizzare il Paese, liberalizzare il Paese, svecchiare il Paese, sburocratizzare il Paese, al dunque (cioè sotto elezioni o sotto processo) Berlusconi torna sempre alla vecchia idea che c’è da battere i comunisti, il che rende addirittura caricaturale l’intera vicenda politica degli ultimi vent’anni: come se davvero si fosse ancora al punto di partenza.
E invece siamo a un punto d’arrivo. L’età di Berlusconi, la rottura con Fini e la perdita di smalto del Pdl, le continue fibrillazioni nella maggioranza, le incerte prospettive dell’economia, l’assenza di prospettive chiare: siamo a un punto d’arrivo. Che a segnalarlo siano le monetine di Montecitorio non è però un buon segnale. Non lo è o non lo dovrebbe essere per una maggioranza che tenesse al significato politico del proprio ruolo, e che dovrebbe per questo proporsi in un’interpretazione dei propri compiti consona e adeguata alle sue responsabilità. Ma non lo è neppure per l’opposizione, che farebbe bene a non certificare la propria impotenza con sterili trovate aventiniane, e meglio ancora farebbe a ricordarsi di com’è andata quella prima volta. Dopo i lanci, le istruttorie e i processi, le dirette dai tribunali e i cappi in parlamento, il ciclo della grande indignazione non gettò nel fango solo una classe politica, ma anche i partiti e le istituzioni. Non si poté perciò non ricominciare da un’altra parte. E da quell’altra parte, dalla parte dell’antipolitica, altri non c’era che un ruggente Silvio Berlusconi. L’impressione è che, per svolgere quel ruolo, fra blitz lampedusani e gite sul predellino, Berlusconi ci sia ancora.  Le monetine che gli spianarono la strada non saranno così quelle che gliela chiuderanno. tito democratico, berlusconi, seconda repubblica, parlamento