Archivi del mese: luglio 2011

L’impalcatura tecnologica del mondo

«Ceci tuera cela»: questo ucciderà quello, il libro ucciderà l’edificio, e le parole assassineranno le immagini. È la profezia che Victor Hugo metteva in bocca all’arcidiacono Frollo, in Notre-Dame de Paris, prestandogli due significati: «In primo luogo era un pensiero da prete», scriveva il romanziere, schierandosi dalla parte dell’umanità emancipata grazie alla parola scritta, era «il segno che una potenza nuova stava per succedere a un’altra potenza. Voleva dire: La stampa ucciderà la chiesa». Ma in secondo luogo voleva dire un’altra cosa, non meno inquietante, e su cui anzi Hugo si soffermava molto di più, essendo il suo valore di progresso assai meno ovvio: la stampa ucciderà l’architettura, «alle lettere di pietra di Orfeo succederanno le lettere di piombo di Gutenberg». Non è accaduta per ora né una cosa né l’altra. Quasi duecento anni dopo, la Chiesa è lì; il cupolone di San Pietro pure. Si prega e si costruisce ancora, anche se in forme diverse da un tempo: c’è persino una cyber-teologia e una virtual architecture. E però quella profezia è risuonata di nuovo, nel corso del ‘900, per opera di un grande pensatore irregolare, strana specie di cattolico ludens, Marshall McLuhan. Umberto Eco, che con il massmediologo canadese non è mai stato indulgente, ne riassumeva così il pensiero: adesso tocca al libro, e ad ucciderlo sarà la discoteca, una nuova civiltà del suono e dell’immagine. O anche: una tecnologia fredda, distaccata e razionale come l’alfabeto sarà uccisa da nuove tecnologie calde, più coinvolgenti e immediate. Pensatore brillante, McLuhan amava presentare le proprie tesi epocali mediante paragoni irriverenti: «come estensione dell’uomo, la poltrona è un’ablazione specialistica del posteriore, una specie di ablativo assoluto del sedere, mentre il divanetto, per così dire, estende l’essere nella sua totalità». Fredda l’una caldo l’altro, la poltrona e il divanetto starebbero cioè fra di loro nello stesso rapporto della stampa rispetto all’elettricità – o anche della calza di seta a rete rispetto al più esplicito collant in nylon. Facile dunque classificare come provocazioni anche parole divenute slogan: il mezzo è il messaggio, diceva per esempio McLuhan. E d’accordo. Ma non sarà la stessa cosa se in Tv passa Emilio Fede o Enzo Biagi! Eco obiettava dunque: tutta questa attenzione per il canale di trasmissione, per il mezzo di comunicazione è sproporzionata; è come dire che la forma dei nostri pensieri dipende dalla forma della nostra seduta (per non dir peggio). Quel che davvero conta, invece, è formare un destinatario critico, vigile, capace di decrittare i messaggi e di non lasciarsene dominare. Già: ma come lo formi, con quali mezzi? Il problema si ripresenta, anche se è probabile che un buon sistema resta pur sempre quello di alzarsi dalla poltrona e prendere qualche distanza dallo schermo. Il problema, infatti, è proprio la distanza. È certamente vero, come accusava Eco, che i mutamenti tecnologici non avvengono nella forma del «questo uccide quello». Tant’è che sul nostro pc passano tutt’oggi più parole che immagini. La stampa insomma resta (come restano le biciclette nonostante le automobili), anche se muta forma e destinazione. Preoccupati però di criticare l’arrogante radicalità della tesi – non si tratta di uccisione, né di sostituzione – finiamo col sorvolare sulle parole più importanti, i dimostrativi: «ceci» e «cela», «questo» e «quello». Dimentichiamo cioè che se la stampa diventa «questo», se il libro sta sullo scaffale e il giornale in edicola, allora la cattedrale diventa «quella», si allontana e deve lottare per non finire sullo sfondo del nostro paesaggio culturale. Il punto è cioè capire cosa si sta allontanando e cosa avvicinando. E in verità ad avvicinarsi è il mondo intero, divenuto ormai (altra formula famosissima) un «villaggio globale». A Umberto Eco pareva che, di nuovo, McLuhan avesse torto. Altro che villaggio globale, oggi trionferebbe la solitudine. Ma il problema non è se siamo più soli o meno soli di prima, bensì se i processi di globalizzazione non si presentino davvero nella forma di un ossimoro: globale dice infatti il vasto mondo, mentre villaggio dice la sua ri-tribalizzazione. Certo, McLuhan intendeva proprio suggerire che i nuovi «media elettrici» aboliscono lo spazio e il tempo in un abbraccio che intontisce e spaventa. Ma – è da chiedersi – non è ancora utile la sua riflessione, a cent’anni dalla nascita, per suggerire che i processi di globalizzazione non sono a senso unico, che alcune cose si avvicinano e altre si allontanano, alcune distanze si ampliano altre si raccorciano, e che dunque mentre nuove consapevolezze e nuove cittadinanze vengono educate anche grazie alla televisione e alla rete, nuove paure si formano e nuove comunità rischiano, per contraccolpo, di chiudersi? Forse sì, e domandarsi allora come viene su, attraverso quali infrastrutture tecnologiche, l’impalcatura del mondo, non sarà solo una gustosa provocazione intellettuale.

Odio per l’Europa e il multiculturale

Pianificare una guerra civile europea in tre fasi, di qui al 2083, non è da tutti. Farlo per oltre 1500 pagine, con una meticolosità assoluta, curando ogni possibile aspetto di una crociata di cui lui, Anders Behring Breivik, il giustiziere dell’isola di Utoya, si sentiva responsabile, dimostra una forma di delirio davvero estrema. Solo uno stato mentale paranoide può spiegare come sia possibile mettere tanta precisione, tanta accuratezza in tutti i particolari di un disegno vastissimo, che spazia dalla geopolitica all’alimentazione, dall’analisi ideologica al programma di allenamento, dalla storia della cristianità alla biografia personale, dallo studio dei fenomeni migratori alla preparazione dell’attentato terroristico, di cui forse non si era mai vista cronaca così accurata. I «Demoni» di Dostoevskij, al confronto, sono solo cinque poveri dilettanti con vaghe velleità in testa. Ma non hanno nulla, neppure l’ideologo Sigalev ha nulla della metodica e spietata diligenza di Breivik. E poi cinque sono troppi: se c’è una cosa che Breivik aveva chiara, è che una cellula ha da essere formata da uno o due Cavalieri al massimo. Abbia o no agito da solo, certo è che l’autore della carneficina da solo si è preparato: militarmente, psicologicamente, fisicamente.

Detto però della allucinante ma lucidissima follia di Breivik, resta da gettare un colpo di sonda in un ordine di idee che vanta una sua impressionante coerenza, e che purtroppo non è neppure del tutto fuori del dibattito pubblico europeo. Anders Behring Breivik si definisce un conservatore sul piano politico e culturale: non un razzista o un neonazista  (“se c’è un uomo del passato tedesco che odio è Hitler”). Il suo conservatorismo ha tratti accentuatamente nazionalistici e una verniciatura religiosa, ma quanto a quest’ultima, non è veramente in primo piano: la religione, sia nel senso della fede personale che della dottrina teologica, c’entra poco, e le stesse confessioni cristiane sono accusate di essere così corrose da elementi liberali, da dover essere anche loro riformate, in un futuro prossimo.

Il vero nemico, la vera ossessione di Breivik è il multiculturalismo, responsabile a suo dire del suicidio demografico e culturale dell’Europa. Il multiculturalismo è, ai suoi occhi, tutto meno che tolleranza verso l’altro, rispetto reciproco, osservanza di diritti fondamentali: tutti questi non sono che altrettanti cavalli di Troia grazie ai quali l’Islam può infiltrarsi in Occidente, e minare le basi tradizionali delle culture nazionali.

L’indottrinamento multiculturalista procede in molti modi: nascosto sotto la maschera della political correctness e in combinazione con socialismo e comunismo, anzitutto, ma anche sotto il travestimento liberale, o in combutta con il femminismo e l’ambientalismo, o infine a braccetto con il capitalismo globalista e internazionalista. Quando deve semplificare  i termini del confronto, Breivik dice infatti: la lotta non è più fra capitalismo e socialismo, ma fra nazionalismo e internazionalismo.

Non è una miscela nuova, ciò non toglie che può farsi nuovamente esplosiva. Anche perché i nemici ideologici della destra estrema ci sono tutti: la femminilizzazione della società, il permissivismo sessuale, la crisi dell’autorità paterna, e così via. Ma c’è una cosa che colpisce più di ogni altra. Ed è l’inflessibile determinazione con la quale è indicato il vero nemico politico. Certo è l’Islam, certo è il marxismo culturale e tutti gli imbelli pacifisti. Ma è soprattutto l’Unione Europea. L’Unione Europea è il più grande tradimento della vera Europa Cristiana in cui Breivik crede. Non a caso, il cuore del Memoriale sta nella solenne Dichiarazione Europea di Indipendenza. E la Dichiarazione non è che la richiesta pura e semplice di smantellare l’Unione, arrestare le ondate migratorie, respingere il multiculturalismo e soprattutto tornare a confini nazionali e tassazioni nazionali.

Ecco: si leggono queste parole, si respira l’odio politico profondo verso leader e classi dirigenti europee, e si torna a guardare con affetto la bandiera dell’Unione, le sue tante stelle. Che sono lì per far luce sulle passioni più feroci e violente che si agitano ancora nel fondo melmoso della nostra storia.

Non riemergeranno. Ma la complessa architettura giuridica europea, certo ancora debole e precaria, ancora priva della necessaria energia e intensità politica, riceve dalla distanza che riesce a mantenere da quelle forze oscure la sua più limpida legittimazione. E ci offre il dono prezioso dei principi e delle parole più belle: quelle del diritto, della legge, della pace, della ragione.

(Il Mattino, 25 luglio 2011)

Intellettuali, tante opinioni ma pochi pensieri

Castro - Olafsson

«Se Babbo Natale fosse un coniglio, quale sarebbe la sua canzone preferita?». Prima di provare a rispondere – non è facile – diciamo pure a chi è venuto in mente di porre una simile domanda. A Libia Castro e Ólafur Ólafsson, la coppia che alla Biennale di Venezia 2011 rappresenta l’Islanda. La curatrice, Bice Curiger, ha rivolto agli artisti presenti alla mostra cinque domande sul tema dell’anno («ILLUMInazioni»), giudicate da molti poco appropriate o poco intelligenti: forse hanno pensato che non toccasse rispondere se non tramite le opere, oppure che fosse inutile e insensato tentare una risposta. Sta di fatto che alla domanda: «se l’arte fosse uno stato, cosa direbbe la sua costituzione?», Castro e Ólafsson hanno replicato con una domanda ancora più insensata: quella sui gusti musicali di Coniglio-Babbo Natale.

Ma chi decide quali sono le giuste domande? E chi può permettersi di rispedire al mittente le domande, con una provocazione raddoppiata? Una coppia di artisti, certo, che per l’occasione sistema sulla parete d’ingresso di un edificio non intonacato, nell’ex-Lavanderia di Palazzo Zenobio, una sottile scritta al neon che recita: «il tuo paese non esiste». Già: ma oltre i muri sbrecciati del padiglione islandese?

Lì il paese esiste, ma stenta a mettere insieme le domande giuste, scrostando la gran quantità di conformismo che si forma ad ogni angolo di strada, e ad ogni passaggio televisivo. Siccome questo problema è strettamente imparentato con la polverosa questione dell’impegno intellettuale, e nessuno (giustamente!) ne vuole più sapere di vati e maîtres à penser e pifferi della rivoluzione, allora si è deciso di accantonarlo, ma in questo modo non si può certo dire che sia stato risolto il problema della presa di parola nello spazio pubblico: a chi tocca, secondo quali regole, con quale credibilità?

Tocca allo scienziato, ad esempio. Al tecnico, al competente, all’esperto. Tutti costoro parlano a partire da un sapere riconosciuto e accettato. Ma siccome esso è reputato tale proprio perché si ritiene che non investa questioni di senso, prospettive di valore, quelli che Kant chiamava «i più alti fini dell’esistenza umana», finisce che per questi ultimi non c’è nessun sapere disponibile, ma solo opinioni.

In Italia, in verità, a fare altrimenti ci prova la Chiesa. Capita così che, per una singolare par condicio, a fianco del camice bianco si inviti nei talk show una tonaca nera, a mo’ di supplemento etico. Col risultato però che, per il senso comune, fra una scienza troppo disincantata e una fede troppo tetragona non c’è nulla di mezzo, che possa vantare alcuna particolare autorevolezza. Di nuovo: solo opinioni (e brutte leggi, come sul cosiddetto testamento biologico).

Non è facile trovare il verso da cui affrontare il problema. Dal momento che viviamo (per fortuna!) in società democratiche, dove la libertà di pensiero è una libertà fondamentale, consideriamo vero e giusto che ogni pensiero possa essere pensato, ed ogni opinione espressa: allo stesso titolo, con uguale diritto. Il guaio è che non è in questo modo che si struttura effettivamente il campo delle opinioni. Perché, per l’appunto, si tratta di un campo, come insegnava Pierre Bourdieu, cioè di un insieme di relazioni non esente da condizionamenti di ogni tipo: i rapporti di senso sono sempre inframmezzati da rapporti di forza. Non c’è per questo da essere pessimisti, immaginandosi soggetti all’invincibile dominio del capitale, ma non c’è neppure da essere ingenuamente ottimisti, figurandosi i pensieri alla stregua di farfalle libere di volare di fiore in fiore.

Non c’è da essere pessimisti: a pagare forse sì, ma a parlare no, non è vero che sono sempre gli stessi, o che si dicono sempre le stesse cose. Ma non c’è neppure da essere ottimisti: non è vero che tutti parlano – anche perché, se così fosse, difficilmente qualcuno ascolterebbe qualcosa.

Ma, ciò detto, dove può trovarsi l’energia che mette le opinioni in condizioni di essere un po’ più che opinioni, di farsi forza per non diventare preda di altre forze? Orbene, la politica è, in generale, l’unico legittimo trasformatore del consenso in forza, e insieme l’unico argine a che non sia piuttosto e soltanto la forza a formare il consenso. Aver cura di questo argine, dargli visibilità nello spazio pubblico, è dunque aver cura di sé e dei propri pensieri.

Quando ciò non accade, alla cultura non resta che la provocazione, il gesto scanzonato e decostruttore. Under deconstruction è il nome dell’esposizione allestita dal duo Castro-Ólafsson. Che va bene: come Alice che insegue il Bianconiglio, inventano nuovi mondi e disfano quelli vecchi, però come si fa a prenderli alla lettera? L’arte, la cultura, una costituzione ce l’ha per davvero: non è mica fatta solo di imprese dissacranti. Così: va’ a sapere quale sarebbe la canzone preferita di Coniglio-Babbo Natale. Ma tutti noi un ritornello, una canzone preferita ce l’abbiamo, e dobbiamo fare attenzione a come entra e a come esce dalla testa.

(L’Unità 17 giugno 2011)

 

L’uomo, l’animale, la crisi politica

“Lei non deve illudersi che noi non capiamo le sue intenzioni. E lei non deve far finta di credere che le cose che dice noi facciamo finta di credere di non capirle” (Francesco D’Onofrio, UDC, dichiarazione di voto nel dibattito di ieri al Senato, ore 19.31).

Cos’è che diceva, Jacques Derrida (E se l’animale rispondesse(finte e tracce) Aut-Aut 2002, n. 310-311) L’uomo non si distingue dall’animale perché capace di finta. Anche l’animale sa fingere (per esempio, mimetizzandosi). Ma solo l’uomo sa far finta di far finta.

E solo D’Onofrio può spiegare la crisi politica facendo finta che Prodi faccia finta che l’UDC faccia finta.

(L’avevo già pubblicato qua, ma siccome dai giornali uno si fa l’idea che nel centrodestra, fra Tremonti, Bossi e Berlusconi è tutto un gioco di finte e controfinte, ho pensato di rispolverarlo)

Tra scelta di Stato e nuovi casi Englaro

Caro direttore, con l’approvazione della Camera dei Deputati, la legge sulle direttive anticipate (legge sul testamento biologico) compie un passo decisivo in vista dell’approvazione finale. Ti chiedo ospitalità nel dibattito in cui provo a sostenere le ragioni di un laico. Nella legislazione italiana, è invalso da tempo il principio del consenso informato, al quale il testo stesso della legge si richiama (con qualche ipocrisia) fin nel nome. Il principio vuole in generale assicurarmi adeguata informazione, per consentirmi di decidere liberamente se prestare o meno il mio assenso ai trattamenti sanitari che mi vengono proposti. Nelle condizioni terminali, in cui non fossi più in condizione di manifestare la mia volontà, è ovviamente necessario, per esprimerla, formularla in direttive anticipate (raccolte in una dichiarazione, debitamente predisposta). Il fatto che siano anticipate è, dunque, inevitabile: far leva su ciò per sottrarmi le decisioni circa le cure da prestarmi è, dunque, del tutto pretestuoso.

Ora, si può discutere sulle forme più o meno rigide di questa dichiarazione, si può richiedere ogni genere di garanzia in merito, ma nulla dovrebbe essere fatto per aggirare il principio secondo il quale tocca a me decidere se sottopormi o meno a trattamento sanitario. Aggirarlo significa avallare un altro principio, assai poco liberale, secondo il quale c’è qualcun altro che più di me può sapere cosa deve essere fatto a me. Prego chiunque di considerare quanto sia pericolosa un’idea simile, rispetto alla tutela della mia libertà. Il ddl Calabrò incastona invece le direttive anticipate tra paletti che di fatto svuotano quasi del tutto il consenso. In primo luogo, la legge afferma con forza il principio dell’indisponibilità della vita. In secondo luogo, derubrica alimentazione e idratazione artificiale a forme di sostegno vitale, come se non fossero trattamenti sanitari. Ora, quanto a quest’ultimo punto, sarebbe sensato ritenere trattamento sanitario una qualunque pratica la quale richieda l’intervento di personale medico e paramedico; sarebbe sensato distinguere tra sondini di alimentazione e biberon; sarebbe sensato evitare di ricorrere a parole come natura”, o “naturale”, visto il contrasto semantico stridente fra sostegno “vitale” da una parte e alimentazione “artificiale” dall’altra; sarebbe sensato, insomma, stare ai fatti ed evitare di cambiare il significato delle parole per aggirare principi scritti in Costituzione. Ma se anche tutto ciò non bastasse a definire sanitario il trattamento di nutrizione e idratazione, sarebbe da spiegare comunque perché un simile trattamento non sanitario ma vitale dovrebbe poter esserci imposto contro la nostra espressa volontà. E qui interviene l’altro principio, quello dell’indisponibilità della vita. La ragione ultima starebbe nel fatto che la vita, la mia vita, è un bene indisponibile perfino a me stesso. Sicché, come non posso suicidarmi, così non posso – o la legge non può consentire che io possa – decidere di non nutrirmi (ma forse, per coerenza, neppure mangiare Nutella essendo diabetico). Di solito, i laici che contestano l’argomento protestano per il fatto che con esso si introduce nella legislazione di uno Stato la credenza, religiosamente ispirata, secondo la quale la mia vita, come ogni vita, appartiene a Dio. Ma non è affatto l’origine religiosa della credenza il problema. Il problema è piuttosto che, in ossequio al principio dell’indisponibilità della vita, si sottrae a me la possibilità di decidere cosa fare in certe situazioni, per metterla nella disponibilità non di Dio ma di altri. Non sarà di Sacconi o di Cicchitto, come dice polemicamente Bersani, ma in ogni caso di qualcun altro non scelto da me. Ora, chi scrive non è così liberale da escludere che si diano situazioni in cui la libertà personale può essere limitata – e non semplicemente dalla libertà altrui, come recita la formula la più liberale di tutte. Possono forse esserci altri, gravi interessi: la sopravvivenza dello Stato, ad esempio, o principi altrettanto fondamentali di uguaglianza sociale. Ma come si fa a ritenere che la società o lo Stato o non so cos’altro sarebbero in pericolo se decidessi di voler morire nel mio letto, se io volessi dire basta a tubi e sondini e respiratori? Come si fa a non vedere il volto non solo illiberale ma poco umano (stavo per scrivere: disumano) di uno Stato che ti lega alla tua condizione di malato oltre i tuoi limiti di sopportabilità? Io capisco la prudenza. Sarei pronto a chiedere ogni genere di verifica della volontà espressa e ogni supplemento di informazione circa quel che si può o non si può fare, mi si vuole o non mi si vuole fare, ma chiedo allo Stato non di impormi questo o quello, bensì di provare a convincermi: coi suoi medici e i suoi ufficiali. Nel tempo che vuole. Lo capisco, lo accetto. Dopodiché, però, se non mi avrà convinto, io chiedo che mi lasci andare: sono sicuro che così ci saluteremo con molta più serenità. (Il Mattino)

Liberali d’Italia

[Metto qui la versione lunga dell’articolo uscito oggi sulle pagine culturali de il Mattino, con il titolo “se il liberalismo è made in Italy. Dialogo Ocone-Antiseri]

Benedetto Croce e Luigi Einaudi: come può una tradizione politica e culturale che ha padri di così alto rango (in concordia discors fra di loro) non continuare ad alimentare sempre nuove riflessioni? E soprattutto, siccome pare sempre che l’Italia soffra di un deficit di cultura liberale, non sarà salutare riparlarne? Il profilo agile e vivace del liberalismo italiano, steso a due mani da Corrado Ocone e Dario Antiseri (Liberali d’Italia, Rubbettino, pp. 71, € 7) ci prova, e non disdegna di aprire la discussione nelle sue stesse pagine.

Comincia Ocone. Che sceglie di affidare alla storia piuttosto che a un robusto corpo dottrinale il compito di disegnare il volto del liberalismo italiano. Avviene così che in questa storia non si incontrino solo Croce o Einaudi, Giovanni Amendola o Mario Pannunzio, De Ruggiero o Matteucci, ma pure Rosselli o Gobetti, che Ocone considera “liberale a tutti gli effetti”. Compare anche Sturzo, naturalmente, ma quando è il turno di Antiseri si capisce che le poche righe a lui dedicate non sono per lui sufficienti: il contributo del cattolicesimo liberale italiano fu assai più ampio di quanto un “triste pregiudizio” laicista impedisce a Ocone di vedere. Ma la discussione si accende ancor più sulla questione se esista o meno un criterio per distinguere i liberali veri dai liberali falsi. E si capisce perché. Alcuni frutti della cultura liberale sono oggi larghissimamente condivisi: se essere liberali è garantire la libertà individuale, il pluralismo sociale e la democrazia, chi non si dichiarerà oggi liberale? Ma a che serve una parola se è usata da tutti, se non consente di marcare differenze? Nel profilo sintetico del pensiero liberale tracciato da Antiseri almeno una linea di demarcazione c’è, eccome se c’è. Eccola: “il mercato – al pari della scienza – è sempre innocente”. In tempi di ripetuti fallimenti del mercato, dai quali le economie occidentali provano faticosamente a tirarsi fuori , non si può dire che non sia un’affermazione priva di coraggio. Il fatto è però che, coraggiosa o no che sia, suona anche un po’ dogmatica: e come non pensare per questo che sia anche poco liberale (e pure responsabile di qualche cecità di troppo, nei trascorsi decenni di egemonia neoliberista)? Ci si infila così in un bel problema: da una parte occorre un criterio, e possibilmente anche stringente; dall’altra parte se ne fa una bandiera ideologica, nonostante il rifiuto dichiarato di ogni ideologia.

Siamo, comunque, di nuovo dalle parti di Croce ed Einaudi: col primo che riteneva il liberalismo economico compatibile in linea di principio con sistemi diversi dalla pura economia di mercato, e il secondo che invece considerava indissociabili liberalismo politico e liberismo economico. Non so però quanto sia produttivo riprodurre una discussione  in questi stessi termini. C’è invece un altro lato del contrasto fra i due autori, non dichiarato ma non meno evidente, che è forse più significativo. Antiseri si mette infatti sulla scia della scuola austriaca, della lezione liberista dei Mises e degli Hayek; Ocone si sforza invece di disegnare un liberalismo italiano dotato di fisionomia propria. Per questa via, si risolve ad introdurre elementi spurii, e presta il fianco alle critiche. Ma se nel suo profilo del liberalismo finisce così un po’ meno ortodossia liberale, è anche vero che si ritrova un bel po’ di Italia in più. E non è mica detto che i torti siano sempre nostri.

Il sistema dei bisogni

Io ho sempre nutrito grandissima simpatia per Ivan Illich. A me piace la capacità di pensare controcorrente, a patto che sia ben chiaro che non è al pensatore controcorrente che si può chiedere di guidare la corrente. Però ci vuole. Però serve. Però ti aiuta a vedere cose che altrimenti non vedresti.  Però siccome noi siamo naturalmente moderni e favorevoli al progresso, qualcuno che ci metta sull’avviso, qualcuno che per esempio veda minacce e pericoli prima del tempo ci fa un gran bene.

Illich era uno di questi. Illich era per esempio preoccupato della gestione standardizzata dei bisogni umani. Dove sia il confine fra “gestione standardizzata”, e “gestione controllata (da altri)” dei miei bisogni non è facile a dirsi: si può pensare infatti che la prima sia solo un mezzo della seconda, e che i miei bisogni li si può controllare persino meglio se si riesce a offrirne una gestione personalizzata: dal marketing alla Rete, sembra che ci si muova in questa direzione.

Ad ogni modo, Illich vedeva profilarsi un profilo di conformismo e uniformismo che giustamente lo preoccupava. Faceva qualche esempio:

“L’interruttore accanto alla porta ha preso il posto dei tanti modi in cui si presentavano in precedenza fuochi, candele e lanterne. In dieci anni gli utenti schiacciabottoni sono triplicati. Sciacquone e carta igienica sono diventati condizioni fondamentali per liberarsi dai vasi da notte”.

Ecco. Di fronte all’esempio io mi sono fermato. Io non sono un patito dei vasi da notte: non mi preoccupa eccessivamente la loro scomparsa. E non mi è chiaro perché invece Illich se ne preoccupasse. D’altra parte, i vasi di una volta cos’erano? Uscivano dalle mani di raffinati designer? Non credo. Oppure: a causa di sciacquone e carta igienica siamo oggi più schiavi dei nostri bisogni (ehm)? Non mi pare. Abbiamo perduto la capacità di far la pipì ai bordi dell’autostrada, se proprio ci scappa e l’autogrill è troppo lontano? Posso portare numerosi controesempi.

Qualcosa, dunque, non torna. D’altra parte, oggi è in commercio anche la carta igienica colorata, quella doppio velo, quella triplo velo (!), quella morbida e quella ruvida (ognuno ha i suoi gusti). C’è persino quella profumata. In che senso “la standardizzazione dell’atto umano” si diffonda nel passaggio dal vaso da notte allo sciacquone, dunque, mi sfugge.

E criticare questo modello perché “riflette la credenza che attività utili nelle quali ci si possa esprimere e soddisfare i propri bisogni, possano essere sostituite indefinitamente da beni e servizi standardizzati” mi sembra, sia consentito dirlo, una vera stupidaggine. Togliete sciacquone e carta igienica, ma togliete pure il vaso da notte: siete sicuri che vi sentireste finalmente liberi di sbizzarrirvi?

Da dove trae Illich la convinzione che i bisogni elementari, lasciati a se stessi, sottratti cioè alla loro gestione industriale, si svilupperebbero in un florilegio di possibilità che tecnica e industria moderne comprimono invece, e standardizzano?

E sono pronto a scommetterci: il ghiribizzo di farla dove più ci pare è nata insieme con tazze, sciaquoni e altre trovate moderne, per amore di trasgressione, non prima.

Non restare chiuso qui, pensiero

“Non si pensa ciò che si vuole” (Alain); “Non in ogni epoca è possibile pensare ogni pensiero” (M. Foucault). Pensateci (se ci riuscite…): quanta parte della vita sociale e culturale contemporanea tiene conto di queste elementari verità? D’altra parte, se non se ne tiene conto, non è proprio perché non si può pensare ciò che si vuole?

Il primum

Hegel diceva: è come nei film. E’ come quando lo stai per ammazzare, però non basta,  occorre che il soccombente, prima di morire, ti dia la soddisfazione di riconoscere la sconfitta, veda nei tuoi occhi che ha perduta la vita. Allora, puoi anche lasciarlo andare. Questa è l’antropogenesi. Però è un film, appunto. Perché nel film a condurre questa lotta per la vita e la morte sono due uomini: due, cioè, che sono già uomini.

Tra i non molti che pensano che le cose non vadano come nei film, che è lì all’opera una prima idealizzazione/edulcorazione della verità dell’umano c’era Emilio Villa. Per lui è tutta un’altra roba: “Uccidere è l’esperienza assoluta del primo vivente; è il primum”. Per lui, “oggetto e soggetto dell’atto di uccidere, o sacrificale, è la bestia: la bestia viene assunta, sotto l’impulso immaginario [di questo impulso immaginario non c’è alcun bisogno, ma queste sono sottigliezze filosofiche] in una sfera metamorfica, per una mozione di apoteosi, in quanto essa è il Nutrimento Assoluto, fuggente e disseminato, raggiungibile, è l’energia unificante, tonificante. Per definirla ideologicamente [ideologicamente?], diciamo che è bestia-dio”.

Chi ha ragione? Siccome a valle del coltello sacrificale c’è lo stilo, la penna, un’idea ve la potete fare pure voi: scrivete per nutrire la vita o per difendervi dalla morte? (o tutte e due?)

Traslochi

Mio padre diceva: "prima di fare un trasloco, devi spezzare sette catene!". Oppure: "un trasloco non lo si augura nemmeno al tuo peggior nemico" – lui che se non ricordo male ne fece sei in un anno, con la sua famiglia. 
Ma un trasloco virtuale, da una piattaforma all'altra, è un'altra cosa. Tanto più che io lascio ancora tutto qua e non porto niente di là. Salvo il fatto che, per farmi venire voglia di scrivere ancora sul blog, ho deciso di riprovarci da un'altra parte.
L'altra parte si trova a questo indirizzo: https://azioneparallela.wordpress.com/.  

Intercettare, ma capire anche

Le intercettazioni sono un bel problema. Oggi Michela Murgia, scrittrice, vincitore del Premio Campiello, scrive l’editoriale di apertura su Il Fatto quotidiano, e prende in prestito l’esordio da una frase (intercettata) di Luigi Bisignani che – dice la scrittrice – “ha in sé una sua perfezione senza tempo”. Ecco la frase perfetta: “Fai l’accordo mangiando tutto quello che devi mangiare“. Si tratta del consiglio che Scaroni, l’amministratore delegato dell’ENI, dovrebbe dare a Silvio Berlusconi.  Orbene, Michela Murgia intende la frase come se dicesse: arraffa tutto quello che puoi arraffare, divora tutto quello che puoi divorare, prendi, sfrutta, saccheggia, rapina. Il titolo del fondo è d’altra parte “Italia divorata”: più chiaro di così. E naturalmente una frase del genere si presta bene, per l’orecchio letterariamente allenato dell’autrice, a trasformarsi in una “didascalia permanente di quel che sta succedendo in Italia da anni”.
Come no. Non discuto il giudizio sull’Italia berlusconiana, e non mi interessa difendere le politiche o i maneggi del centrodestra. Figuriamoci.  Ma io, che avevo già letto qualche giorno fa la frase senza tempo, l’avevo intesa in tutt’altra maniera. Avevo inteso cioè che non si parlasse di locuste fameliche o di topi nel formaggio, ma di condizioni per un accordo politico con Fini. Mi pareva cioè che Bisignani dicesse a Scaroni (siamo prima della definitiva rottura col Presidente della Camera): suggerisci al Cavaliere di “mandar giù tutto quello che c’è da mandar giù”, di mangiare pure la merda (mi si perdoni il francesismo) pur di fare l’accordo. E cioè: digli di sopportare, di portare pazienza, di fare buon viso a cattivo gioco, perché è più importante rimettere in carreggiata governo e maggioranza, che non liquidare l’alleato. O altrimenti – suggerisce in subordine Bisignani –  rompa pure tutti i ponti, ma usciamo dalla paralisi.
Naturalmente, può ben darsi che io mi sbagli, sebbene il contesto in cui cade la frase immortale pare proprio che suggerisca questa mia  lettura – senza dire che è decisamente poco plausibile, pur in un clima da basso impero, immaginare che il faccendiere esorti l’amministratore a spronare il presidente del consiglio perché prenda tutto quello che può, finché è in tempo. Ci vuole un bel po’ di immaginazione letteraria per figurarsi una conversazione del genere. Ma – ripeto – può darsi che mi sbagli.
Il solo fatto, però, che la frase perfetta si presti a interpretazioni così diverse, e come minimo parimenti fondate, qualche riflessione dovrebbe pur suggerirla: e siccome – ci scommetto – quelli de il Fatto giudicherebbero pretestuosa qualunque considerazione che, a partire da questo piccolo incidente, cominciasse a mettere in dubbio opportunità, utilità e sacertà della pubblicazione delle intercettazioni sui giornali, chiedo piuttosto a Michela Murgia, confidando nel suo amore per la lingua, se non le andrebbe di scrivere un altro editoriale sul senso delle parole, sul loro buon uso, e soprattutto sulla precipitazione a causa della quale, per amore di tesi, si finisce col non ascoltare quanto le parole stesse dicono, preferendo piuttosto piegarle a quello che gli si vuole far dire.
P.S. Visto che siamo in ambito letterario, la morta cora di cui si parla nella trascrizione è la morta gora di dantesca memoria (Inferno, canto VIII).

Il Sud migliori non solo perché lo chiede la Ue

Il rapporto dell’Italia con l’Europa è sempre stato complesso. Popolo di convinti europeisti, siamo anche il popolo che ha bisogno di tre cifre per esprimere il numero delle infrazioni alle direttive comunitarie. Apparteniamo all’esclusivo club dei fondatori della comunità europea, ma siamo anche quello, fra i membri del club, che con maggiore difficoltà è riuscito a centrare l’ingresso nella zona Euro. Mettiamo il broncio ogni volta che in Europa si disegnano a nostro discapito assi privilegiati, ma poi ci dimentichiamo di fare quello che serve per stare dentro i terzetti o i quartetti  dei paesi che contano. Come un elastico, la corda dei rapporti fra l’Italia e l’Europa si allenta e si tende, insomma, a secondo dei tempi e delle circostanze. E quando tempi e circostanze non volgono al bello, è facile che la corda sia sempre più tesa.

Non, però fino, a spezzarsi . Il governo ha infatti messo in campo una manovra correttiva che dovrebbe assicurare il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2014, così come ci chiede l’Unione Europea (e i mercati). Naturalmente, si può e si deve discutere dell’efficacia e della tempistica delle misure prospettate: è materia di dibattito parlamentare per maggioranza e opposizione , Ma, sul piano politico, la questione è anche se l’Unione debba sempre finire con l’apparire, presso l’opinione pubblica, come il Cerbero di dantesca memoria, che “caninamente latra” contro i membri recalcitranti. Il Ministro del Tesoro sarebbe allora come Virgilio, che allo scoccare dell’ora fatidica della manovra lancia nelle fauci della bestia un pugno di terra, per placarne temporaneamente l’appetito: le misure correttive, per l’appunto.

Ovviamente non è così. Certo, l’Europa è un animale strano, ed è inevitabile che la precarietà della costruzione politica si avverta particolarmente nei momenti di difficoltà. Si pensi ad Atene. Giuliano Amato ha ragione di osservare che i conti della Grecia non sono peggiori di quelli della California: solo che dietro la California c’è Washington, un forte Stato federale, mentre dietro la Grecia manca un’adeguata cornice politico-istituzionale. Ma proprio perché c’è un Europa politica da realizzare e un popolo europeo da inventare, proprio perché c’è, nella costruzione dell’architettura europea, uno stallo da superare, non è un comportamento responsabile delle classi dirigenti di tutto il continente  (compresa, dunque, quella italiana) lasciare che essa appaia solo come la “fiera crudele e diversa” che “iscoia ed isquatra” a furia di esigere tagli alle spese.

L’Europa chiede infatti rigore nei conti pubblici: non bisogna evitare allora che questa richiesta suoni solo come una pretesa  sempre più severa e insostenibile? Non cresceranno, altrimenti, le file di quelli che si chiedono a quale titolo si pretendono sacrifici, e perché li si dovrebbe compiere? O che si domandano com’è che l’Europa si fa viva solo per chiedere, e non anche per dare? O: chi sono, questi signori di Bruxelles, e cosa vogliono da noi?

Ma non è affatto vero che l’Europa chieda solo, e non dia anche. A volte (molte volte, e non volte qualunque) capita al contrario che l’Europa voglia dare, sia prontissima a dare, e non ci sia nessuno dall’altra parte in grado di ricevere. Solo due esempi. Uno è quello dei fondi europei: il governo ci ha messo del suo, dirottando fondi cospicui verso altre destinazioni e penalizzando il Mezzogiorno, ma resta il fatto che la capacità delle regioni meridionali di presentare progetti e spendere i soldi europei è ancora bassa, troppa bassa. L’altro ci tocca ancor più da vicino: ci sono infatti fior di milioni, circa 150, bloccati a Bruxelles per la questione rifiuti, soldi che una città allergica alle regole, alle procedure, ai principi della buona amministrazione non è ancora riuscita a sbloccare. E come si può giudicare lontana Bruxelles, se da Bruxelles ci si tiene così lontani?

Diciamola tutta, allora. L’Italia non ha che da rimboccarsi le maniche: lo chieda Bruxelles oppure no. Deve rilanciare lo sviluppo, ma non può aumentare le tasse: deve allora riqualificare la spesa. Non c’è altro modo. Suonerà forse banale, ma rispettare le regole è il primo passo per riqualificare la spesa e se l’Europa ce lo chiede noi dobbiamo solo affrettarci a compierlo. Compierlo anzi un minuto prima che ce lo chieda. Non è dunque Cerbero il problema. E poi: guardiamoci attorno, in questi giorni di inizio estate: non è forse vero che l’inferno ce lo siamo costruiti noi? (Il Mattino)