[Metto qui la versione lunga dell’articolo uscito oggi sulle pagine culturali de il Mattino, con il titolo “se il liberalismo è made in Italy. Dialogo Ocone-Antiseri]
Benedetto Croce e Luigi Einaudi: come può una tradizione politica e culturale che ha padri di così alto rango (in concordia discors fra di loro) non continuare ad alimentare sempre nuove riflessioni? E soprattutto, siccome pare sempre che l’Italia soffra di un deficit di cultura liberale, non sarà salutare riparlarne? Il profilo agile e vivace del liberalismo italiano, steso a due mani da Corrado Ocone e Dario Antiseri (Liberali d’Italia, Rubbettino, pp. 71, € 7) ci prova, e non disdegna di aprire la discussione nelle sue stesse pagine.
Comincia Ocone. Che sceglie di affidare alla storia piuttosto che a un robusto corpo dottrinale il compito di disegnare il volto del liberalismo italiano. Avviene così che in questa storia non si incontrino solo Croce o Einaudi, Giovanni Amendola o Mario Pannunzio, De Ruggiero o Matteucci, ma pure Rosselli o Gobetti, che Ocone considera “liberale a tutti gli effetti”. Compare anche Sturzo, naturalmente, ma quando è il turno di Antiseri si capisce che le poche righe a lui dedicate non sono per lui sufficienti: il contributo del cattolicesimo liberale italiano fu assai più ampio di quanto un “triste pregiudizio” laicista impedisce a Ocone di vedere. Ma la discussione si accende ancor più sulla questione se esista o meno un criterio per distinguere i liberali veri dai liberali falsi. E si capisce perché. Alcuni frutti della cultura liberale sono oggi larghissimamente condivisi: se essere liberali è garantire la libertà individuale, il pluralismo sociale e la democrazia, chi non si dichiarerà oggi liberale? Ma a che serve una parola se è usata da tutti, se non consente di marcare differenze? Nel profilo sintetico del pensiero liberale tracciato da Antiseri almeno una linea di demarcazione c’è, eccome se c’è. Eccola: “il mercato – al pari della scienza – è sempre innocente”. In tempi di ripetuti fallimenti del mercato, dai quali le economie occidentali provano faticosamente a tirarsi fuori , non si può dire che non sia un’affermazione priva di coraggio. Il fatto è però che, coraggiosa o no che sia, suona anche un po’ dogmatica: e come non pensare per questo che sia anche poco liberale (e pure responsabile di qualche cecità di troppo, nei trascorsi decenni di egemonia neoliberista)? Ci si infila così in un bel problema: da una parte occorre un criterio, e possibilmente anche stringente; dall’altra parte se ne fa una bandiera ideologica, nonostante il rifiuto dichiarato di ogni ideologia.
Siamo, comunque, di nuovo dalle parti di Croce ed Einaudi: col primo che riteneva il liberalismo economico compatibile in linea di principio con sistemi diversi dalla pura economia di mercato, e il secondo che invece considerava indissociabili liberalismo politico e liberismo economico. Non so però quanto sia produttivo riprodurre una discussione in questi stessi termini. C’è invece un altro lato del contrasto fra i due autori, non dichiarato ma non meno evidente, che è forse più significativo. Antiseri si mette infatti sulla scia della scuola austriaca, della lezione liberista dei Mises e degli Hayek; Ocone si sforza invece di disegnare un liberalismo italiano dotato di fisionomia propria. Per questa via, si risolve ad introdurre elementi spurii, e presta il fianco alle critiche. Ma se nel suo profilo del liberalismo finisce così un po’ meno ortodossia liberale, è anche vero che si ritrova un bel po’ di Italia in più. E non è mica detto che i torti siano sempre nostri.