«Se Babbo Natale fosse un coniglio, quale sarebbe la sua canzone preferita?». Prima di provare a rispondere – non è facile – diciamo pure a chi è venuto in mente di porre una simile domanda. A Libia Castro e Ólafur Ólafsson, la coppia che alla Biennale di Venezia 2011 rappresenta l’Islanda. La curatrice, Bice Curiger, ha rivolto agli artisti presenti alla mostra cinque domande sul tema dell’anno («ILLUMInazioni»), giudicate da molti poco appropriate o poco intelligenti: forse hanno pensato che non toccasse rispondere se non tramite le opere, oppure che fosse inutile e insensato tentare una risposta. Sta di fatto che alla domanda: «se l’arte fosse uno stato, cosa direbbe la sua costituzione?», Castro e Ólafsson hanno replicato con una domanda ancora più insensata: quella sui gusti musicali di Coniglio-Babbo Natale.
Ma chi decide quali sono le giuste domande? E chi può permettersi di rispedire al mittente le domande, con una provocazione raddoppiata? Una coppia di artisti, certo, che per l’occasione sistema sulla parete d’ingresso di un edificio non intonacato, nell’ex-Lavanderia di Palazzo Zenobio, una sottile scritta al neon che recita: «il tuo paese non esiste». Già: ma oltre i muri sbrecciati del padiglione islandese?
Lì il paese esiste, ma stenta a mettere insieme le domande giuste, scrostando la gran quantità di conformismo che si forma ad ogni angolo di strada, e ad ogni passaggio televisivo. Siccome questo problema è strettamente imparentato con la polverosa questione dell’impegno intellettuale, e nessuno (giustamente!) ne vuole più sapere di vati e maîtres à penser e pifferi della rivoluzione, allora si è deciso di accantonarlo, ma in questo modo non si può certo dire che sia stato risolto il problema della presa di parola nello spazio pubblico: a chi tocca, secondo quali regole, con quale credibilità?
Tocca allo scienziato, ad esempio. Al tecnico, al competente, all’esperto. Tutti costoro parlano a partire da un sapere riconosciuto e accettato. Ma siccome esso è reputato tale proprio perché si ritiene che non investa questioni di senso, prospettive di valore, quelli che Kant chiamava «i più alti fini dell’esistenza umana», finisce che per questi ultimi non c’è nessun sapere disponibile, ma solo opinioni.
In Italia, in verità, a fare altrimenti ci prova la Chiesa. Capita così che, per una singolare par condicio, a fianco del camice bianco si inviti nei talk show una tonaca nera, a mo’ di supplemento etico. Col risultato però che, per il senso comune, fra una scienza troppo disincantata e una fede troppo tetragona non c’è nulla di mezzo, che possa vantare alcuna particolare autorevolezza. Di nuovo: solo opinioni (e brutte leggi, come sul cosiddetto testamento biologico).
Non è facile trovare il verso da cui affrontare il problema. Dal momento che viviamo (per fortuna!) in società democratiche, dove la libertà di pensiero è una libertà fondamentale, consideriamo vero e giusto che ogni pensiero possa essere pensato, ed ogni opinione espressa: allo stesso titolo, con uguale diritto. Il guaio è che non è in questo modo che si struttura effettivamente il campo delle opinioni. Perché, per l’appunto, si tratta di un campo, come insegnava Pierre Bourdieu, cioè di un insieme di relazioni non esente da condizionamenti di ogni tipo: i rapporti di senso sono sempre inframmezzati da rapporti di forza. Non c’è per questo da essere pessimisti, immaginandosi soggetti all’invincibile dominio del capitale, ma non c’è neppure da essere ingenuamente ottimisti, figurandosi i pensieri alla stregua di farfalle libere di volare di fiore in fiore.
Non c’è da essere pessimisti: a pagare forse sì, ma a parlare no, non è vero che sono sempre gli stessi, o che si dicono sempre le stesse cose. Ma non c’è neppure da essere ottimisti: non è vero che tutti parlano – anche perché, se così fosse, difficilmente qualcuno ascolterebbe qualcosa.
Ma, ciò detto, dove può trovarsi l’energia che mette le opinioni in condizioni di essere un po’ più che opinioni, di farsi forza per non diventare preda di altre forze? Orbene, la politica è, in generale, l’unico legittimo trasformatore del consenso in forza, e insieme l’unico argine a che non sia piuttosto e soltanto la forza a formare il consenso. Aver cura di questo argine, dargli visibilità nello spazio pubblico, è dunque aver cura di sé e dei propri pensieri.
Quando ciò non accade, alla cultura non resta che la provocazione, il gesto scanzonato e decostruttore. Under deconstruction è il nome dell’esposizione allestita dal duo Castro-Ólafsson. Che va bene: come Alice che insegue il Bianconiglio, inventano nuovi mondi e disfano quelli vecchi, però come si fa a prenderli alla lettera? L’arte, la cultura, una costituzione ce l’ha per davvero: non è mica fatta solo di imprese dissacranti. Così: va’ a sapere quale sarebbe la canzone preferita di Coniglio-Babbo Natale. Ma tutti noi un ritornello, una canzone preferita ce l’abbiamo, e dobbiamo fare attenzione a come entra e a come esce dalla testa.