Archivi del mese: novembre 2011

Dimenticato dagli psichiatri, amato dai filosofi

Chi si ricorda di Franco Basaglia? Nel novembre di cinquant’anni fa, l’anno di Asylums di Goffman e della Storia della follia di Foucault, il giovane psichiatra veneziano assumeva la direzione del manicomio di Gorizia. Avviando una rivoluzione: dalla riorganizzazione del personale sanitario all’abolizione delle divise per i degenti, dai permessi di uscita alla eliminazione di ogni mezzo di contenzione,  Basaglia interverrà su tutti gli aspetti della vita dell’ospedale, trasformandola radicalmente. E accompagnerà questa attività con una formidabile azione comunicativa e un impegno politico inesauribile, il cui ultimo frutto sarà la legge 180 sui trattamenti sanitari obbligatori.

Due anni dopo Basaglia muore, e poco alla volta i riflettori accesi da Basaglia sulla follia si spengono. La legge 180 rimane in vigore, ma le domande sollevate da Basaglia si attutiscono e le battaglie da lui condotte si smorzano fin quasi a scomparire. Chi oggi si chiede ancora se la follia sia (soltanto) una malattia mentale? In realtà, la questione arde ancora nel braciere a fuoco lento della filosofia, ma sapere medico e organizzazione sanitaria l’hanno ormai, di fatto, accantonata. E così a ricordarsi di Basaglia finiscono con l’essere quasi soltanto i filosofi o gli psicanalisti (che medici non sono), i quali hanno dedicato un libro, alla sua esperienza: Franco Basaglia. Un laboratorio italiano, a cura di Federico Leoni (Bruno Mondadori, € 11). La psichiatria universitaria, invece, forte di solide certezze farmacologiche e di un altrettanto solido naturalismo, si tiene parecchio alla larga dall’eredità di Basaglia.

Non è però il solo paradosso. Perché se a suo tempo erano le idee di Basaglia e dell’antipsichiatria a mettere a soqquadro il rassicurante fondamento di ogni umanesimo, la possibilità cioè di tracciare senza incertezze il confine fra il sano e il malato, il normale e l’anormale, l’umano e l’inumano, oggi le distinzioni saltano più facilmente per via della convinzione che tutto l’arcano della follia stia dentro i termini medico-biologici del problema. Negare alla parola, alle pratiche sociali o al contesto territoriale qualunque presa sulla realtà della follia significa infatti ridurre drasticamente fino a negarlo del tutto l’ambito in cui l’uomo si esprime e viene compreso come un uomo, e ampliare a dismisura quello in cui viene invece compreso e spiegato a partire da ciò che umano non è (ma è biologico o chimico o neurologico).

C’è quindi un motivo teorico di stringente attualità per ricordare Basaglia, ma c’è anche una ragione pratica e politica: basti pensare all’orrore della morte di Franco Mastrogiovanni, maestro elementare, sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, costretto per quattro giorni in un letto di contenzione del reparto psichiatrico di Vallo della Lucania e, a seguito di ciò, deceduto. Il processo al personale sanitario e agli infermieri è da poco ripreso, e nell’ultima udienza il direttore sanitario dell’Ospedale di Vallo ha avuto l’ardire di affermare che “la contenzione è un sistema di terapia”. Ora, non è sufficiente per indignarsi, ed entrare nuovamente con i fari accesi da Basaglia negli ospedali?

L’Unità, 26 novembre 2011

Don Camillo e Peppone uniti da Monti?

Mi piace pensare che il commissario Rehn abbia ragione: in un clima di concordia nazionale, don Camillo e Peppone, perfino loro sarebbero con Monti. Ora però non esageriamo. Don Camillo era uno che dopo ogni ramanzina per atei e miscredenti si ritirava a  parlare col Crocifisso delle debolezze degli uomini; e Peppone era uno che poteva anche piegare il capo e venire a qualche accomodamento, ma solo dopo avere arringato con durezza i compagni perché non perdessero di vista il sol dell’avvenire. Per mettersi l’uno e l’altro dietro un governo tecnico, per seguire con compunzione una conferenza stampa del presidente del Consiglio e mettersi d’accordo in nome dello spread, non di Dio né di Stalin, non avrebbero dovuto solo rinunciare ad agitare forconi e ramazze, ma anche accettare che la spinta alla modernizzazione, l’imperativo della competenza e la logica della razionalizzazione tecnica riducessero al silenzio il Cristo ligneo della canonica di don Camillo, e spegnessero i raggi del sole atteso con incrollabile fiducia dai compagni di don Peppone.
Rehn avrà voluto dire che l’Italia ha bisogno in questo momento di coesione nazionale, e che se, sui titoli di coda o nelle ultime pagine dei romanzi di Guareschi, i due amici nemici potevano in qualche modo affratellarsi, a maggior ragione possiamo farlo noi ora. E questo è sicuramente vero. Però, per la miseria: loro litigavano. E come se litigavano. Non mettevano mica la sordina ai loro contrasti ideologici, e se, per pragmatismo, senso di umanità o semplicemente stanchezza deponevano le armi, non avrebbero mai rinunciato per questo ad aspettare la rivoluzione o la redenzione. Ed anzi: proprio su queste aspettative costruivano legami e facevano comunità.  Perciò ci lascino almeno litigare, i competenti commissari dell’Unione, senza scambiare mai l’unità per conformismo, e vedranno che avremo forse persino qualche motivazione in più per fare tutti i compiti a casa. O, in alternativa, provino piuttosto a suscitare passioni altrettanto frementi per l’Europa.

L’Unità, 26 novembre 2011

TRA TECNICI, POPULISTI E NORMALI

I populisti li riconosci subito: sanno tutto dei film comici e delle commedie scollacciate degli anni ’70: ti citano a memoria Bombolo o Alvaro Vitali, Totò o Franchi e Ingrassia. I tecnocrati, loro, sono i nemici giurati della scuola italiana di doppiaggio: i film li vedono solo in lingua originale. I populisti sudano; solo i tecnocrati si deodorano. I populisti dormono della grossa, probabilmente russano; i tecnocrati riposano non più di quattro ore per notte, in uno stato di semivigilanza. I populisti al ristorante sghignazzano ad alta voce; i tecnocrati bisbigliano piano. Quando un populista legge, è solo perché ha preso il quotidiano sportivo in edicola: lui è uno del popolo e ha l’idea che al popolo piacciono solo il calcio, le donne e le battute grevi. Un tecnocrate, invece, legge soprattutto i listini di borsa e del calcio conosce, al più, i bilanci. Il populista è sempre sopra le righe; il tecnocrate mantiene sempre un certo low profile. Quando fai la foto a un populista, lui stringe mani, fa le corna e si mette sempre al centro dell’inquadratura; un tecnocrate non si fa fotografare, sta sempre dietro le quinte e, comunque, se proprio deve, non sorride. Il populista gesticola vistosamente, il tecnocrate compie solo movimenti minimi. Nessuno ha mai visto un tecnocrate assentarsi per soddisfare bisogni primari; il populista, invece, ci fa le battute sopra. Perché è sfacciato, mentre il tecnocrate è represso. Quello tiene sempre in braccia un bambino, in pubblico; questo soffre di anaffettività persino in privato. E quando va dal dottore, è per avere conferma dei suoi timori, mentre il populista non ci crede ancora che bisogna morire («non fiori, ma opere di bene» l’ha inventata un tecnocrate, perché al funerale del populista lacrime e corone di fiori si sprecano).

Insomma, come direbbe il filosofo, il mondo del populista è un altro che quello del tecnocrate. Ma possibile che non ci sia nulla nel mezzo? In realtà qualcosa c’è, ma è chiaro che fino a quando la scena è occupata dalle caricature che in un mondo ci si fa dell’altro mondo, quello che c’è in mezzo non si vede. E così sembra che popolo sia solo quello a cui il populista liscia il pelo, e che capacità e competenza siano necessariamente sinonimo di tecnocrazia e poteri forti. E invece così non è. Ma come si fa a dire come stanno le cose, che cioè in mezzo c’è – o ci dovrebbe essere – la politica, vista la cattiva reputazione di cui gode nel nostro paese? Eppure è la politica che ha il compito di staccare il popolo dalla sua deriva populista, così come è ancora la politica ad attirare la competenza tecnica in una zona che non è più quella di un’anodina neutralità. Non c’è bisogno di compiere studi superiori per sapere che quella del popolo è una (faticosa) costruzione  giuridico-politica; che il popolo non rappresenta affatto un’unità naturale (men che meno un’unità etnica, come sproloquiano i populisti padani), e che dunque richiede un lavoro paziente, un tessuto di parole e di rappresentazioni per nulla immediato o scontato; così come non occorre risalire al mito di Prometeo e al dono della techne all’uomo per capire che non può esistere una pura tecnica politica, che la politica non è mai mera amministrazione dell’esistente, e che per governare ci vogliono decisioni e assunzioni di responsabilità per nulla neutrali.

È bene perciò che prendiamo il governo Monti come una via per uscire anche da una simile impasse. Per avviare un lavoro che negli ultimi anni non è mai stato condotto, a destra come a sinistra, consentendo ai populismi di assorbire tutta l’energia politica disponibile, sia nella versione giustizialista di sinistra che in quella mediatica di destra, e alle competenze tecniche di presentarsi col volto impersonale e irresponsabile della ferrea necessità, Caricatura del sapere questa, caricatura del potere quella.

Se la cosa riesce, magari non tireremo solo l’Italia fuori dai guai, ma vedremo anche qualche tecnocrate in più andare allo stadio ed esultare, e qualche populista in meno sbroccare in tv. Al primo scapperà una risata, il secondo per una volta si morderà la lingua. E forse tutte e due parteciperanno al rito delicato e prezioso della democrazia, senza manifestare insofferenze per le sue lentezze, o fastidio per le sue mediazioni.

(Il Mattino, 22 novembre 2011)

La normalità e l’anomalia al tempo di Monti

Ieri tutti i giornali dicevano: una fiducia da record. E si capisce: 556 voti favorevoli, 61 contrari, il governo Monti ha stracciato ogni precedente. Non solo, ma si è anche costituito in tempi eccezionalmente brevi: meno di una settimana. Questi numeri non sono normali. Segno di una fase di emergenza che il Paese attraversa, e che ha richiesto decisioni rapide ed efficaci, oltre che grande senso di responsabilità da parte di tutti gli attori, politici e istituzionali. Ma se nessuno si metterà a fare l’elogio della lentezza o l’apologia della flemma, resta vero che a introdurre l’ossessione dei record in politica è stato Silvio Berlusconi, e fare i conti con la sua eredità significherà anche decidere se lasciarsi afferrare o meno da una simile ansia da prestazione.

Da dove viene, però, la smania dei record? Da più lontano e da un altro ambito. Viene dallo sport, che per Robert Musil è stata la vera invenzione del Novecento. Ulrich, il giovane protagonista de L’uomo senza qualità, era capace di tirare in ballo gli allenamenti sportivi per spiegare addirittura le esperienze mistiche, e la cosa poteva funzionare, perché mentre “lo sport è un fatto contemporaneo, la teologia è cosa di cui non si sa quasi niente”. Con la  «discesa in campo» di Berlusconi, non è accaduto lo stesso? Non ha invaso lo sport anche la politica? Non è per la stessa ragione che Maurizio Crozza ha presentato in tv la squadra di ministri come fosse una formazione di calcio, con allenatore il sottosegretario Catricalà e direttore di gara Mario Monti?  Perché meravigliarsi dunque se si vuole che il governo macini record su record? E la stessa storia dello spread: non è di nuovo una faccenda di primati?

È anche altro, naturalmente. E non è neppure il caso di prenderla anto sportivamente, visto che ne va dell’equilibrio finanziario del Paese. Ma poiché da parte di tutti c’è la consapevolezza che con il nuovo governo si chiude un’intera stagione politica e si apre una fase nuova, di ricostruzione morale e civile del paese, perché non riflettere anche su elementi della cultura politica di questi anni, per vedere se anche lì non ci sia qualcosa da ricostruire? In effetti, se non c’è nulla di male a trovare analogie sportive per i fatti della teologia, nulla di male vi sarà neppure a servirsi di termini calcistici per intendere la politica: ma un conto è analogare, un altro identificare, applicando la stessa logica all’uno e all’altro ambito. È invece la vita delle istituzioni non si presta gran che alla fame di record delle competizioni sportive, e si orienta invece in base ad altri parametri. All’opposto dei numeri ad effetto non c’è infatti solo la retorica della pacatezza, ma stanno anche continuità, solidità, serietà, la capacità di dispiegare gli effetti della propria azione in un arco di tempo lungo, senza fretta né gare, senza risultati da polverizzare o avversari da sbaragliare. La mediazione invece della furia del dileguare, per dirla addirittura con Hegel.

Il Presidente del Consiglio sembra esserne consapevole. Nel primo discorso tenuto al Senato, ha sottolineato ad esempio che, in tema di riforme, bisognerà certo aver presente lo stato dei conti, ma essere anche determinati ad introdurre principi la cui validità si estenda ben oltre la contingenza. Se d’altra parte l’imperativo unico fosse esclusivamente fare cassa, ben difficilmente si riuscirebbe a mantenere fede all’impegno di equità preso con il Paese. In ogni caso, ragionare di riforme considerandone gli effetti strutturali, lenti ma progressivi, è indice di un approccio ben diverso da quello che ispirava le conferenze stampa di Berlusconi, capace di annunciare riforme a grappoli, a decine, pur di dimostrare di aver battuto ogni record in materia – poco importa se per riforme si intendesse di tutto e di più, e se oltre l’effetto annuncio non si è riusciti ad andare quasi mai.

Non è il caso, ora, di coltivare nostalgie democristiane. Ma è vero quello che proprio ieri ricordava il neoministro della cooperazione Andrea Riccardi, su un terreno tra i più delicati che nei prossimi mesi sarà forse sondato dalle forze parlamentari: la DC era contraria al maggioritario perché temeva una legislazione a corrente alternata, un sistema elettorale che a ogni nuovo cambio di legislatura costringesse, con nuove maggioranze, a ricominciare tutto daccapo. Una vittoria dell’oggi che si traduce in un conflitto irrimediabile domani potrà forse giovare a una parte politica, ma di sicuro nuoce al paese.

Questo non significa che alternanza, bipolarismo, spoil system siano incompatibili con la continuità istituzionale, con una buona cultura dell’amministrazione e una chiara individuazione delle responsabilità politiche. Ma sono tutte cose che suppongono una tessitura comune, una trama civile e politica più resistente dei cambi di maggioranza. Proprio questo tessuto il berlusconismo ha stressato in ogni modo, sottoponendolo a continui strappi, in molteplici direzioni – e segnatamente, verso tutti i presidi posti a garanzia di quella più solida continuità.

Forse Napolitano, nominando Monti senatore a vita, ci ha voluto obbligare a tenere sempre a mente la frase di Gasperi: un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alla prossima generazione. Oggi, bisognerebbe anche aggiungere che uno statista non guarda neppure ai sondaggi, o all’audience da record dell’ultimo programma televisivo. E forse neppure allo spread, se questo gli accorcia troppo la vista.

(L’Unità, 20 novembre 2011)

Popolo neuronale della libertà

L’articolo di Edoardo Boncinelli sul nuovo supplemento domenicale del Corriere (Ecco perché il libero arbitrio non è libero) è molto, ma molto interessante. Vi si illustrano gli esperimenti i quali dimostrano che nel prendere una decisione la nostra coscienza di prendere la decisione segue e non precede il relativo evento cerebrale. Cosa ne consegue? Ne consegue o ne conseguirebbe l’inesistenza del libero arbitrio. Per mio conto, in realtà ne consegue al massimo che se per libertà si intende la capacità della nostra coscienza (o di “io”) di dar luogo a certi eventi cerebrali, allora la libertà non esiste. Ma io (io: parlo per me) non ho mai dato luogo ad alcun evento cerebrale. Qualche volta ci ho provato. Ho detto: “neurone, orsù: scarica e cammina!”, ma non credo di esser riuscito a dar corso agli eventi neuronali così come mi proponevo di fare. Le ultime scoperte neurofisiologiche temo mi vogliano togliere quello che in verità non ho mai avuto.

Ma alla fine dell’articolo Boncinelli scrive, a proposito del concetto di libero arbitrio, che se dobbiamo rinunciarvi o no dipende per l’appunto dal concetto che ce ne formiamo, il che lascia supporre una qualche (libera?) consapevolezza, nello scienziato, che se un tal concetto è differente da quello sopra discusso, ossia libertà come determinazione da parte della coscienza di certi eventi cerebrali, allora gli esperimenti addotti non dimostrano gran che. Ma se Boncinelli avesse proposto questa considerazione in apertura di articolo, come lo scriveva, l’articolo?

P.S. In omaggio al metodo scientifico e alla falsificabilità: nella conduzione degli esperimenti, c’era forse qualcuno che si aspettava di trovare prima i tali e talaltri eventi cerebrali, poi la solenne dichiarazione del soggetto di aver deciso in coscienza di far questo o quello, indi poi i successivi eventi cerebrali conseguenti specificamente alla decisione cosciente? E, nel mentre il soggetto decideva, cosa si aspettavano di trovare: forse il rispettoso  silenzio dei neuroni in attesa che il loro signore e padrone prendesse la decisione?

La fine della seconda Repubblica

Mettiamoci pure noi nei panni di Socrate. Dopo tutto, non dobbiamo fare una cosa molto diversa da lui. Lui doveva fondare la città ideale, nella parole di Platone; noi dobbiamo, si parva licet, ricostruire l’Italia. Il passaggio che viviamo non è infatti solo uno scorcio di legislatura, l’eclisse di un uomo politico, il crollo di un’esperienza di governo o il tramonto di una formula politica, ma, più probabilmente (e più auspicabilmente), la fine della sgangherata seconda Repubblica.

E come Socrate dovette far fronte a tre successive ondate per delineare i contorni della sua città ideale, anche noi abbiamo da sostenere l’urto di tre grosse e lunghe onde che non hanno fatto che ingrossarsi negli ultimi due decenni.

La prima ondata si è abbattuta sulle fragili strutture delle repubblica italiana con la caduta del Muro, il crollo dell’ordine internazionale bipolare, il prepotente balzo in avanti della globalizzazione. All’improvviso, le vecchie architetture giuridico-statuali sono apparse inadeguate. Lo Stato è parso incapace di sostenere le sfide di una società complessa e le dinamiche dell’economia globale, ma insufficiente anche rispetto alla fioritura di una nuova età cosmopolitica dei diritti, a cui va sempre più stretta la sola dimensione statuale-nazionale.

La seconda ondata ha investito le culture politiche sulle quali si era costruita l’Italia del secondo dopoguerra. Non si tratta solo della consunzione delle ideologie novecentesche, ma dell’impasto politico-istituzionale che è alla base della Costituzione repubblicana. D’improvviso, essa è apparsa superata. Fino agli anni Settanta, il discorso pubblico era dominato dall’esigenza del completamento del disegno costituzionale; a partire dagli anni Ottanta si è imposto, nella retorica pubblica, il disegno di una grande riforma, che in verità non ha mai veduto la luce, ma che ha contributo in profondità alla delegittimazione degli attori politici legati alla prima Repubblica. E l’emergere di una questione settentrionale è stata la spia più vistosa del prevalere di forze centrifughe, invece che di spinte verso l’unità.

La terza ondata ha investito i piani alti del pensiero. Non si è mai scritta tante volte la parola fine come negli ultimi venti, trent’anni. Fine del cinema, della filosofia o della scrittura, fine del libro o dell’automobile, ma anche fine della politica o della storia. Tutta questa fretta nel dichiarare finite strutture portanti dell’esperienza umana del mondo (e anzi l’uomo stesso), di scambiare cambiamenti per decessi – e di prendere anche grandi cantonate perché, con buona pace di Fukuyama, la storia, ben lungi dal finire, dopo l’89 si è rimessa decisamente in moto – nasce da una brusca contrazione della prospettiva temporale che si misura ormai sul piede delle stagioni televisive o dell’ultima generazione di telefonini

Se dunque bisogna ricostruire, bisogna trovare il modo di fronteggiare queste tre ondate. Affrontare l’emergenza, certo, restituire credibilità al paese, ma anche lavorare di più lunga lena per inventare una modernità diversa dal credo neoliberista, un sistema di partiti diverso da quello regalatoci dal berlusconismo, un tessuto di relazioni sociali e istituzionali più robusto del ciclo di vita di un prodotto.

Far fronte alla prima ondata significa ricostruire lo Stato: certo nella nuova, ineludibile cornice europea, senza consolazioni autarchiche, ma senza neppure l’illusione che i problemi di governance possano essere demandati ad altre agenzie, più o meno tecniche, più o meno irresponsabili. Che poi è un altro modo di dire che si possono celebrare le virtù della ‘mano invisibile’ quanto si vuole, ma resta che l’alleanza fra capitalismo e democrazia non è affatto un automatismo di mercato. La dimensione globale dei problemi esige dunque che si rendano pienamente democratiche le istituzioni europee: per rafforzarle, non indebolirle a cospetto della dirompente forza dei mercati.

Far fronte alla seconda ondata significa ripensare la sfera della partecipazione politica. Qualcosa di meglio per garantire inclusione sociale e rappresentanza degli interessi rispetto ai partiti, d’altra parte, non è stato ancora inventato. Anche i partiti si muovono oggi in un ambiente profondamente mutato, ma l’idea che il confronto politico debba risolversi nel rapporto esclusivo e diretto fra massa di individui e leader si è rivelata un’idea perniciosa.

Far fronte alla terza ondata è, infine, la sfida più difficile. Perché significa ripensare il futuro, senza rimanere schiacciati nel’orbita del presente, e lasciarsi ogni volta sorprendere dagli eventi: si tratti dell’11 settembre o della crisi finanziaria, della primavera araba o della rivoluzione tecnologica in atto, l’impressione è che la politica insegua, piuttosto che precedere. Bisogna dunque che, lungi dal fare un passo indietro, faccia un deciso passo avanti.

Confidando magari nel fatto che con Berlusconi si è concluso solo un primo decennio: ce ne restano ancora novantanove, di decenni, per dare un senso nuovo e migliore al terzo millennio.

(L’Unità, 13 novembre 2011)

Le passioni della politica

Roma, 14 novembre – 19 dicembre 2011
Camera dei Deputati, Sala del Refettorio (Via del Seminario 76

(Fondazione Italianieuropei – Centro Studi PD)

PIETA’ – lunedì 14 novembre 2011, ore 17-19

Franco Cassano, Ordinario di Sociologia dei processi culturali all’Università di Bari

Ugo Perone, Ordinario di Filosofia morale all’Università del Piemonte Orientale “A. Avogadro”

AMBIZIONE – lunedì 28 novembre 2011, ore 17-19

Michele Ciliberto, Ordinario di Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa

Carlo Sini, già Ordinario di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi di Milano 

VERGOGNA – lunedì 5 dicembre 2011, ore 17-19

Eva Cantarella, già Ordinario di Istituzioni di Diritto Romano all’Università degli Studi di Milano

Ida Dominijanni, Scrittrice e editorialista de “il manifesto”

AMORE – lunedì 12 dicembre 2011, ore 17-19

Alessandro Ferrara, Ordinario di Filosofia politica all’Università di Roma “Tor Vergata”

Serena Noceti, Docente di Teologia Sistematica alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale

INDIGNAZIONE – lunedì 19 dicembre 2011, ore 17-19

Maurizio Ferraris, Ordinario di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi di Torino

Carmen Leccardi, Ordinario di Sociologia della cultura all’Università di Milano-Bicocca

Politica al bivio tra larghe intese e super-tecnico

Il carattere convulso di queste giornate sembra evocare scenari da fine impero (o da operetta). Eppure bisognerebbe, anche in queste condizioni, tentare di attraversare la crisi perseguendo almeno un minimo di razionalità politica. Non è facile, naturalmente, ma bisogna provarci. Cominciamo allora col mettere insieme gli elementi di fondo. Le criticità del Paese stanno esplodendo. I mercati aggrediscono i titoli del debito italiano. L’Europa e le istituzioni internazionali chiedono riforme che dimostrino la capacità del paese e della sua classe politica di affrontare i nodi strutturali dell’economia, mettendosi sulla via del rigore e della crescita. Il governo Berlusconi, se mai lo è stato, certo non è più all’altezza del compito. È altresì evidente che vi è un forte deficit di credibilità, legato alla figura del Presidente del Consiglio, ma anche ai dissidi interni al governo e allo sfilacciamento della maggioranza. Questo è ormai il primo problema dell’Italia e va affrontato disgiungendo il destino del paese da quello personale del premier. Prima o dopo questo accadrà. Ma per l’appunto: cosa accadrà dopo? In queste ore (ma in realtà già da tempo) si rincorrono le ipotesi: governo tecnico, governo istituzionale, di larghe intese, governo a termine o di scopo. Per molti, tutte queste formule si equivalgono. Alle orecchie di osservatori stranieri forse paiono addirittura incomprensibili. La vera scelta sembra essere solo: o nuovo governo, o subito elezioni. Si tratta senz’altro di un’alternativa netta. Ma poiché, a giudicare almeno dall’andamento dello spread fra titoli italiani e tedeschi, è difficile ipotizzare che le cose possano andar peggio di quanto già non vadano, non si può usare l’argomento fine-di-mondo per contrastare un imminente esito elettorale e volere un governo pur che sia. Bisogna trovare un motivo di razionalità in più a favore del nuovo governo. E a questo punto le formule non si equivalgono più. Due ragionamenti si confrontano. Uno dice: la maggioranza ha dimostrato di non saper tirare il paese fuori dai guai. L’opposizione però non è pronta, e poiché ha anch’essa il problema di trovare i consensi nel paese non riuscirebbe a imporre i sacrifici necessari. Dunque ci vuole qualcuno che, non avendo preoccupazioni elettoralistiche, possa fare le riforme che tutti dicono di volere e che nessuno ha la forza di fare. Ci vuole una persona super partes – qualcuno ha detto seriamente che ci vorrebbe un dittatore sul modello di Cincinnato, che governi per sei mesi e poi si faccia da parte – ci vuole insomma un commissariamento della politica per compiere le scelte dolorose, e traghettare il paese fuori dalla crisi. Questo ragionamento ha tutta la capacità di persuasione che ha la forza – quando è libera di farsi sentire. Peccato che è un po’ antidemocratico. Ma non è discutibile solo sul piano dei principi (sebbene sui principi non sia consigliabile sorvolare, o pensare che possano essere soddisfatti in subordine, la priorità essendo la stabilità finanziaria a tutti i costi), bensì proprio in termini di razionalità politica. In una simile ipotesi, infatti, si chiederebbe alla politica di fare un passo indietro per conclamata incapacità. Eppure, se il problema è una politica debole e inconcludente, invocare il deus machina, un papa straniero o il sacerdote dei mercati significherebbe fotografare il problema, non mandarlo a soluzione. C’è però un altro ragionamento che si può fare. E muove da una prova di fiducia negli italiani, prima ancora che nei partiti. Chi l’ha detto, infatti, che gli italiani non saprebbero apprezzare un nuovo governo che, chiamato a prendere decisioni difficili, con rigore ed equità, fosse in grado di rimettere in sesto i conti pubblici? Chi l’ha detto che non sarebbe poi premiato dal voto popolare? Due sono i ragionamenti, due i governi possibili. Il primo ragionamento porta al governo tecnico, o dei migliori: come diceva Gramellini sulla Stampa, sospende la democrazia a favore della megliocrazia (brutta parola e orribile concetto). L’altro porta invece a un governo di larghe intese, per ricostruire, prima ancora che il paese, la dignità e la grandezza della politica. Come non vedere infatti che fino a quando i partiti non si cimenteranno con le prove più ardue, e accetteranno supplenze e altre fughe dalle proprie responsabilità, non avremo mai un sistema politico credibile? Dopo tutto: non è stato lo stesso Berlusconi, e forse la seconda Repubblica tutta intera, a fare la sua comparsa come supplente di una politica allo sbando?

(Il Mattino, 8 novembre 2011)

Il suo unico messaggio è: destra e sinistra pari sono

Sbaglia chi fa di Michele Santoro un guru, un profeta o un martire: lo ha detto lui ieri, e non ho difficoltà a credergli. Spero che non sbagli neanche chi ha tuttavia qualche critica da muovere: non al tipo di giornalismo che Santoro pratica, da ottimo professionista qual è, ma all’idea di libertà, di politica e di servizio pubblico in nome della quale ha avviato una rivoluzione “civile, democratica e pacifica”.

Siccome Santoro ha esordito ieri con un “argomento molto razionale”, per spiegare quale danno venga al Paese da un sistema dell’informazione non completamente libero, vorrei proporre a mia volta una critica almeno altrettanto razionale, forse persino di più. Sento però di dover prima tranquillizzare il lettore, e Santoro medesimo, visto che non perde occasione per prendersela con la stampa e con l’opposizione tutta, per via della reazione “fiacchissima”, lui dice, alla soppressione di Annozero.

Diciamo allora, chiaro e forte, che la Rai ha fatto molto male a cacciare Santoro e a rinunciare a uno dei suoi programmi di punta: su questo Santoro ha ragione da vendere. Diciamo pure che i numeri – gli ascolti televisivi, lo share, i contatti on line – danno ragione pure al nuovo “Servizio pubblico” (anche se, televisivamente parlando, c’è molto da rodare). Dopodiché però guardiamo il menu: Travaglio sui privilegi dei senatori, Valter Lavitola che gigioneggia, Vauro indignatissimo, gli sprechi della politica, Scilipoti e la compravendita dei parlamentari, la casa di Scajola, le Maserati acquistate dalla Difesa. Ospiti in studio: Mieli, Della Valle, De Magistris. (A De Magistris va la massima solidarietà per l’aggressione subita ieri per le strade di Napoli: Santoro lo invita perché faccia il politico che “scassa”, ma ora è anche l’amministratore che deve costruire, e non è semplice). Comune denominatore: il refrain su una politica tutta inadeguata, non importa se di destra o di sinistra (e invece importa, e come se importa!). Poi, certo, Scilipoti è la caricatura di se stesso, e la casa “a sua insaputa” di Scajola è al di là del bene e del male, ma l’idea che bisogna tirare una riga non fra due idee dell’Italia, due parti politiche, due sistemi di valori o due politiche economiche, bensì fra buoni e cattivi, onesti e disonesti, poveri cristi e furbi matricolati, resta purtroppo il messaggio principale, se non unico, della trasmissione.

Ed è questo che non va. Chi avesse letto Gramellini sulla Stampa mettere seriamente in discussione il diritto di voto e augurarsi la “megliocrazia”; chi avesse ascoltato Michele Salvati dire a Radio Radicale che quel che ci vorrebbe ormai è una dittatura, avrebbe trovato al fondo la stessa premessa di Santoro (e si badi: parliamo di intellettuali moderati, sinceri riformisti, persone di ottime letture!): la classe politica è così incapace e compromessa – tutta: da destra a sinistra – che possono salvarci solo gli ottimati (tipo Della Valle o Mieli?) oppure una rivoluzione: però pacifica, però civile e democratica.

Ora, in apertura Santoro ha detto due cose. La prima: a causa di un’informazione compiacente, abbiamo scoperto tardi che non stavamo affatto meglio della Germania. È il suo argomento razionale a difesa della libertà dell’informazione: non saremmo sprofondati nel baratro di una crisi finanziaria se l’informazione avesse fatto da cane da guardia. In generale è vero, è un argomento fondato. Ma ora guardiamo la trasmissione: cosa ci ha aiutato a capire della crisi? Cosa delle politiche neoliberiste degli ultimi anni o dell’attuale direttorio franco-tedesco? Nulla. E cosa ha scoperto che non sapessimo già? Nulla. Grazie al “servizio pubblico”, sappiamo che Berlusconi tocca le ragazze e presta soldi a strani imprenditori ittici: ma è così che si viene fuori dal baratro? Ed è sicuro Santoro che il Paese ci guadagna, se affonda nel ridicolo tutta la politica? Lui infatti dice così: “la politica”, come una volta si diceva “il potere” sottintendendo che, in quanto tale, è male. Ed è questo che non va, nel suo programma, perché non è vero.

Ma non è ancora il mio argomento “molto razionale”. Si tratta della seconda cosa che Santoro ha detto. Rivolgendosi ai centomila che hanno versato 10 euro, Santoro ha detto che costoro hanno acceso con il loro contributo le luci della trasmissione, e ora sanno che possono accendere quello che vogliono: Celentano, Daniele Luttazzi, Serena Dandini.

Ma è questo quello che vogliamo? È così che si esercita o si misura davvero la libertà? Si dirà: non è colpa di Santoro se deve fare la “colletta”. Giusto. Ma è una sua scelta associare alla “colletta” un’idea di libertà. Ecco, l’idea di libertà che ha Santoro somiglia all’esercizio di libertà che compiamo andando al cinema: si tratta di starsene seduti, pagare 10 euro e scegliere a quale spettacolo assistere. Nel servizio pubblico di Santoro c’è Travaglio che sul quadernetto, per far sorridere, infila pure l’allusione al Presidente della Repubblica e il pubblico dovrebbe accendere? Ma, mi perdoni il conduttore, l’idea di libertà che hanno oggi le persone che in piazza chiedono di cambiare non è questa: è molto di più. È più bella. Ed è più politica.

(L’Unità, 5 novembre 2011)

En todos los órdenes, hoy la solución de una cosa está fuera de sí misma, J. Oteiza

Poniamo che la filosofia rinunci al titolo di scienza della verità. Poniamo che rinunci non solo ad essere scienza, ma anche a misurarsi, in generale, col problema della verità (i due gesti dovrebbero essere considerati un solo e stesso gesto, ma non sempre le cose vanno in questa maniera): si tratterebbe di una decisione comprensibile, per alcuni perfino auspicabile, dal momento che la storia della verità, così come l’ha raccontata Nietzsche, sembra essere giunta alla sua fine ormai già più di un secolo fa.
Resta nondimeno difficile immaginare, ammesso e non concesso che la filosofia compia appunto una simile rinuncia, che rinunci anche ad essere un affare di parola, o forse meglio di discorso. La filosofia ha per qualche tempo esitato sulla soglia della scrittura e, se non si è troppo affezionati a un’immagine meramente cronologica della sua vicenda, si può pensare con qualche ragione che questa esitazione le appartenga ancora essenzialmente; ma, cominci pure la filosofia con Socrate che non scriveva nulla piuttosto che con Platone il quale invece scriveva, nel mentre tuttavia si raccomandava di non lasciarsi istruire dalla semplice parola scritta – o addirittura cominci da Parmenide, il quale in verità ‘filosofava’ in versi (eppure chiedeva di giudicare della verità dell’essere in base al logos), sta il fatto che la filosofia si è sempre rimessa ad un certo esercizio della parola. È vero, il filosofo antico è tale ergo kai logo, e dunque non semplicemente per ciò che dice, ma anche per ciò che fa. E tuttavia l’ergon del filosofo non sarebbe tale se non fosse l’opera di quello strano animale che ha il logos. Si può dire allora che la vita filosofica consiste in un certo modo di ‘portare’ la parola, e situare perciò questo com-portamento un passo indietro (o avanti?) rispetto alle parole, ma è ancora in riferimento alla parola che un tale comportamento si rischiara e viene allo scoperto.
(Il saggio, La verità come compito della filosofia, è pubblicato integralmente sul fascicolo 2 della rivista di filosofia Noema, diretta da Rossella Fabbrichesi e Carlo Sini, dell’Università di Milano, disponibile al seguente indirizzo:http://riviste.unimi.it/index.php/noema/issue/view/224/showToc)