TRA TECNICI, POPULISTI E NORMALI

I populisti li riconosci subito: sanno tutto dei film comici e delle commedie scollacciate degli anni ’70: ti citano a memoria Bombolo o Alvaro Vitali, Totò o Franchi e Ingrassia. I tecnocrati, loro, sono i nemici giurati della scuola italiana di doppiaggio: i film li vedono solo in lingua originale. I populisti sudano; solo i tecnocrati si deodorano. I populisti dormono della grossa, probabilmente russano; i tecnocrati riposano non più di quattro ore per notte, in uno stato di semivigilanza. I populisti al ristorante sghignazzano ad alta voce; i tecnocrati bisbigliano piano. Quando un populista legge, è solo perché ha preso il quotidiano sportivo in edicola: lui è uno del popolo e ha l’idea che al popolo piacciono solo il calcio, le donne e le battute grevi. Un tecnocrate, invece, legge soprattutto i listini di borsa e del calcio conosce, al più, i bilanci. Il populista è sempre sopra le righe; il tecnocrate mantiene sempre un certo low profile. Quando fai la foto a un populista, lui stringe mani, fa le corna e si mette sempre al centro dell’inquadratura; un tecnocrate non si fa fotografare, sta sempre dietro le quinte e, comunque, se proprio deve, non sorride. Il populista gesticola vistosamente, il tecnocrate compie solo movimenti minimi. Nessuno ha mai visto un tecnocrate assentarsi per soddisfare bisogni primari; il populista, invece, ci fa le battute sopra. Perché è sfacciato, mentre il tecnocrate è represso. Quello tiene sempre in braccia un bambino, in pubblico; questo soffre di anaffettività persino in privato. E quando va dal dottore, è per avere conferma dei suoi timori, mentre il populista non ci crede ancora che bisogna morire («non fiori, ma opere di bene» l’ha inventata un tecnocrate, perché al funerale del populista lacrime e corone di fiori si sprecano).

Insomma, come direbbe il filosofo, il mondo del populista è un altro che quello del tecnocrate. Ma possibile che non ci sia nulla nel mezzo? In realtà qualcosa c’è, ma è chiaro che fino a quando la scena è occupata dalle caricature che in un mondo ci si fa dell’altro mondo, quello che c’è in mezzo non si vede. E così sembra che popolo sia solo quello a cui il populista liscia il pelo, e che capacità e competenza siano necessariamente sinonimo di tecnocrazia e poteri forti. E invece così non è. Ma come si fa a dire come stanno le cose, che cioè in mezzo c’è – o ci dovrebbe essere – la politica, vista la cattiva reputazione di cui gode nel nostro paese? Eppure è la politica che ha il compito di staccare il popolo dalla sua deriva populista, così come è ancora la politica ad attirare la competenza tecnica in una zona che non è più quella di un’anodina neutralità. Non c’è bisogno di compiere studi superiori per sapere che quella del popolo è una (faticosa) costruzione  giuridico-politica; che il popolo non rappresenta affatto un’unità naturale (men che meno un’unità etnica, come sproloquiano i populisti padani), e che dunque richiede un lavoro paziente, un tessuto di parole e di rappresentazioni per nulla immediato o scontato; così come non occorre risalire al mito di Prometeo e al dono della techne all’uomo per capire che non può esistere una pura tecnica politica, che la politica non è mai mera amministrazione dell’esistente, e che per governare ci vogliono decisioni e assunzioni di responsabilità per nulla neutrali.

È bene perciò che prendiamo il governo Monti come una via per uscire anche da una simile impasse. Per avviare un lavoro che negli ultimi anni non è mai stato condotto, a destra come a sinistra, consentendo ai populismi di assorbire tutta l’energia politica disponibile, sia nella versione giustizialista di sinistra che in quella mediatica di destra, e alle competenze tecniche di presentarsi col volto impersonale e irresponsabile della ferrea necessità, Caricatura del sapere questa, caricatura del potere quella.

Se la cosa riesce, magari non tireremo solo l’Italia fuori dai guai, ma vedremo anche qualche tecnocrate in più andare allo stadio ed esultare, e qualche populista in meno sbroccare in tv. Al primo scapperà una risata, il secondo per una volta si morderà la lingua. E forse tutte e due parteciperanno al rito delicato e prezioso della democrazia, senza manifestare insofferenze per le sue lentezze, o fastidio per le sue mediazioni.

(Il Mattino, 22 novembre 2011)

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