Archivi del mese: dicembre 2011

Cerimonia regale per l’avv. Taormina principe di Filettino

È un vero peccato che principi e regnanti di ogni genere e specie non siano più sovrani per grazia di Dio e volontà della nazione, ma debbano accontentarsi delle lungaggini di un processo costituente, con votazioni, spogli, elezioni di deputati. Almeno così vanno le cose a Filettino, provincia di Frosinone, dove il Principe Reggente ha potuto insediarsi solo dopo la proclamazione dei risultati elettorali. E così, senza neppure ricevere la corona dalle mani del Papa, l’Augusto Eletto, l’avvocato Taormina, ha atteso per ben due ore l’esito dello scrutinio. Peraltro lusinghiero: 710 votanti, un solo no (qualche bastian contrario lo si trova sempre)

Sono state di sicuro le ore più lunghe della sua vita, che gli sarà passata tutta davanti in un baleno: i faticosi studi universitari, la costruzione di una brillante carriera forense, l’esperienza parlamentare, l’esperienza di governo purtroppo breve come sottosegretario, le mille comparsate televisive in cui fare a gara a chi le spara più grosse. Nulla però che valesse al confronto dell’ultimo trionfo, quello di ieri: l’insediamento come principe di uno Stato nuovo di zecca, il Principato di Filettino! Non sarà ancora illustre come il Principato di Monaco o come San Marino, ma è pur sempre qualcosa. I quarti di nobiltà non saranno gli stessi dei Borbone o dei Windsor, ma diamogli tempo.

Io però lo vedo, il settantenne Carlo Taormina del foro di Roma, timido ed emozionato come uno scolaretto, circondato dagli alti dignitari del Principato, mentre riceve i segni del comando e compie regale gli ultimi passi che lo separano dalla gloria. Lo osservo come nella memorabile sequenza di un film, che solo nel finale rivela il segreto di una vita intera, costruita con fatica, amore, dedizione, e che sull’ultima inquadratura si stringe lentamente sul volto del protagonista e riprende la piega del volto che, dapprima impercettibile, poi sempre più visibilmente, si allarga in un sorriso beffardo e prorompe infine in una risata sempre più incontrollabile e sguaiata, tra la costernazione dei presenti che, loro, ci avevano creduto per davvero.

Che se poi ieri non è andata così, e il principe Taormina ha pensato di insediarsi per davvero nel cuore del Frusinate alla guida di uno Stato sovrano, beh: a ridere allora ci penseremo noi.

L’Unità, 31 dicembre 2011

La noia disinnesca i cronisti senza più gag

Tradizionale conferenza stampa di fine d’anno. Dopo oltre due ore di sobria e pacata esposizione del Presidente del Consiglio, i giornalisti  ripongono i taccuini, spengono i registratori e, prima di mandare il pezzo al giornale con le dichiarazioni sulla manovra atto dovuto e la crescita atto voluto, prima di sbirciare un’ultima volta il grafico sullo spread e decidere se credere alle rassicurazioni del governo, si mettono alacremente a compulsare le pagine dei Concetti fondamentali della metafisica di Martin Heidegger, in cerca dei paragrafi dedicati alla noia, stato d’animo così fondamentale da illuminare in profondità la natura dell’uomo. Istinto del cronista, che ha bisogno di capire. In questo caso, infatti, c’era da capire cosa mai fosse quello stato di intorpidimento delle membra e dello spirito che li aveva assaliti, in assenza di gomitate da parte di colleghi più guardinghi e soprattutto delle sapide barzellette del predecessore: senza una gaffe, una battuta galante, o almeno una smargiassata del Cavaliere da riportare, ma con nelle orecchie soltanto il ronzio monocorde di parole scandite alla velocità con cui un bradipo tridattile si fa la toilette al mattino.

Heidegger viene in soccorso. La noia, egli spiega, consta di due elementi strutturali: l’esser lasciati vuoti e l’essere tenuti in sospeso. Più o meno quello che è accaduto ieri! Nella noia, infatti, le cose che ci circondano non hanno più nulla di interessante da offrirci, nonostante rimaniamo inchiodati ad esse senza un reale motivo, e noi ce ne stiamo inattivi, sospendendo l’esercizio di qualunque capacità, sia fisica che intellettuale: descrizione assai calzante della conferenza di ieri. Heidegger però sostiene anche che l’uomo è l’unico animale che si annoia. E Le scienze dell’educazione danno man forte: non dicono gli educatori che i nostri figli fanno troppe cose e devono invece sapersi annoiare?

Chiuso il libro, i giornalisti avevano dunque la chiave del perché in tempi di crisi abbiamo bisogno del professore: più ancora che per le misure a favore della crescita, per la sonnacchiosa pedagogia che benignamente spande. Per riportare cioè se non la calma sui turbolenti mercati almeno la noia nel cuore degli uomini. (Dopodiché è vero che Berlusconi lo abbiamo visto addormentarsi in pubblico, Monti al massimo farà addormentare noi).

L’unità 30 dicembre 2011

Del Principato di Filettino e del Principe Reggente

Dichiarazione dell’avvocato Carlo Taormina, quello che strepitava ai
tempi della famigerata Commissione Telekom Serbia e che, prima,
stendeva leggi ad personam per il Cavaliere: “Cina, Giappone e Canada
stanno per riconoscere il nuovo Stato”. Come sarebbe  quale nuovo
Stato? Ma il neonato Principato di Filettino, comune che se ne stava
quieto in provincia di Frosinone prima di proclamarsi Principato
autonomo (il processo costituente è in corso). In fondo, da paese

montano a paese sovrano non si tratta che di un piccolo passo, poco

più di un cambio sillabico. E, per compierlo, chi meglio dell’eroe di
mille Porta a Porta dedicati al delitto di Cogne? Arrivato come
consulente legale e presto scelto come Principe Reggente del nascente
Principato, Taormina ha nel curriculum un florilegio di rodomontate e
casuidici distinguo, l’ideale per una trovata (pubblicitaria) del
genere.
Quanto poi agli argomenti necessari perché i 550 abitanti di Filettino
si sentano nel loro pieno diritto, quelli nell’opinione pubblica

circolano già: perché noi di Filettino dobbiamo pagare i debiti di
altri? E poi: non è un bell’esempio di iniziativa individuale, mettere
su uno Stato tutto nuovo? Questo Euro, non ci sta dando solo problemi?
Perché non battere moneta ciascuno per sé? Non conviene trasformarci
in zona franca? Poi arriva il roboante Taormina e rilascia le
dichiarazioni che ci vogliono. Ultimora da far tremare Stati e
mercati. Così, da un parte l’avvocato chiede alla Lega un incontro sul
tema dell’autodeterminazione dei popoli, assicurando di condividere lo
stesso giudizio negativo sulla manovra Monti; dall’altra, ed è notizia

su cui le diplomazie sono ancora al lavoro, il Principe Reggente trova
il riconoscimento delle grandi potenze (e l’attenzione delle TV
straniere).

C’è poco da fare: è la crisi. Visto che i governi, in Italia e in

Europa, non riescono a tirarci fuori, ci raccapezziamo da soli. Ma

qualcuno dovrebbe spiegare a quelli di Filettino (non Taormina, per
carità!), che questa cosa di raccapezzarsi da soli non è affatto la
soluzione, casomai il problema. L’unica notizia positiva è che, fino
ad ora, di spinte secessionistiche, egoismi localistici, e altre

storie di ordinaria disgregazione possiamo ancora sorridere. Ma non
era meglio che, caduto il governo Berlusconi, almeno la finivamo di
farci riconoscere?

L’unità, 28 dicembre 2011

Cambiare o morire. Partiti alla prova

Formidabile quest’anno. Cominciato con le celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia e la vigorosa riscoperta del sentimento nazionale, si affretta verso la conclusione con la sensazione che nulla è scontato, nemmeno la coesione nazionale. Cominciato con la memoria dell’Italia che ce l’ha fatta, si conclude con i dubbi e gli interrogativi sull’Italia che ce la può, perché ce la deve, fare. Cominciato con un governo, finisce con un altro, ma l’impressione è che in gioco ci sia molto più che non la durata di un esecutivo; che in via di definizione sia l’assetto dell’intera legislatura prossima ventura e forse di un’altra Italia, quella che verrà fuori dalla crisi della seconda Repubblica.

All’orizzonte, ovviamente, non c’è nessun Napoleone, e quindi è difficile entusiasmarsi (o atterrirsi) per l’incedere dello spirito del mondo a cavallo, come accadeva a Hegel poco più di duecento anni fa. Però è indubbio che qualcosa si è messo in moto, e che quel che si è messo in moto ha la forza di un mutamento storico. Sembra proprio che la storia, con buona pace di Fukuyama che ne aveva celebrata festosamente la fine, non sia ancora giunta all’happy end. Tutt’altro.

Orbene, con quali strumenti è possibile affrontare cambiamenti di così ampia portata, quali quelli che si annunciano per gli anni a venire? In Italia, da qualche turno elettorale in qua, quel che ci è rimasto dei partiti si sforza di trovare il proprio ubi consistam intorno a una cosa chiamata programma. Ma il programma di un partito, ormai privo di un chiaro profilo culturale e ideale, non è molto diverso da un decreto mille-proroghe: si riempie delle istanze più diverse, per mera accumulazione. Per dare unità a quello che altrimenti sarebbe solo un disparato elenco di cose da fare, si è pensato di investire sulla comunicazione. Anche se a monte non c’è più nulla, o forse proprio per questo, qualcuno avrà pensato: facciamo comunque in modo che ci sia qualcosa a valle. E siccome comunicare è, anzitutto, semplificare, quale migliore semplificazione del partito personale? Questo processo si è quindi presentato nella forma più pura là dove non è stato affatto il partito a cercarsi un leader, bensì piuttosto il leader a dotarsi di un partito.

Ora, nessuno rimpiange sintesi ideologiche capaci di chiamare in causa l’interpretazione del corso del mondo anche quando si trattava di parchi marini o di dimensioni e colori dell’etichettatura merceologica, ma è chiaro che se davvero è in gioco la tenuta del paese, il senso stesso della presenza dell’Italia in Europa e un riallineamento geopolitico di portata globale, solo una forza (e una nazione) che abbia cultura politica e senso storico può farcela.

A Hegel toccò una volta di dover rispondere, in aula, a un certo signor Krug, che gli aveva chiesto di dedurre dal sistema della filosofia – se poteva – la sua penna. Hegel non si scompose. Replicò che lo si sarebbe potuto anche fare, non prima però di essersi occupati di tutto ciò che in cielo e in terra vi è di più importante della penna del signor Krug. Guai dunque a rispolverare vecchi dogmatismi e intollerabili spiriti di sistema; e dunque: niente presunzioni intellettuali o, peggio, fanatismi ideologici. Ma non è indispensabile avere ancora partiti capaci di definire il senso delle priorità nazionali, la misura di una sfida di portata epocale, e i punti in cui la teoria deve tornarsi ad applicarsi alla realtà storica? Noi ci troviamo in uno di questi punti, in uno di questi tornanti. Lo diceva anche il ministro Tremonti, la bellezza di un anno e mezzo fa: “L’intensità del fenomeno che viviamo è storica e ha modificato tutti i paradigmi, dalla politica all’economia. Non siamo dentro una congiuntura ma in un tornante della storia. È difficile da commentare standoci dentro”. E infatti è stato sbalzato fuori. Ma pochi si possono permettere di fare dell’ironia, perché tutti rischiano di fare la stessa fine, senza un’adeguata consapevolezza di ruoli e compiti.

È inevitabile: in una crisi si entra in un modo, si esce in un altro. L’unica differenza la fa la capacità di orientare i cambiamenti, e non semplicemente di subirli. I partiti che verranno saranno quelli che, senza più alleggerimenti o imbellettamenti postmoderni, in mezzo o alla fine ci saranno riusciti.

Il mattino, 23 dicembre 2011

Welby cinque anni dopo

Non è giusto. O è giusto così. Dinanzi alla morte di una persona cara, nessuno è in grado di rimanere così impassibile da non chiedersi se sia giusto che debba morire. Morire così. Morire ora. Anche quando ci rassegniamo, per esempio per l’età avanzata, non sentiamo meno il bisogno di elevare il processo naturale del morire nella sfera dello spirito, che è, in un senso minimale, ciò per cui nel morire ne va del senso del vivere e dell’aver vissuto.

Non è giusto, oppure è giusto così. Ma la giustizia, qui, non è l’obbligo contratto innanzi a una legge, umana o divina, bensì la misura della comune appartenenza all’umanità e al senso, che si compie assegnando alla cultura (all’elaborazione dell’uomo) ciò che altrimenti apparterrebbe solo alla natura. Così la nascita, così la morte, così tutti i fenomeni di passaggio, gli attraversamenti di soglie, i transiti al confine. Perciò non è giusto che moriamo: non lo è in assoluto, non già solo in rapporto a questa o a quella morte, poiché il mero morire naturale non ci appartiene in quanto uomini. E perciò è giusto che noi moriamo, quando è resa giustizia (onore, rispetto, sepoltura) a chi muore, e all’umanità che muore con lui. Un tratto che però caratterizza la «seconda modernità» che noi viviamo è l’ampliamento delle scelte a nostra disposizione: scelte trasferite dapprima dall’ambito naturale a quello istituzionale, poi da quello istituzionale a quello individuale. Un processo che sociologi e filosofi presentano spesso come una perdita di sostanzialità, perché pone su esili spalle, quelle del singolo individuo, decisioni che investono l’orizzonte più grande del vivere e del morire. Non si muore quasi più, ma ogni volta, in luogo del «si» muore, si compie così un «io muoio» o un «tu muori».

Più difficile è dunque trovare la misura, la giustizia. Dopo i casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, il Parlamento italiano ha ritenuto di averla trovata. Piergiorgio Welby è morto, giusto cinque anni fa, avendo ottenuto, al termine di una lunga, lucidissima battaglia, che fosse staccato il respiratore che lo teneva artificialmente in vita. Eluana Englaro è morta dopo che il padre, al termine di una battaglia altrettanto lunga, ebbe ottenuto, grazie a un tribunale, l’interruzione dell’alimentazione artificiale, conformemente alla supposta volontà della figlia. I due casi hanno scosso profondamente le coscienze, mostrando quale viluppo di azioni e di decisioni vi sia oggi dove prima c’era un semplice accadimento naturale. E hanno anche portato il Parlamento a legiferare, con un accanimento pari a quello terapeutico, sul cosiddetto testamento biologico. L’obiettivo: porre limiti stretti tanto alla libertà del malato quanto a quella del medico. In questo

modo, però, soglie sottilissime, che devono ancora trovare una stabile configurazione di senso intorno a un letto d’ospedale o al capezzale di un malato, sono state disegnate d’autorità, fissate rigidamente in una disposizione di legge.

Ma la soglia è, soprattutto, un’esperienza, come il primo bacio, come un esame di maturità o come il primo giorno di lavoro: chi vorrebbe mai disciplinare per legge i passi da compiere per affrontare l’ingresso nel mondo adulto, prepararsi alle peripezie dell’amore o

agli affanni della vita professionale? Perché sottrarre al singolo uomo il più antico e più arduo compito, quello di cimentarsi con le prove dell’inizio e della fine? In uno Stato democratico, una legge si fa per proteggere i deboli dai forti, non già per assicurare ai forti un potere di controllo o di disciplinamento sui deboli. Ciò che valeva per gli antichi sovrani, detentori del potere di vita o di morte sui sudditi, non può valere per i cittadini.

A cinque anni di distanza dal caso Welby, ci si può dunque chiedere, «sine ira ac studio», perché quella legge. E soprattutto se non sia l’umanità dell’uomo garanzia più solida di giustizia che non l’impero della legge, in casi estremi come quelli che riguardano il vivere e il morire. Senza dogmatismi, senza sicumere, disposti a riflettere e, se del caso, a cambiare. A utilizzare lo strumento legislativo, se è per difendere e non per coartare, o a accantonarlo, se è per dare responsabilità e non puro arbitrio.

L’unità 21 dicembre 2011

Spinoza. La politica e il moderno

E’ uscito il fascicolo 1/11 della rivista Il Pensiero (ESI), disponibile in libreria, dedicato a Spinoza. La politica e il moderno, e da me curato. Dentro vi trovate: B. De Giovanni, Spinoza e Hegel. Dialogo sul moderno; M. Adinolfi, Res quae finitae sunt. Qualche riflessione sui fondamenti ontologici dei concetti politici spinoziani; F. Pellecchia, Essenza dell’amore nell’Etica di Spinoza; Ch. Ramond, Sedizione, ribellisione e insubordinazione nella filosofia politica di Spinoza; C. Sini, Dall’etica di Spinoza a Nietzsche: profezie di un’etica futura? (e inoltre A. Gatto, Di un’impossibile confessione. Il soggetto cartesiano e la libera creazione delle verità eterne, V. Vitiello, De Trinitate. In dialogo con Piero Coda.

Qui sotto inserisco la premessa che ho scritto per la presentazione del fascicolo:

“Essere spinoziani, è l’inizio essenziale del filosofare”, così sentenziava Hegel, nelle lezioni di storia della filosofia. Celebre ma velenoso complimento, dal momento che per Hegel l’inizio è appunto soltanto un inizio: manchevole di tutto ciò che dall’inizio viene. E manchevole fin dall’inizio, visto che fin dalla prima definizione della sostanza, fin dal concetto “veramente speculativo” di causa sui, Spinoza manca per Hegel di svolgere quel che nell’inizio è contenuto.  Resta vero però che per il filosofo di Stoccarda lo spinozismo non ha mai cessato di essere una posizione fondamentale del pensiero, “un punto talmente importante della filosofia moderna – così riteneva – che in realtà si può dire: o tu sei spinoziano, o non sei affatto filosofo”.

Non sorprende dunque che tutta la storia della filosofia moderna, nonostante anatemi e maledizioni, non abbia mai smesso di misurarsi con Spinoza: da Leibniz, che secondo Hegel rappresentava “l’altro lato del centro spinoziano, cioè l’esser per sé, la monade”, l’individualità, insomma, di contro all’essere in sé dell’unica sostanza , a Kant, che non sembra aver scritto la Critica della ragion pratica per altre ragioni che non fossero la  più rigorosa confutazione dello spinozismo; dal giovane Marx, che ricopiava diligentemente Spinoza nei suoi quaderni di appunti, a Nietzsche, che si entusiasmò alla scoperta di avere nell’ebreo di Amsterdam una gran “razza di precursore”.

Anche il ‘900 non ha mancato di cimentarsi col suo pensiero, anche grazie a un significativo accrescimento degli studi storiografici: dai lavori quasi pioneristici di H. A. Wolfson e L. Robinson sull’Etica sino ai due grossi volumi sistematici di Martial Gueroult su Dio e l’anima; dall’opera classica di Paul Vernière sulla fortuna di Spinoza nel pensiero francese prima della Rivoluzione, alle più recenti ricerche di E. M. Curley o di Y. Yovel (ma anche, in Italia, ai lavori di P. Di Vona, P. Cristofolini, F. Mignini, E. Giancotti e altri). A partire dagli anni Sessanta emergono anche nuove, robuste interpretazioni filosofiche, soprattutto in terra francese. Basti pensare ai testi deleuziani su Spinoza e l’espressionismo in filosofia, o alle nuove letture di Alexandre Matheron su individuo e comunità ed Étienne Balibar sul transindividuale in Spinoza, ma anche al libro di Antonio Negri sull’ontologia sovversiva dell’olandese.

Questa sorta di Spinoza-Renaissance, che data grosso modo dalla fine degli anni Sessanta e coincide almeno in Italia con una certa crisi del mainstream storicista, è in effetti segnata dall’attitudine a presentare il pensiero spinoziano come un’alternativa all’hegelismo. In odio alla dialettica, ma anche come rimedio agli sdilinquimenti post-moderni, Spinoza è parso offrire un modello di pensiero capace di collocarsi in un mondo finalmente copernicano, ‘più grande’ di qualunque coordinata critico-trascedentale o esistenziale-negativa, e in grado pure di catturare quella “commistione fra argomentazione razionale e scuola di vita”, come ha scritto M. E. Scribano, ossia fra ontologia ed etica, che sembra riprendere un altro tratto fondamentale delle preoccupazioni della filosofia contemporanea – quella, almeno, non isterilitasi in inutili formalismi.

Nel fascicolo che presentiamo al lettore qualcosa di questo ampio fascio di problemi e prospettive si può forse cogliere, anche se con accenti di misurata sorvegliatezza e secondo percorsi a volte anche critici rispetto a certe abitudini interpretative, classiche o moderne che siano. È quel che si coglie anzitutto nel saggio che apre il fascicolo. Biagio De Giovanni torna infatti proprio sul confronto fra Spinoza ed Hegel: non però per riproporre lo schema tradizionale di un superamento del primo nel secondo – secondo l’interpretazione suggerita da Hegel stesso e accolta dall’idealismo italiano, da Spaventa a Gentile – ma neppure per disegnare un’opposizione ineludibile tra i due, come nella lettura di Pierre Macherey e in generale in quella linea del marxismo francese, di stampo althusseriano, che mira a riconnettere Marx a Spinoza ‘saltando’ a piè pari la mediazione hegeliana, bensì per presentarli insieme, come “due rappresentazioni della crisi del moderno”, due “filosofi del negativo, della lotta fra adeguato e inadeguato che mai ha termine, e, in forme assai diverse, della potenza del negativo che si porta dietro l’irrequietezza della vita, la quale comprende dentro di sé anche l’esperienza della morte”.

Di un cammino decisamente fuori della tradizione onto-teologica, in particolare nella sua configurazione moderna, parla invece Carlo Sini, che nel primato spinoziano dell’etica vede profilarsi “il destino ultimo della metafisica, ovvero il suo definitivo superamento”, in virtù della crisi dell’ordinamento morale del mondo, di stampo platonico-cristiano, che si profila già in Spinoza e trova infine in Nietzsche il suo definitivo annuncio. Quel primato, l’esigenza pratica di liberazione si svolge nel luogo della teoria solo per “quel tanto che, nonostante la finitudine umana, è indispensabile e sufficiente sapere per un vivere saggio e «adeguato», o adeguatamente felice”.

Non è dunque lo Spinoza consueto quello che così si profila, lo Spinoza del Pantheismusstreit acceso da Jacobi contro Lessing, lo Spinoza che cancella il finito nell’unica sostanza e s’acquieta in un finale sapere assoluto, bensì quello che dal finito e nel finito, secondo dunque la capacità e la misura del ‘modo’, si es-pone con serenità al movimento della vita infinita.

Completano la sezione monografica del fascicolo i saggi di Ramond, Pellecchia e Adinolfi, che toccano punti sensibili dell’attuale confronto con il pensiero spinoziano. Con gli strumenti dell’analisi testuale, Charles Ramond polemizza apertamente con l’idea di Spinoza teorico della rivoluzione, e approda a un’idea della democrazia formale ed esteriore, nient’affatto deleuziano “regno della potenza intensiva”, che contrasta apertamente l’ontologia politica della multitudo. Nel testo di Pellecchia viene invece affrontato uno degli assi portanti dell’antropologia spinoziana, quello che si fonda sulla passione dell’amore, e sul progetto etico di trasformazione che lo conduce sino alla sua dislocazione nella figura culminante dell’amor Dei intellectualis. Lo scrivente, infine, prova a saggiare teoreticamente le forme del rapporto tra ontologia e politica, con particolare riguardo all’infrastruttura concettuale impiegata da Balibar per introdurre la nozione del transindividuale, in un tempo in cui torna forse a riproporsi l’esigenza di connettere la politica con spezzoni di teoria generale della realtà o della storia. Il volume è completato da una lettura di Descartes, volta a saggiare limiti e condizioni dell’”esorcismo” con il quale il cogito, inaugurando la modernità, ha provato ad assicurare se stesso contro la potentia Dei, un movimento di pensiero antipodale rispetto al de Deo con cui comincia Spinoza, che pure non poté non formare il suo linguaggio proprio nel confronto con Descartes – suo contemporaneo capitale, per dirla con Henri Gouhier.

Tutto ciò, naturalmente, con le cautele del caso. È noto che il motto che Spinoza scelse come sigillo della propria corrispondenza recava appunto la parola “caute”. Con la quale forse il pensatore olandese si riferiva meno alla propria attitudine a procedere cautamente – sulla falsariga del larvatus prodeo cartesiano – che all’invito a maneggiare il suo pensiero con tutte le precauzioni necessarie. Non solo perché gravava su di lui il sospetto di ogni possibile nefandezza, tanto che in vita poté pubblicare soltanto i giovanili Principi della filosofia di Cartesio, e, anonimo, il Trattato teologico-politico, ma perché la sua filosofia, ossia l’Ethica, quella filosofia che, sola, intendeva fosse vera e che però sapeva costituire una sfida aperta alla “religione costituita”, non smette ancora oggi di provocare il pensiero.

 

Il manifestante che scuote il mondo

La persona dell’anno, secondo il settimanale Time, sono in tanti. Sono i manifestanti di piazza Tahrir e quelli di Occupy Wall Street; sono gli indignados di Puerta del Sol, e quelli di casa nostra; sono le masse arabe ma anche i giovani occidentali: tutti con la stessa, angosciosa paura di non avere un futuro, o con la stessa, rabbiosa speranza di poterselo nuovamente conquistare. Sono anche quanti protestano oggi contro Putin o contro Assad, a Mosca e a Damasco. Fra poco non ci sarà capitale che non avrà la sua manifestazione (il manifestante è, di regola, un animale di città, nervoso e moderno come lo spazio urbano). Sono, insomma, tutte le figure che assume la protesta oggi: contro i regimi autoritari apertamente antidemocratici, certamente, ma anche contro i regimi fiaccamente democratici, che rischiano di coltivare semi di autoritarismo strisciante.

Sono le voci di una nuova, sacrosanta partecipazione. La persona dell’anno sono, insomma, le moltitudini. Se la si mette così, però, si vede subito che un problema c’è. Per la politica e per le istituzioni. Cioè per quelle forze che nella grande tradizione europea hanno ricevuto il compito di mettere in forma le istanze prepotenti e disordinate dei molti: non per ignorarle o reprimerle, ma per comporle in un quadro compatibile con le ragioni di tutti. Poiché però, negli ultimi tempi, ci siamo baloccati con la gente che ci guarda da casa o con la società civile che lavora e non ha tempo da perdere, con il sì o con il no di sondaggi fatti scrupolosamente al telefono o con utenti, spettatori, consumatori e altre, ordinarie figure dell’interesse privato, non fa meraviglia che questa improvvisa rivitalizzazione della scena pubblica faccia l’effetto di un’esplosione inattesa, scomoda e persino un po’ preoccupante. Trenta e più anni fa (prima della Tatcher, prima di Reagan, prima persino delle tv di Berlusconi) Richard Sennett spiegava perché l’uomo pubblico veniva declinando: e se ci volesse qualcuno che spieghi ora perché prova, confusamente, a ricomparire?

Al tempo delle prime ondate di protesta giovanile, studentesca e operaia, negli anni Sessanta e Settanta, la funzione ordinatrice della politica veniva messa in discussione in quanto pedagogica, paternalistica e anzi, per dirla tutta, repressiva. Non si sapeva allora che era quasi un complimento. Oggi quella stessa funzione, e i partiti chiamati a esercitarla, rischiano di essere rifiutati per nessuna di quelle ragioni ma, più prosaicamente, perché noiosi, asfittici: privi di senso. O, più frequentemente, perché inutili e autoreferenziali: in buona sostanza, perché privi di potere. La critica più severa che alla politica viene dalle manifestazioni sta infatti in ciò, che in tutto il mondo le proteste si svolgono dinanzi ai palazzi del potere politico solo quando non c’è il Parlamento. Quando il Parlamento invece c’è si manifesta lo stesso, però da un’altra parte: davanti a vecchi taccuini e nuove digital camera, o di fronte alle banche e ai templi della finanza.

La copertina del Time premia così il nuovo che cerca di erompere di sotto alla scorza di un mondo destinato, forse, a perire: sicuramente a cambiare profondamente. Ma il nuovo, lo sappiamo dal tempo delle operette morali di Leopardi, significa anche, molto impoliticamente, quello che è alla moda. C’è in effetti una inconfessabile solidarietà fra i manifestanti che invadono le strade tutti colorati e le esigenze spettacolari dei media, così come c’è fra i «tempi» degli uni e degli altri. Che sono brevi, improvvisi, intermittenti. Buoni per l’interdizione, un po’ meno per la costruzione.

Ma è sempre la stessa storia. Può darsi che suoni ripetitiva come tutte le morali delle favole, e figuriamoci se si può far la morale a un manifestante. Ma al fondo non si tratta che di quello: di inventarsi sì nuove forme di partecipazione, ma poi anche di dare ad esse prospettiva e durata. La buona notizia, comunque, resta che il bisogno di politica non scompare dalla vita degli uomini, neanche dopo trent’anni di declino. E neanche col più impeccabile dei governi tecnici.

L’Unità, 15 dicembre 2011

Il campo di gioco

Quello che vedete sopra è il campo di gioco: pochi chilometri, fra Baronissi e Fisciano. Nel turno preliminare, cioè stamattina, ho dovuto semplicemente portare i bambini a scuola, fare la spesa, cucinare. Poi il gioco s’è fatto duro, e ho dovuto giocarmela.

13.25: prendere Enrico a scuola.

13.40: pranzo. A seguire: sparecchiare, preparare le borse.

15.10: prendere Mauro a scuola.

15.45: portare Enrico a scuola calcio. A seguire: portare Renata e la cuginetta a scuola di inglese.

16.00: con Mauro, a scuola di Renata per i colloqui scuola/famiglia. Totalizzare 6 colloqui in un’ora (un’ottima prestazione, dovuta a colpo dì’occhio e attenta valutazione delle code di genitori fuori dalle aule)

17.00: portare Mauro in piscina (sconfinamento nel territorio di Fisciano)

17.30: prendere Enrico a scuola calcio.

17.40: prendere Renata e la cugina a scuola inglese.

17.50: portare a casa Enrico, Renata e la cugina.

18.00: primo tentativo nel negozio di giocattoli per acquisto regalo all’amico di Mauro, che stasera festeggia

18.10: secondo tentativo, questa volta riuscito, di acquisto giocattolo in un altro negozio.

18.20: parcheggio spericolato e corsa affannosa per arrivare in tempo in piscina, trovare mauro (opportunamente catechizzato) in attesa sotto la doccia. Doccia e tutto il resto.

18.40: portare Mauro alla festa dell’amichetto

19.00: portare la cuginetta a casa della nonna, ritirare bocconcini per la cena

19.15: doccia a Enrico. Preparare cena. riferire al telefono alla moglie dell’esito dei colloqui coni professori (tutto bene! tutto bene!)

19.45: cena

20.20: svuotare e sistemare borsa di calcio di Enrico, svuotare e sistemare borsa di piscina di Mauro. Sparecchiare.

21.00: prendere Mauro. Di seguito. Mettere a letto i bambini, raccontare storia.

Nella notte la partita si giocherà se e solo se Mauro si farà pipì sotto. Per scongiurare la circostanza, sono previste due sveglie: una a mezzanotte, l’altra alle cinque.

Il presente post si intende scritto a futura memoria: quando i figli ormai grandi si lamenteranno di un padre assente, saranno indirizzati a questo link.

La nuova Europa e le paure del Pd

(O anche: Idee e temi per l’Europa)

In cerca di conforto, ho aperto un libro, ma non dico subito quale per dare a tutti il medesimo sollievo. Vi ho trovato infatti la seguente affermazione: “La politica di una nazione non può essere condotta come un seminario di filosofia”. Siamo tutti d’accordo, credo; e la precisa consapevolezza che non è mai il momento di meri dibattiti accademici può aiutare particolarmente, in frangenti in cui le decisioni di un governo di professori devono maturare nel giro di pochi giorni, sotto la pressione dei mercati e il rischio concreto di fallimento: dell’Italia e dell’euro. Poi una seconda affermazione, nella stessa pagina: “Nel nostro paese il dibattito politico non raggiunge nemmeno il livello accettabile per una scuola superiore”. Seguono esempi; ma siccome non si parla dell’Italia, e siccome vale il vecchio adagio per cui un mal comune procura almeno mezzo gaudio, possiamo consolarci. E, soprattutto, collocarci: in mezzo tra il rigoroso convegno scientifico e l’arrabbiata assemblea studentesca.

È bene però sapere che un simile spazio non esaurisce affatto il dibattito pubblico. In termini politici si dirà: tanto il Pd quanto il Pdl avranno sempre, al loro lato, opinioni e forze che, dal punto di vista della loro collocazione, si situano alle estreme, e che proprio per questo possono coltivare irresponsabilmente tanto le teorizzazioni più astratte quanto gli atteggiamenti più protestatari. La fisiologia dei sistemi politici vorrebbe che il compito dei partiti maggiori fosse proprio quello di assorbire le spinte estremistiche. Mentre però nel corso della prima Repubblica la Dc e il Pci (i partiti-sistema) hanno svolto efficacemente questa funzione, non si può dire altrettanto dei loro succedanei durante la seconda Repubblica. Forse, la recente religione del maggioritario andrebbe giudicata anzitutto per la prova che ha dato su questo terreno.

Oggi si apre una fase nuova. Cosa ci sia a destra del governo Monti, con la rottura fra Pdl e Lega (e lo sbianchettamento del berlusconismo) si è fatto abbastanza chiaro, fra populismi, antieuropeismi e persino secessionismi che tornano ad esprimersi senza troppi infingimenti. Ma anche a sinistra c’è un vasto mondo di idee che la postura istituzionale del Pd relega inevitabilmente ai margini. O almeno: questo dovrebbe fare il Pd, senza paura, rivendicando con convinzione il proprio ruolo nazionale ed europeo. Facendone un punto di forza, non di debolezza. Non si agitano infatti alla sua sinistra bandiere improbabili come il diritto alla bancarotta o riti apotropaici come la maledizione dell’euro? La decrescita felice di cui si favoleggia nei collettivi di sinistra non è l’opposto speculare dell’austerità espansiva che si sono inventati fior di economisti a destra? Non c’è infine da evitare il rifiuto manicheo del dio malvagio della finanza, ma anche il rischio che, prima o poi, dopo il salario, spunti fuori la pensione come variabile indipendente?

Il fatto è che, dentro i vincoli dell’Unione, diverse idee di Europa sono possibili: non occorre affatto divincolarsi del tutto, per essere coerenti (e perdenti); si può invece elevare il dibattito pubblico all’altezza di quelle idee diverse. Messe le cose in questa prospettiva, posso quindi rivelare di quale libro si trattasse, all’inizio: de La democrazia possibile. L’autore è il filosofo liberal Ronald Dworkin, e il paese di cui si parla è l’America. È in America che Dworkin lamenta l’assenza di un dibattito pubblico degno di questo nome. Ed è in America che, per esempio, Dworkin non riesce a spiegare che una politica che abbia i titoli democratici in ordine è quella che si domanda: “che politica fiscale deve adottare un governo che intende riservare un uguale trattamento a tutti i suoi membri?”. Ed è sempre agli americani che Dworkin vorrebbe far capire che gli argomenti con i quali si sostiene che il reddito non ancora tassato è tutto di chi lo produce “mancano di coerenza”. Figuriamoci la coerenza: ci vuole troppa filosofia! Ma l’idea di Dworkin è che la distribuzione della ricchezza, come i diritti umani o il ruolo della religione nella sfera pubblica, sono temi che possono stare ben dentro il dibattito democratico, non solo nelle aule universitarie o nei collettivi studenteschi. Siccome alcuni di questi temi negli ultimi anni ne sono fuoriusciti, ad agitarli sembra ora che si pecchi di velleitarismo o di infantilismo.  Non è così. Ma siccome questi temi debbono rientrarvi, è bene separarli da quelli che, invece, ci terrebbero fuori dall’Europa.

Il Mattino, 12 dicembre 2011

Culture e luoghi: sentirsi europei ma non abbastanza

“L’importanza esagerata che si dà al fatto di trovarsi in un luogo piuttosto che in un altro risale all’età delle orde di nomadi, quando bisognava tener bene a mente dov’erano i terreni da pascolo”. Volete sapere cos’è l’Europa? A occhio e croce: l’unico luogo in cui possano nascere simili pensieri, l’unico luogo in cui qualcuno può pensare (e quel qualcuno è uno dei più grandi scrittori del ‘900, Robert Musil) che non conta in quale luogo si viva, si lavori, si scrivano libri come «L’uomo senza qualità», frutto tra i più alti del genio europeo. L’unico luogo in cui si possa sperimentare una così profonda contraddizione performativa, per cui si pensa che non conta ciò che solo conta per nutrire siffatti pensieri: l’essere europei, l’appartenere non semplicemente ad una nazione, ad un terreno da pascolo o a una stirpe di guerrieri, ma ad un vincolo anzitutto ideale e intellettuale.

Musil, «L’uomo senza qualità», e una città in surplace, Vienna, osservata un minuto prima che la catastrofe dei nazionalismi travolgesse l’Impero austro-ungarico, la stranissima creatura politica del passato che ancora sopravviveva nel cuore del continente, agli inizi del ventesimo secolo. Di essa, e dei favoriti dell’imperatore Francesco Giuseppe, non si può avere alcuna nostalgia: da essa, come dalla giornata da cui inizia il romanzo, non poteva ricavarsi più nulla. Ma quella condizione inutile ed eccezionale – proprio nel senso in cui poteva allora costituire un’eccezione incomprensibile il coacervo di popoli e lingue che formava l’Impero  – torna in mente ogni volta che l’Unione europea, che di popoli e lingue ne mette insieme anche di più, prova a muovere un passo in direzione di una maggiore integrazione, e a dotarsi di un profilo più netto, di un’identità più robusta.

Nel provare a definire i contorni dell’identità europea, il filosofo che più di ogni altro vi ha riflettuto sopra, il tedesco Jürgen Habermas, ha indicato sette caratteristiche fondamentali: la secolarizzazione, lo Stato prima del mercato, la solidarietà prima dell’efficienza, un certo scetticismo nei confronti della tecnica, la consapevolezza dei paradossi del progresso, il ripudio del diritto del più forte, il pacifismo come conseguenza dell’esperienza storica delle guerre europee e mondiali. Queste caratteristiche hanno qualcosa in comune: si mantengono tutte in un rapporto di tensione, se non di aperta contraddizione, con le tendenze fondamentali del nostro tempo. Ciò è evidente quando Habermas parla di paradossi del progresso (della dialettica dell’illuminismo, per dirla con Horkheimer e Adorno), ma è implicito in ogni punto del suo elenco. Nella secolarizzazione, per esempio, che non può più essere assunta come un processo unico e irreversibile. Ma soprattutto: cosa sono il mercato, l’efficienza e la tecnica se non gli imperativi della nostra epoca, le onde d’urto che investono con forza inusitata i pilastri della costruzione europea? E tuttavia, se vuole essere Europa, l’Unione è chiamata a comporle con le istanze che ad esse fanno attrito. L’Europa è tale se mantiene un punto di vista critico sui progressi della tecnica, senza cadere nell’oscurantismo; se difende il modello sociale di mercato e dunque la solidarietà, senza lasciarsi travolgere dall’inefficienze o dai debiti; se riesce a difendere gli spazi politici della democrazia finora assicurati dentro i confini statali, senza assumere gli scambi e il mercato come verità finale dei rapporti fra gli uomini (e senza rinunciare a legittimare i processi politici in maniera democratica, invece di accontentarsi di accordi intergovernativi). E anche nelle relazioni internazionali, nell’arena mondiale in cui l’Unione deve ritagliarsi un profilo geopolitico forte, l’essere europei comporta un’idea tendenzialmente cosmopolitica del diritto o della pace, o almeno una scelta per il multipolarismo, che costituisce la sua vocazione specifica, benché sempre problematica.

La contraddizione più forte è però proprio nell’esperienza del luogo, contraddizione che lo spirito europeo ha già nella sua prima radice greca. Chi non ricorda il paradosso di Epimenide cretese, il quale soleva dire che tutti i cretesi mentono, rendendo inassegnabile il valore di verità o di falsità della sua stessa affermazione? Proprio di questo si tratta, quando un europeo dice che il luogo non conta. Il problema che è toccato allo spirito europeo è di costruire proprio quel luogo, in cui non conta essere di quel luogo. Un luogo siffatto è, in generale, lo spirito e, in senso universale, la civiltà. Ma proprio essa è una creazione originale del pensiero europeo, e del suo concerto di nazioni. Il quale si trova dunque sempre su un sottile crinale, stretto fra universalismi e particolarismi, fra inclusioni ed esclusioni, voti e veti. È questa tensione non risolta né risolubile che ha reso particolarmente complessa, sempre indifferibile e sempre differita, la costruzione europea, ben più che non la formazione degli altri grandi spazi mondiali, come la Cina o l’America.

Nell’ora difficile che oggi vive l’Unione europea, questo essere in tensione si avverte particolarmente. Di fronte alle sfide portate dalla globalizzazione, grande è il pericolo che la tensione si allenti, e che l’intero progetto europeo si ridimensioni. Ma è bene sapere che se è vero che quel progetto sopporta una contraddizione, è anche vero che scioglierla ha voluto dire, in passato, patire il contraccolpo più violento, e lo scatenamento delle orde più ferocemente attaccate alla terra.

L’Unità, 11 dicembre 2011

Intellettuali? Mettiamoli a fare ceste

Che cos’è fare cultura? Intrecciare cesti. C’è qualcuno, che non sia un antropologo, che provi ancora a dare una definizione di cultura? Probabilmente no, perciò prendiamo per buona la proposta dell’antropologo britannico Tim Ingold: non c’è un immagine migliore del rapporto con l’oggetto culturale e con le esperienze connesse di una delle prime pratiche di vita umana: intrecciare cesti, annodare fibre, tessere legami tra un dentro e un fuori, un diritto e un rovescio, come si fa fabbricando cesti. Il mondo intero non è che questa enorme e paziente tessitura, che attraversa l’alto e il basso, il pubblico e il privato, il visibile e l’invisibile, gli uomini e gli dei.
E c’è un modo migliore per riprendere la polverosa questione dell’intellettuale? Viviamo infatti un paradosso: la crisi che stiamo attraversando è anche una crisi di categorie economiche, modelli di pensiero, condizioni di intellegibilità storica. Tuttavia di voci critiche non se ne ascoltano poi molte – di voci, beninteso, che accettino di intrecciarsi nel mondo e col mondo, di contaminarsi con le grandezze politiche in campo, di non compiacersi del proprio radicalismo intellettuale; voci che siano disposte, per dirla con buon senso, a dare una mano a un paese troppo lungo, come lo descrive Giorgio Ruffolo, o troppo sfilacciato. Un paese che di stringere nodi, legami, reti di solidarietà, ha oggi particolarmente bisogno. Intellettuali, insomma, non anime belle o uomini del ressentiment.
Prevalgono infatti a sinistra per lo più due atteggiamenti, legittimi ma poco generosi: da un lato la nobile indignazione, dall’altro il più rassegnato degli scetticismi. Ma sono due facce, l’una pubblica l’altra privata, l’una tutta mediatizzata l’altra tutta individualizzata, della stessa, logora medaglia. Nell’una e nell’altro caso, si mantiene infatti la medesima, profonda diffidenza nei confronti della politica (di cui peraltro si teorizza spesso la fine o la trasvalutazione in forme dai contorni ancora imprecisati). La quale politica di suo fa molto per meritarsi giudizi sprezzanti o sdegnati, per deludere aspettative o frustrare speranze, ma non abbastanza da giustificare l’esodo delle intelligenze (e pure delle generazioni) che ne impoverisce la tempra. Un paese è grande se la sua politica è grande. Ma vale lo stesso anche per la sua cultura. Certo, il tempo dell’intellettuale come rappresentante dell’universale è ormai tramontato, ed è difficile che possa ritornare. Ma significa questo che non vi sono più questioni generali da ripensare, bensì solo problemi particolari da risolvere? Non bisogna crederlo.
Viene utile invece la vecchia allegoria di Francis Bacon: ci sono le formiche che, dotate di sano empirismo, accumulano e mettono da parte, ma non investono nulla di proprio, vanno in giro per il mondo ma lo prendono così com’è, e non modificano di un’oncia le condizioni date; poi ci sono i ragni, che sono tutta teoria e non conoscono altro scenario se non quello partorito dalla loro testa, in cui peraltro finiscono col rimanere invischiati. Ma la specie di intellettuali di cui ci sarebbe bisogno dovrebbe avere piuttosto la laboriosità delle api: stare ai fatti slogati del mondo, e tuttavia rivisitarli criticamente e comporli in un progetto di cambiamento, e in un disegno complessivo di vita in comune.
Gli Stati generali della cultura del partito democratico possono svolgere una funzione importante sotto più di un aspetto: possono mettere al centro della proposta di Paese del pd – proposta, idea del Paese, non semplicemente proposta di governo – le infrastrutture culturali e della conoscenza di cui l’Italia ha bisogno per rimanere a galla, dopo anni non semplicemente di riduzioni di spesa, ma spesso e volentieri di irrisione della funzione stessa della cultura. E possono in secondo luogo indicare i luoghi reali e le condizioni materiali su cui questa proposta deve camminare. Le idee camminano sulle gambe degli uomini, infatti: ma le strade? Le cose non stanno solo così, come se noi facessimo strade perché abbiamo le gambe, ma anche al modo opposto: solo dove ci sono strade, infatti, c’è motivo per inventarsi le gambe. Fuor di metafora: senza archivi, biblioteche, teatri, a chi verrebbe mai in mente di produrre e – come oggi si dice – di consumare cultura?
I beni culturali sono per di più, per usare ancora il lessico dell’antropologia, zone di sviluppo prossimale del soggetto, luoghi di cittadinanza: sono i posti e le cose a partire da cui si delineano i compiti di una comunità nazionale. Hanno un valore culturale inestimabile, ma hanno un valore civile e nazionale ancora più cospicuo, e per giunta intraducibile in termini economici. Richiamare questo valore significa dunque difendere una certa idea dello spazio pubblico, riprendere le fila di un discorso critico, e creare infine un ponte tra il passato e il futuro. O almeno: provare a intrecciare anche quelli, invece di rassegnarsi al declino.

L’unità, 4/12/2011