Intellettuali? Mettiamoli a fare ceste

Che cos’è fare cultura? Intrecciare cesti. C’è qualcuno, che non sia un antropologo, che provi ancora a dare una definizione di cultura? Probabilmente no, perciò prendiamo per buona la proposta dell’antropologo britannico Tim Ingold: non c’è un immagine migliore del rapporto con l’oggetto culturale e con le esperienze connesse di una delle prime pratiche di vita umana: intrecciare cesti, annodare fibre, tessere legami tra un dentro e un fuori, un diritto e un rovescio, come si fa fabbricando cesti. Il mondo intero non è che questa enorme e paziente tessitura, che attraversa l’alto e il basso, il pubblico e il privato, il visibile e l’invisibile, gli uomini e gli dei.
E c’è un modo migliore per riprendere la polverosa questione dell’intellettuale? Viviamo infatti un paradosso: la crisi che stiamo attraversando è anche una crisi di categorie economiche, modelli di pensiero, condizioni di intellegibilità storica. Tuttavia di voci critiche non se ne ascoltano poi molte – di voci, beninteso, che accettino di intrecciarsi nel mondo e col mondo, di contaminarsi con le grandezze politiche in campo, di non compiacersi del proprio radicalismo intellettuale; voci che siano disposte, per dirla con buon senso, a dare una mano a un paese troppo lungo, come lo descrive Giorgio Ruffolo, o troppo sfilacciato. Un paese che di stringere nodi, legami, reti di solidarietà, ha oggi particolarmente bisogno. Intellettuali, insomma, non anime belle o uomini del ressentiment.
Prevalgono infatti a sinistra per lo più due atteggiamenti, legittimi ma poco generosi: da un lato la nobile indignazione, dall’altro il più rassegnato degli scetticismi. Ma sono due facce, l’una pubblica l’altra privata, l’una tutta mediatizzata l’altra tutta individualizzata, della stessa, logora medaglia. Nell’una e nell’altro caso, si mantiene infatti la medesima, profonda diffidenza nei confronti della politica (di cui peraltro si teorizza spesso la fine o la trasvalutazione in forme dai contorni ancora imprecisati). La quale politica di suo fa molto per meritarsi giudizi sprezzanti o sdegnati, per deludere aspettative o frustrare speranze, ma non abbastanza da giustificare l’esodo delle intelligenze (e pure delle generazioni) che ne impoverisce la tempra. Un paese è grande se la sua politica è grande. Ma vale lo stesso anche per la sua cultura. Certo, il tempo dell’intellettuale come rappresentante dell’universale è ormai tramontato, ed è difficile che possa ritornare. Ma significa questo che non vi sono più questioni generali da ripensare, bensì solo problemi particolari da risolvere? Non bisogna crederlo.
Viene utile invece la vecchia allegoria di Francis Bacon: ci sono le formiche che, dotate di sano empirismo, accumulano e mettono da parte, ma non investono nulla di proprio, vanno in giro per il mondo ma lo prendono così com’è, e non modificano di un’oncia le condizioni date; poi ci sono i ragni, che sono tutta teoria e non conoscono altro scenario se non quello partorito dalla loro testa, in cui peraltro finiscono col rimanere invischiati. Ma la specie di intellettuali di cui ci sarebbe bisogno dovrebbe avere piuttosto la laboriosità delle api: stare ai fatti slogati del mondo, e tuttavia rivisitarli criticamente e comporli in un progetto di cambiamento, e in un disegno complessivo di vita in comune.
Gli Stati generali della cultura del partito democratico possono svolgere una funzione importante sotto più di un aspetto: possono mettere al centro della proposta di Paese del pd – proposta, idea del Paese, non semplicemente proposta di governo – le infrastrutture culturali e della conoscenza di cui l’Italia ha bisogno per rimanere a galla, dopo anni non semplicemente di riduzioni di spesa, ma spesso e volentieri di irrisione della funzione stessa della cultura. E possono in secondo luogo indicare i luoghi reali e le condizioni materiali su cui questa proposta deve camminare. Le idee camminano sulle gambe degli uomini, infatti: ma le strade? Le cose non stanno solo così, come se noi facessimo strade perché abbiamo le gambe, ma anche al modo opposto: solo dove ci sono strade, infatti, c’è motivo per inventarsi le gambe. Fuor di metafora: senza archivi, biblioteche, teatri, a chi verrebbe mai in mente di produrre e – come oggi si dice – di consumare cultura?
I beni culturali sono per di più, per usare ancora il lessico dell’antropologia, zone di sviluppo prossimale del soggetto, luoghi di cittadinanza: sono i posti e le cose a partire da cui si delineano i compiti di una comunità nazionale. Hanno un valore culturale inestimabile, ma hanno un valore civile e nazionale ancora più cospicuo, e per giunta intraducibile in termini economici. Richiamare questo valore significa dunque difendere una certa idea dello spazio pubblico, riprendere le fila di un discorso critico, e creare infine un ponte tra il passato e il futuro. O almeno: provare a intrecciare anche quelli, invece di rassegnarsi al declino.

L’unità, 4/12/2011

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