Formidabile quest’anno. Cominciato con le celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia e la vigorosa riscoperta del sentimento nazionale, si affretta verso la conclusione con la sensazione che nulla è scontato, nemmeno la coesione nazionale. Cominciato con la memoria dell’Italia che ce l’ha fatta, si conclude con i dubbi e gli interrogativi sull’Italia che ce la può, perché ce la deve, fare. Cominciato con un governo, finisce con un altro, ma l’impressione è che in gioco ci sia molto più che non la durata di un esecutivo; che in via di definizione sia l’assetto dell’intera legislatura prossima ventura e forse di un’altra Italia, quella che verrà fuori dalla crisi della seconda Repubblica.
All’orizzonte, ovviamente, non c’è nessun Napoleone, e quindi è difficile entusiasmarsi (o atterrirsi) per l’incedere dello spirito del mondo a cavallo, come accadeva a Hegel poco più di duecento anni fa. Però è indubbio che qualcosa si è messo in moto, e che quel che si è messo in moto ha la forza di un mutamento storico. Sembra proprio che la storia, con buona pace di Fukuyama che ne aveva celebrata festosamente la fine, non sia ancora giunta all’happy end. Tutt’altro.
Orbene, con quali strumenti è possibile affrontare cambiamenti di così ampia portata, quali quelli che si annunciano per gli anni a venire? In Italia, da qualche turno elettorale in qua, quel che ci è rimasto dei partiti si sforza di trovare il proprio ubi consistam intorno a una cosa chiamata programma. Ma il programma di un partito, ormai privo di un chiaro profilo culturale e ideale, non è molto diverso da un decreto mille-proroghe: si riempie delle istanze più diverse, per mera accumulazione. Per dare unità a quello che altrimenti sarebbe solo un disparato elenco di cose da fare, si è pensato di investire sulla comunicazione. Anche se a monte non c’è più nulla, o forse proprio per questo, qualcuno avrà pensato: facciamo comunque in modo che ci sia qualcosa a valle. E siccome comunicare è, anzitutto, semplificare, quale migliore semplificazione del partito personale? Questo processo si è quindi presentato nella forma più pura là dove non è stato affatto il partito a cercarsi un leader, bensì piuttosto il leader a dotarsi di un partito.
Ora, nessuno rimpiange sintesi ideologiche capaci di chiamare in causa l’interpretazione del corso del mondo anche quando si trattava di parchi marini o di dimensioni e colori dell’etichettatura merceologica, ma è chiaro che se davvero è in gioco la tenuta del paese, il senso stesso della presenza dell’Italia in Europa e un riallineamento geopolitico di portata globale, solo una forza (e una nazione) che abbia cultura politica e senso storico può farcela.
A Hegel toccò una volta di dover rispondere, in aula, a un certo signor Krug, che gli aveva chiesto di dedurre dal sistema della filosofia – se poteva – la sua penna. Hegel non si scompose. Replicò che lo si sarebbe potuto anche fare, non prima però di essersi occupati di tutto ciò che in cielo e in terra vi è di più importante della penna del signor Krug. Guai dunque a rispolverare vecchi dogmatismi e intollerabili spiriti di sistema; e dunque: niente presunzioni intellettuali o, peggio, fanatismi ideologici. Ma non è indispensabile avere ancora partiti capaci di definire il senso delle priorità nazionali, la misura di una sfida di portata epocale, e i punti in cui la teoria deve tornarsi ad applicarsi alla realtà storica? Noi ci troviamo in uno di questi punti, in uno di questi tornanti. Lo diceva anche il ministro Tremonti, la bellezza di un anno e mezzo fa: “L’intensità del fenomeno che viviamo è storica e ha modificato tutti i paradigmi, dalla politica all’economia. Non siamo dentro una congiuntura ma in un tornante della storia. È difficile da commentare standoci dentro”. E infatti è stato sbalzato fuori. Ma pochi si possono permettere di fare dell’ironia, perché tutti rischiano di fare la stessa fine, senza un’adeguata consapevolezza di ruoli e compiti.
È inevitabile: in una crisi si entra in un modo, si esce in un altro. L’unica differenza la fa la capacità di orientare i cambiamenti, e non semplicemente di subirli. I partiti che verranno saranno quelli che, senza più alleggerimenti o imbellettamenti postmoderni, in mezzo o alla fine ci saranno riusciti.
Il mattino, 23 dicembre 2011