Archivi del mese: gennaio 2012

Negazionismo demolito dai quattro scatti di Alex

“Urgente. Inviate il più rapidamente possibile due rullini di pellicola in metallo per macchina fotografica 6×9. Possiamo fare foto”: possiamo fotografare l’orrore, possiamo inviare scatti da Birkenau. Possiamo, perché lo abbiamo fatto: Alex, un ebreo greco membro dei Sonderkommando – le squadre speciali che gasavano i detenuti del campo di sterminio – nascosto proprio dentro le camere a gas appena svuotate, è riuscito a fotografare le fosse di incinerazione e i suoi compagni di lavoro mentre si muovono macabri fra i cadaveri. Il biglietto della resistenza polacca e i quattro scatti di Alex sono giunti fino a noi, infilati in un tubetto di pasta dentifricia. Noi, perciò, lo sappiamo: le camere a gas sono esistite, lo sterminio di massa è stato compiuto. E in verità esiste ormai una documentazione imponente: non solo i quattro pezzi di pellicola strappati all’inferno, come li ha definiti Didi-Huberman, ma documenti, testimonianze, ritrovamenti. Non solo non c’è spazio alcuno per il dubbio, ma non c’è modo di considerare una semplice opinione quella di chi, nonostante tutto, nega la Shoah.

Contro il negazionismo Donatella Di Cesare ha  scritto il suo ultimo libro, teso e fermo, Se Auschwitz è nulla, per richiamare l’attenzione su un fenomeno che non ha nulla di intellettualmente presentabile, nulla di storicamente valido, nulla di politicamente accettabile, e che tuttavia non cessa di presentarsi in forme che non offendono solo la memoria delle vittime, ma minacciano l’identità stessa dell’Europa democratica: ricostituitasi, come dice Di Cesare, “sulla cenere, su un luogo, fragile e friabile, come le pagine dei libri dati ai roghi”.

Ma come fanno a negare coloro che negano? Jean Francois Lyotard lo ha spiegato esponendo l’ignobile sofisma del negazionista Faurisson, il quale aveva scritto: “Ho cercato, invano, un solo ex deportato capace di provare che aveva realmente visto, con i suoi occhi, una camera a gas”. Ecco come fa, il buon Faurisson: per avere visto e provare che le camere davano la morte, occorre essere morti. Se si è morti, si può testimoniare che quelle che si sono viste sono effettivamente camere a gas, che è Ziklon B il gas che vi viene iniettato, che sono forni crematori quelli in cui le vittime vengono bruciate. La testimonianza del sopravvissuto, in quanto è un sopravvissuto, non è probante e non basta; la sua memoria non vale.

E invece vale. Vale ed è la cosa più preziosa. Vale anzitutto per smascherare quelli come Faurisson, o come David Irving, gente che sotto una lacca di rispettabilità scientifica non si limita a instillare dubbi, ma finisce con l’assecondare di fatto il progetto genocidiario di uno spazio judenrein, depurato dagli ebrei.

Cosa infatti negano coloro che negano, se non che vi siano tracce dei crimini commessi? Essi negano cioè proprio quello che i nazisti volevano cancellare. Nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Nel negare l’accaduto, i negazionisti – accusa Di Cesare – proseguono l’opera: “sorvolano i lager per accertarsi che la terra si sia chiusa definitivamente e il fumo si sia disperso”. Ogni domanda sulla memoria della Shoah deve dunque partire dal fatto che, serbandola, si impedisce che svanisca anche la cenere di coloro che passarono per i camini. Per questo, abbiamo la risposta alla domanda di Adorno se sia possibile poesia dopo Auschwitz. E sappiamo anche se davvero Auschwitz sia stato un orrore così grande da essere indicibile. “La lotta contro i negazionisti sarebbe già persa, se si concedesse l’indicibilità di Auschwitz”, scrive infatti Di Cesare. E dire Auschwitz, spiegare, comprendere, non vuol dire né giustificare né banalizzare o relativizzare, ma ricordare e vigilare.

La vigilanza deve però essere affidata alla memoria collettiva, e non semplicemente al ricordo individuale. Perché la memoria non è solo la registrazione obiettiva dei fatti, ma anche il debito di giustizia nei confronti di coloro che sono morti, e che purtroppo, come diceva Benjamin, neppure da morti possono sentirsi al riparo dall’affronto dell’oblio.

Perché negano, infatti, coloro che negano? Non certo per stabilire come davvero andarono le cose, ma per farle andare ancora oggi in una certa maniera. Il negazionismo non è un incomprensibile rigurgito del passato; è anche un pericolo nel presente. Cosa ha spinto difatti Ahmadinejad a organizzare una conferenza sull’Olocausto, se non l’intenzione di togliere a Israele la religione della memoria, e minarne così la legittimità? Ma noi sappiamo: Auschwitz è esistita, Birkenau è esistita. E lo sterminio di ebrei (di zingari, di omosessuali, handicappati, nemici politici) chiama non Israele ma l’Europa intera, tutti noi, l’umanità stessa, a ricordare e tramandare per poter ancora vivere con dignità. Noi lo sappiamo: ci sono le foto, e ci siamo noi.

L’Unità, 27 gennaio 2011

L’Italia-Panda di Marchionne

La Fiat riparte da uno spot. Per il lancio della nuova Panda,
l’azienda torinese confeziona novanta secondi sull’Italia che piace,
scatta la sua fotografia del paese e sovraimprime ad essa la nuova
utilitaria «squircle»: un po’ tonda un po’ quadrata, come se a
Marchionne fosse riuscito finalmente di quadrare il cerchio. E siccome
lui è uomo del fare, impacchetta il tutto con parole che più
pragmatiche, anzi pragmatiste, non si può: «le cose che costruiamo ci
rendono ciò che siamo». Tanto di cappello: a Torino, il pragmatismo lo
conoscono. Da lì veniva il primo filosofo pragmatista italiano,
Giovanni Vailati, che nel 1899 – proprio l’anno della nascita della
Fabbrica italiana di Automobili – lascia l’università e si trasfersce
al sud, dove prova a gettare il seme di una proposta filosofica
inedita in Italia, ma già diffusa in America. Il seme non attecchirà:
un po’ perché Vailati morirà prematuramente, un po’ perché il paese
prenderà di lì a poco ben altra piega (alla quale Agnelli, fatto
senatore, aderirà). Ma poco più di un secolo dopo, grazie alla
fabbrica torinese – oggi un po’ meno di Torino e dell’Italia, un po’
più di Detroit e dell’America – quel seme viene piantato nuovamente al
sud: negli stabilimenti di Pomigliano, dove si produce la nuova Panda.
E siccome dal punto di vista pragmatista la verità è negli effetti che
produce, vediamo pure, in omaggio a Vailati e allo slogan, lo spot che
effetto fa.
Si comincia con rumori di fabbrica e operai al lavoro. Una voce
paterna e rassicurante, un filo autoritaria ma comunque benevola,
domanda quante Italia conosciamo. Presenta quelle di maniera, l’Italia
dei talenti e dell’inventiva, dell’intramontabile genio italico, ma
poi arriva al dunque: è il momento di decidere, di rimboccarci le
maniche, ci vogliono grandi imprese industriali per tirarci fuori dai
luoghi comuni e darci ancora un futuro. Ci vuole una nuova Panda tutta
rossa, insomma, e la voce conclude: «questa è l’Italia che piace».
Ora, la domanda di schietto tono pragmatista non può non essere: che
piace a chi, di grazia? A chi deve piacere l’Italia? Nei pragmatici
anni Ottanta andava molto lo slogan «piace alla gente che piace», che
aveva almeno il pregio di dire a chi si doveva piacere. Qui, è da
presumere, non lo si può dire a chiare lettere, con la stessa forza
stereotipata dei Pulcinella, del Vesuvio e delle caffettiere che nello
spot scorrono a rappresentare il passato, perché altrimenti si sarebbe
dovuto dire: ai padroni. O almeno ai committenti. Meglio, dunque,
glissare, così che si possa intendere: ai mercati, agli investitori,
all’America. Come se per far bene le cose ed entrare nel futuro
l’Italia dovesse mollare la zavorra di un passato irredimibile, tutto
maschere e folclore e pause caffè.
Insomma: la posizione di Vailati nella cultura filosofica del ‘900 è
ancora discussa, ma la posizione che l’Italia ha nell’ideologia
pubblicitaria targata Fiat non dà adito a dubbi. La voce fuori campo
sa essere morbida e suadente, ma il pragmatismo veicolato
dell’americano Marchionne suona invece molto poco filosofico e molto,
decisamente molto, spiccio.

L’Unità, 23 gennaio 2012

Gli astrologi sconfitti dai creduloni

(questo articolo è apparso sul Mattino il 4 gennaio 2012)

Fare pronostici per l’anno che verrà potrebbe essere un’operazione inutile, dal momento che la madre di tutte le previsioni, quella ricavata in base a complicati calcoli dalla sapienza astrologica del popolo Maya, dice che, con il 2012, il mondo finirà. Un così fosco presagio renderebbe inutile lo sforzo di risanamento del governo Monti, ma anche quelli del Napoli per entrare in Champions League: non, però, l’obiettivo di andare il più avanti possibile nell’edizione di quest’anno, perché i Maya fissano l’apocalisse a dicembre. Non c’è dunque il rischio che la finale non si giochi per impraticabilità del mondo.
Le previsioni che ci interessano per davvero sono, però, altre. Sono anzitutto quelle che rammodernano le vecchie formule di scongiuro e le risorse così rassicuranti del rito. In mancanza di cerimonie cosmogoniche e altri culti di grande formato, ormai ci accontentiamo di piccole superstizioni tradizionali. Così, se nel cenone di fine anno mangiamo piatti ricchi di lenticchie, è perché portano soldi: non è ben chiaro come facciano, ma ci piace pensarlo. Naturalmente, non c’è nessuno che giurerebbe che i simpatici legumi abbiano questo fantastico potere, ma ciò non diminuisce lo zelo (e il cotechino) con cui le serviamo a tavola. Quel che ci serve, infatti, è ancora e sempre di disporre di qualche mossa ben eseguita per mettere sotto controllo il caso. Ed è un bisogno così fondamentale che anche quando si è perso completamente il nesso con il successo dell’operazione, noi ripetiamo gli stessi gesti apotropaici o augurali, che ci crediamo o meno. La funesta previsione Maya serviva probabilmente allo stesso scopo: non a fasciarsi il capo prima di esserselo rotto, ma a togliere incertezza sulla maniera di regolarsi nei casi della vita. Come quando c’è un morto in casa: tutti sanno cosa c’e da fare e come comportarsi, tutti si muovono nel modo giusto e ben ordinato.
Le previsioni che si portano oggi sono però di ben altra fattura: non perché siano meglio fondate, ma perché si agganciano alle nostre azioni in un’altra maniera, sconosciuta agli antichi. Il genere di previsione in cui infatti abbondiamo è quello delle cosiddette profezie autoavverantesi: quel genere di prognosi sul futuro che, se ci crediamo, il futuro ci fa la cortesia di disporsi nel senso delle nostre credenze. Sembra bello! Credere che domani non piova a tal punto, che non piove davvero! Un passo avanti rispetto alla magia stregonesca, a cui non bastava la credenza, ma occorreva anche la parola magica.
In realtà, con la pioggia la nostra credenza ha ben poco da fare. Ma il numero di fatti che sono influenzati dall’andamento delle opinioni è considerevolmente aumentato, e disporre quindi di previsioni che orientano le opinioni è un modo sicuro per intervenire sui fatti. A volte può non bastare, e infatti tutto l’ottimismo di Berlusconi non è bastato a raddrizzare il bilancio pubblico, e neppure a modificare le propensioni al consumo degli italiani: dopo tutto, quando i soldi non ci sono, non ci sono.
Quel che però è degno di nota, è proprio il retrocedere dei fatti naturali dal novero delle cose che ci interessano e da cui ci facciamo influenzare (almeno fino alla prossima, imprevedibile e prevedibilissima catastrofe), e l’avanzare di strani fattoidi – li chiamano così -, di fatti cioè mescolati alle opinioni, di fatti incistati nelle parole, fatti su cui far previsioni non è affatto contemplare, ma agire.
Cambiata dunque la cerchia dei fatti su cui è interessata ad esprimersi, la modernità ha compiuto un giro completo e, dopo il trionfo galileiano delle previsioni scientifiche certe, ci riconsegna nuovamente a previsioni largamente incerte, per la gioia di tutti gli astrologi da rotocalco, che non si vedono più confutati dalla seriosità dei fisici, ma soltanto affiancati da psicologi allegri ed economisti tristi (questi, di solito, sono gli umori dominanti), non meno incerti di loro circa i casi della vita. A pensarci, Previsioni che, per avverarsi, richiedono il nostro credulo concorso non differiscono di molto da quelle degli antichi stregoni, che si aiutavano piuttosto con formule rituali e gesti scaramantici.
Non resta, dunque, che crederci, indipendentemente dal grado di attendibilità. Con la consapevolezza però che gli esperti in grisaglia che prevedono il corso della borsa o quella dello spread, non sono molto diversi dai maghi di una volta, se non per l’abito più sobrio.

Il pirata di internet è un seguace di Kant

La faccenda è così complicata, che forse è il caso di mettere in pista Kant: Reimarus non basta, anche perché pochi lo conoscono. L’FBI ha infatti oscurato Megaupload e Megavideo, e arrestato Kim Schmitz, l’uomo che grazie al traffico sui due siti, una gran parte del quale riguardante materiale coperto da copyright – aveva messo su una fortuna e se la godeva in Nuova Zelanda, tra donne e motori. Il collettivo hacker Anonymous (quelli con la maschera di Guy Fawkes, resa popolare dal  film «V for Vendetta») l’ha presa malissimo, considerandolo un attacco alla libertà di parola e di stampa, ed anche, in termini più aggiornati, alla libertà di navigare in forma anonima, e per tutta risposta ha messo fuori gioco un bel po’ di siti dell’Amministrazione della giustizia degli Stati Uniti. Siccome però, comunque la si pensi, al fianco del furbastro Schmitz, uno con sentenze passate in giudicato, non si fa certo una bella figura, è forse il caso di mettere la questione sul piano più generale di una riflessione su storia e destino del copyright nell’epoca di internet. Di questo infatti si tratta: da un lato ci sono le case cinematografiche e le major discografiche in lotta contro la pirateria informatica; dall’altra gli utenti, che si vorrebbero prestare i file così come ci si presta i libri o i dischi, e che tendono a considerare l’informazione e la conoscenza un bene comune, e la libertà di accesso alla Rete un diritto fondamentale. In mezzo, una legge decisamente restrittiva, che il Senato americano ha per il momento accantonato, ma che, fosse approvata, costituirebbe il più poderoso tentativo di stringere le maglie della Rete (col rischio che a finirci intrappolati siano anche social network e motori di ricerca).

Quando nacque la legislazione sul diritto d’autore – trecento anni fa, nel Regno Unito – le cose erano semplici: la funzione «taglia e incolla» non era stata ancora inventata né le idee viaggiavano via web. Copiare era operazione lunga e costosa, ma siccome andavano comunque regolati il diritto dell’autore e l’interesse dell’editore, una legge la Regina Anna dovette farla. E decretò, salomonicamente: 14 anni per l’editore, 14 per l’autore; poi via libera, copi chi può. Quando però arrivarono gli illuministi, con la fissa della lotta contro l’ignoranza, le vie avevano cominciato a liberarsi per davvero, grazie alla diffusione sempre più larga di prodotti a stampa, e gli appetiti economici (così come le ambizioni autoriali) si erano fatti decisamente più robusti. Toccò allora a Kant fare il punto della situazione. Prima di lui Reimarus l’aveva fatta facile, prendendo le difese della più larga circolazione delle idee. Kant, che alla domanda “che cos’è l’illuminismo?” aveva risposto con un inequivocabile «sapere aude!», «abbi il coraggio di sapere!», volle sistemare per bene le cose, contemperando l’avanzamento della conoscenza con le esigenze del diritto.

Così sentenziò (più o meno): un conto è il rapporto che un autore intrattiene con il pubblico tramite il suo editore, un altro sono le opere.  Siccome nessuno può parlare a nome di un altro senza autorizzazione, nessuno al di fuori dell’editore (che ne è stato autorizzato) può dare parola all’autore. Ergo: solo l’editore, in base al contratto con l’autore, può stampare l’opera e distribuirla in pubblico. Per non far esultare solo le major, Kant però aggiunse: «Di contro le opere d’arte, come cose, possono essere copiate». Santi numi, l’idea che le opere d’arte siano assimilabili a «cose» è sorprendente, ma Kant voleva dire che non è il possesso fisico dell’opera quello che conta, quanto quello che gli si fa fare o dire. Con un linguaggio un po’ meno legnoso e un po’ più aggiornato è come dire: un conto è lucrare sulle opere dell’ingegno altrui, un altro è la libera riproduzione per uso personale.

L’argomento kantiano aveva però un punto di pregio che va al di là della soluzione giuridica suggerita (che già di suo non sarebbe male). Esso consiste nell’invito a pensare la proprietà intellettuale come un’azione, qualcosa che si fa e non qualcosa che si ha. La domanda diviene allora chi compie cosa e non chi detiene cosa: messa così, forse una soluzione la si trova. E di questi tempi,  che si tratti un po’ meno di detenere e un po’ più di fare (e di inventare) non potrà che fare bene a tutti, autori ed editori compresi.

Il mattino, 21 gennaio 2012

Questioni di antropologia economica: oltre l’utilitarismo

Tra gli effetti della crisi economica e finanziaria che ha investito l’Occidente negli ultimi anni si possono mettere anche le parole con le quali Chris Hann e Keith Hart aprono la loro recente sintesi sullo stato attuale dell’antropologia economica: scrivono infatti che la crisi “ha opportunamente dimostrato che la questione non è soltanto un affare da eruditi antiquari” (prosegue su tamtàm democratico

Quando Marx criticava i censori dell’arricchimento

E se, dopo aver capito che la ricetta reaganiana non poteva funzionare a lungo, e che non è vero affatto che lo Stato rappresenta il problema piuttosto che la soluzione – se non altro perché allo Stato qualcuno ha chiesto di salvare con migliaia di miliardi di dollari il sistema bancario americano – se ora che la crisi ha investito i debiti sovrani degli Stati europei dovessimo chiederci se non occorra essere solo un po’ più radicali, e domandare anche, a proposito del capitalismo, se anch’esso non sia il problema, invece che la soluzione? Troppi «se», qualcuno penserà. Ma davvero sarebbe un bel guaio se così fosse, perché di risorse intellettuali per misurarsi con un simile problema non ce ne sono molte, in circolazione. Non si vorrà mica tirare in ballo un’altra volta Marx? Certo lui qualche parolina l’ha detta, provando per esempio a sostenere che le crisi non sono soltanto eventi più o meno accidentali, ma fasi strutturali del funzionamento dell’economia capitalistica. Come si fa però a riprendere un’analisi del genere, se persino il termine, “capitalismo”, è pressoché scomparso dal dibattito pubblico? In verità, la parola sta di nuovo facendo capolino, e il solo fatto che la si torni ad usare (senza peraltro avere la scostumatezza di Marx, che parlava addirittura di “capitalisti”, incitando così all’odio di classe) indica perlomeno che il problema c’è: la fede nelle virtù taumaturgiche del mercato si è indebolita; indebolita è pure la convinzione che il mercato rappresenti sempre il miglior sistema di allocazione delle risorse; fragilissima è ormai la presunzione che alla politica spetti solo il compito di correggere asimmetrie e distorsioni del mercato.

Certo, non possiamo farne solo un affare di parole. Forse, però, tornare ad usare la parola «capitalismo» aiuta a individuare nodi strutturali, quelli che non vengono meno solo per il fatto che non li si nomina più. Marx era ad esempio convinto che la crisi si manifesta sì sui mercati finanziari, e anzi le bolle speculative la ingigantiscono oltre misura, ma comincia da un’altra parte, nella sfera della produzione: è lì che bisogna andare a guardare. Siccome però il fenomeno della sovrapproduzione, che lui poneva all’origine della crisi, raccoglie le abbondanti ironie degli economisti mainstream, figuriamoci se proponiamo di tornare alle sue descrizioni del ciclo economico (con tanto di inevitabile crollo finale). Però, di grazia, quando Marx spiega che è futile oltre che irresponsabile prendersela con l’avidità dei banchieri e l’egoismo degli speculatori, quando avvisa che non è buttandola sul piano della morale che si individuano le cause e si indicano le vie d’uscita, non sarà il caso di rimpiangere un pensiero critico altrettanto robusto? Così, se il Presidente del Consiglio vola a Londra per riconquistare la fiducia dei mercati, ci si può chiedere se è di economia che stiamo parlando, o non piuttosto di psicologia? Sentite allora Marx, quando ad esempio se la prende con la stampa: «Ora non ci chiederemo se i giornalisti inglesi, che per un decennio hanno diffuso la dottrina secondo cui l’epoca della crisi commerciali si era definitivamente chiusa con l’introduzione del libero commercio, abbiano ora il diritto di trasformarsi improvvisamente da servili panegiristi a censori romani dell’arricchimento moderno». Che dire? A parte il fatto che oggi il problema non ce l’abbiamo solo con i giornalisti inglesi, e che di decenni di panegirici ne abbiamo vissuti più d’uno, ma non avremmo bisogno di penne almeno altrettanto libere e sfrontate? Perché di questo anzitutto si tratta: se il capitalismo crollerà, non ce lo manderà certo a dire, ma intanto si può auspicare un po’ più di libertà intellettuale, di intelligenza critica, di anticonformismo nel dibattito delle idee?

L’unità, 19 gennaio 2012

Il naufragio della coscienza

Che groviglio di contraddizioni è l’uomo. Quando capita però che le contraddizioni si sciolgano e si ripartiscano con chiarezza, e possiamo vedere tutta la miseria dell’uomo da una parte, e tutta la grandezza da un’altra, allora capiamo. La telefonata che nel cuore della notte si scambiano Schettino e De Falco, il capitano che dopo aver mandato la nave Concordia contro gli scogli ha lasciato il suo posto di comando, e il comandante della Capitaneria che lo incalza durante le operazioni di soccorso, ha il potere di sciogliere per un momento le complicate contraddizioni della natura umana. Per Pascal ci voleva il peccato originale per spiegare come stiano insieme, nell’uomo, grandezza e miseria, e invece bastauna voce incerta e spaventata ad un capo del telefono e un’altra ferma e autorevole all’altro capo, per sciogliere l’enigma e permetterci di giudicare.

Noi sappiamo che quel che ha compiuto il capitano è inescusabile: tanto più restiamo basiti di fronte al suo continuo tergiversare, mentire, accampar scuse. Se Schettino è stato sorvegliato a vista, nelle scorse ore, è perché s’è pensato che il peso della vergogna fosse così schiacciante, che c’era il serio timore potesse compiere atti autolesionistici. D’altro canto, vediamo bene nelle parole di De Falco, di là dai meriti personali e dai doveri d’ufficio, quel che, senza essere eroico, deve valere per tutti: un rigore e un’inflessibilità alla quale in troppe circostanze della vita non siamo più abituati. Dal genitore troppo condiscendente, al professore troppo comprensivo, fino al politico troppo cedevole verso gli umori dell’opinione pubblica, vediamo assai di rado qualcuno che agisca senza esitazioni né incertezze: qualcuno che sappia qual è il suo dovere, sappia che è chiamato a farlo e lo fa, senza tante storie. In realtà, non c’è nulla di straordinario nell’intimare al comandante Schettino di salire a bordo e nell’esercitare il proprio potere con ferma determinazione. È anzi una piccola cosa: che però è tutto. Tutto quel che si deve fare, almeno in quei frangenti. E siamo così poco abituati a parole di comando, che di questo fenomeno così tipicamente umano vediamo troppo spesso solo il lato odioso dell’autoritarismo o del sopruso, non anche quello della guida e dell’autorevolezza.

Non bastano perciò le maschere di Alberto Sordi o di Christian De Sica, con addosso i panni di Schettino, a interpretare l’intera vicenda. C’è anche da ricordare la simpatia nutrita per Michel Piccoli, il cardinale che rinuncia al soglio pontificio nell’ultimo film di Moretti, Habemus papam. La fragilità dell’uomo, il suo «non sum dignus» ce lo avvicinava e rendeva umano. Facendoci dimenticare quel che invece la telefonata dell’altra notte ha potuto ricordarci: che l’uomo è chiamato a tenere insieme il sentimento della propria inadeguatezza con lo sforzo di fare sempre del proprio meglio senza sottrarsi alle proprie responsabilità. Non siamo degni perché dobbiamo renderci degni: forse è una contraddizione, ma è anche il posto che non dobbiamo abbandonare.

L’Unità, 18 gennaio 2012

Facit indignatio versum

Decimo Giunio Giovenale: la storia la si può far cominciare da lui. D’accordo, è prenderla un po’ alla lontana, poco meno di un paio di millenni, ma forse serve per guardare sotto l’ondata di indignazione che ha investito l’Occidente. Dopo la primavera araba, dagli Indignados di Puerta del Sol a quelli di Occupy Wall Street, passando per le manifestazioni di Roma o di Parigi, un po’ ovunque si è riversata in strada la sacrosanta protesta contro le ingiustizie e le diseguaglianze sociali, spesso mescolata con un’aspra critica, dai tratti populistici, dei privilegi della casta dei politici o delle oscure trame degli gnomi della finanza. L’indignazione infatti è questa roba qua: l’invettiva a sfondo prevalentemente morale come arma di mobilitazione e critica del potere. Indignato è colui il quale, prima ancora di dedicarsi all’analisi complessa delle cause e delle condizioni, si solleva contro lo scandalo dell’ingiustizia. E fa bene, almeno secondo Aristotele, che collocava lo sdegno nel giusto mezzo fra la nera malevolenza di colui il quale gode delle disgrazie altrui, e la gialla invidia di chi soffre per la fortuna che arride agli altri. L’indignato si addolora sì per il successo altrui, ma solo quando è ingiusto, quando non vi è ombra di merito. Il che è un bene, perché dimostra che la coscienza morale non è ancora del tutto anestetizzata.

La coscienza morale: ma la coscienza politica? Per quello conviene dare un’occhiata ai temi che sollevavano lo sdegno del primo campione dell’indignazione, Giovenale appunto, uno che di sé diceva di non avere particolare genio artistico e letterario, ma solo tanta rabbia. Si natura negat, facit indignatio versum. Che grosso modo vuol dire: anche se non ho un talento naturale, sono così incazzato che non posso non scrivere. E di cosa scriveva, Giovenale? Più o meno: di Roma ladrona, dei favoritismi e dei parassitismi dell’amministrazione pubblica, dei privilegi degli uomini vicini al potere, della cortigianeria e dell’insincerità. Fin qui tutto bene. Sono di quelle descrizioni per cui uno dice: niente di nuovo sotto il sole! Ma insieme a questi temi si legge nelle Satirae anche l’elogio del buon tempo antico, il rimpianto per la sana vita di provincia, l’insofferenza nei confronti degli immigrati e l’invettiva contro il lassismo morale, nutrita di misoginia e omofobia.
Tirando le somme: un impasto di sensibilità civile e di forte conservatorismo. Il che spiega benissimo come possa accadere ancora oggi che giornalisti con pedigree autorevolissimi, ma inequivocabilmente di destra,  diventino paladini dell’opinione pubblica progressista. E soprattutto, aiuta a porre l’antica domanda: ma indignarsi è di destra o di sinistra?

Collocando la doccia a sinistra e il bagno caldo a destra, la Nutella a sinistra e il cioccolato svizzero a destra, Giorgio Gaber ha quasi ridicolizzato la domanda. E siccome per molti, compresi molti indignati, questa domanda non ha più motivo d’essere, possiamo pure metterla (provvisoriamente) da parte. Non possiamo però rinunciare a capire. O almeno a chiedere se le categorie morali che l’indignazione brandisce, la distinzione fra bene e male, fra ladri e onesti, permetta davvero di descrivere i conflitti reali che attraversano le società occidentali, e la società italiana in particolare: nel mondo del lavoro, nel rapporto tra cittadini e istituzioni, nella sfera dell’istruzione e della formazione, e così via. Se si trattasse di bene e male, basterebbe eliminare il secondo per tenersi il primo: ma sono operazioni che riescono solo sulla carta (o in uno slogan). Nella realtà, le cose sono maledettamente più complicate.

Ora, l’indignazione targata 2011 ha preso di mira, in particolare, la finanziarizzazione dell’economia: di qui le manifestazioni davanti a Palazzo Koch o a Wall Street. E come non indignarsi per l’enorme quantità di zeri che accompagna le transazioni finanziarie, spesso al riparo da ogni forma seria di controllo e di tassazione? Proprio però uno dei guru del movimento, il filosofo sloveno Slavoj Zizek, ha spiegato che pensare di separare con un tratto di penna l’economia reale buona dalla economia finanziaria cattiva è una pia illusione. In fondo, la finanziarizzazione incomincia con l’invenzione della carta moneta: c’è qualcuno che sogna di eliminare il denaro? Zizek, lui, vuol far la rivoluzione, ed il suo è un invito a rammentare che, per Marx, pure l’economia reale sta sotto il segno dello sfruttamento capitalistico. Ma tra la rivoluzione che abolirebbe il capitale e l’indignazione che abolirebbe le banche forse va trovato il modo ed il terreno per  costruire una seria via di riforme. e soggetti politici che ne sostengano il cammino. Non per mollezza o condiscendenza, ma anzi per mettere un po’ di contenuto civile nella risposta che Marziale diede allo sdegnato amico Giovenale: Sic me vivere, sic me iuvat morire “Così mi piace vivere, e così voglio morire”.

L’unità, 31 dicembre 2011 (col titolo Gli indignati. Quella rabbia abti-potenti che inizia con Giovenale)