Archivi del mese: febbraio 2012

Questa auto si vergogna di essere Fiat

Perdonate il rozzo sillogismo ma: la Fiat caccia l’Unità dallo stabilimento Magneti Marelli; io scrivo sull’Unità; la Fiat caccia via pure me. Ora c’è il fatto che io ho acquistato un’auto Fiat, e imprudentemente l’ho anche pagata tutta, in contanti.  Come contromossa non posso bucarmi le ruote, perciò quasi quasi ci metto su un cartello: “Questa auto si vergogna di essere Fiat”.

Papi stranieri

La prima volta che accadde i partiti non c’erano ancora. C’erano però, divisi e meno solidi degli omologhi europei, gli stati regionali. I quali, incapaci di trovare un punto di equilibrio, pensarono che la cosa migliore sarebbe stata di affidarsi a un sovrano straniero. Nella persona di Carlo VIII. Che un po’ combattendo, più spesso mercanteggiando, attraversò col suo esercito la penisola, spingendosi fino a Napoli. Non ottenne gran che, anzi batté presto in ritirata, ma la sua impresa aprì un ciclo cinquantennale di guerre, dal quale l’Italia ha impiegato secoli per riprendersi.

Non siamo però così pessimisti e non esageriamo con le metafore. Se oggi si invocano i papi stranieri (con la minuscola: quello con la maiuscola pare abbia concluso le sue gaie scorribande) non è però da temere che ce ne possano venire secoli di sventure e di guerre  orrende, come diceva amaramente quel gran politico di Niccolò Machiavelli. Ma serpeggia, anzi si manifesta apertamente un’analoga sfiducia nelle risorse del sistema politico nazionale. E cioè, in primo luogo, dei partiti. E come allora, così ora, c’è chi pensa di cercare il punto di equilibrio fuori dal sistema dei partiti, magari non spalancando le porte delle città, come allora, ma sbriciolando quel che resta di formazioni politiche le quali, bene o male, sono ancora la via costituzionalmente indicata per la determinazione della politica nazionale. Perché questo è il punto: chi determina la politica nazionale? O c’è qualcuno che pensa per davvero che le soluzioni sono sempre tecniche, mentre a creare problemi sono sempre i politici? Sta volgendo al termine la più sconquassata delle stagioni che l’Italia repubblicana abbia attraversato, che è stata anche quella di maggiore debolezza dei partiti politici. Come non vedere il rapporto diretto che sussiste fra l’uno e l’altro fattore? E come pensare allora di costruire la soluzione per il 2013 sulle macerie dei partiti, per fare largo al papa straniero, o al mite condottiero di turno? Non abbiamo già sperimentato abbondantemente, coi risultati che sappiamo, l’idea che la politica sia il campo in cui qualcuno, venuto da un’altra parte e dunque (solo apparentemente) non compromesso con il teatrino della politica, scenda tra ali di folla per salvare l’Italia dalla crisi, dallo sfascio o dai comunisti? Prima ancora che venisse giù il muro di Berlino e la prima repubblica, l’opinione pubblica aveva già cominciato a baloccarsi con il «partito che non c’è», quello fatto dagli uomini migliori del paese. Quando poi i partiti non ci sono stati per davvero, s’è visto chi c’è stato al posto loro. E non è stato un bel vedere

Certo, una differenza con il Papi con la maiuscola c’è, e non è una differenza di colore. Non si tratta cioè della diversa posizione nella classifica degli uomini più ricchi del paese, e neppure di una differenza di stile, come se Berlusconi avesse perso credibilità in Europa per qualche battuta di troppo sulla Merkel. È che l’uomo di Arcore si è dovuto accontentare di un ingresso laterale, da destra, nella vita politica italiana, mentre  al prossimo papa straniero si vuole offrire la possibilità di entrare dal più largo portone centrale. L’intuizione di Berlusconi – che era tutta nel nome originario del suo partito, Forza Italia – quanto meglio funzionerebbe, qualcuno starà pensando, da questa nuova, più agevole posizione!

Ora, è difficile dire se dal conclave uscirà il nome di Monti, oppure quella di Passera, o ancora quello di Montezemolo (che è un pochino calato nel borsino dei papabili, ma siccome è notoriamente un uomo fortunato non ce la sentiamo di escluderlo del tutto). Quel che purtroppo è facile intravedere è il tentativo à la Carlo VIII: la croce addosso ai partiti, dipinti come gli staterelli di allora, rissosi e inconcludenti. L’impasse, le pressioni degli Stati europei e infine l’uomo che viene da fuori e scompagina i giochi. Che poi qualcuno disponibile a mercanteggiare, in città, purtroppo, lo si trova sempre. Quel che invece bisognerebbe trovare, è il modo di evitare, dopo vent’anni, di replicare ancora lo schema di Papi.

L’Unità, 22 febbraio 2012

Strauss-Kahn in cella, la solitudine di un satiro

«Tutta l’infelicità dell’uomo – diceva quel gran moralista di Blaise Pascal – deriva dalla sua incapacità di starsene da solo in una stanza». Se poi la stanza è una stanza d’albergo, la cosa si fa più difficile. E se quell’uomo è Dominique Strauss Kahn, essa diventa, a quanto pare, impossibile. C’è bisogno di qualche allegra compagnia. Così, dopo la disavventura newyorkese, nella quale l’allora direttore del Fondo Monetario Internazionale fu coinvolto dalle denunce di una cameriera del Sofitel, che lo accusò di averla stuprata, è ora la volta di un’altra stanza e di un altro albergo, il Carlton di Lille, dove pare si organizzassero serate allietate dalla compagnia di prostitute di alto bordo. Come nello scandalo americano, così in questo nuovo episodio in patria il profilo penale della vicenda è tutt’altro che chiaro. Ma colpisce la frequenza con cui quest’uomo di una certa età e di molto potere si trova coinvolto in sordide vicende a sfondo sessuale.

Nel leggere queste cronache e nel domandarsi che cosa possa spingere un uomo così influente a mettersi nelle mani di (e a mettere le mani su) donne a pagamento, rovinando la reputazione e la carriera, all’opinione pubblica francese non può non venire in mente l’opuscolo scritto, negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione, dal divin Marchese. Il cui titolo recita: «Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani». Luigi XVI lo avete ghigliottinato, ragionava con cinismo il Marchese de Sade, ma per essere veramente democratici c’è altro da fare. C’è da garantire per legge ad ogni cittadino il diritto di vedere soddisfatte le proprie voglie. Per questo il Marchese apparecchiava un discorso del genere: le autorità provvedano ad intimare alle donne, specie quelle oneste, di prostituirsi e, se occorre, le consegnino agli uomini e le mettano nella loro assoluta disponibilità, in modo che possano soddisfare, con altrettanta umiltà che sottomissione, tutti i capricci che agli uomini piace di togliersi.

Quel che né la legge repubblicana né alcun altra legge dopo di allora ha mai imposto, può comunque essere ottenuto. Col denaro. E non sono poche le circostanze in cui gli uomini mostrano di trovare non semplicemente compagnia, ma un piacere tutto particolare nei favori di una prostituta. La spiegazione sta in quell’innegabile fenomeno, che consiste nel cercare il piacere nella sottomissione. È chiaro infatti che col denaro, speso non per corrompere le virtù altrui ma solo per godere dei servigi di una professionista del sesso, l’uomo non desidera la donna per quel che essa è, ma per la forma di dominio che esercita su di lei.

Si dimostra così la stretta parentela fra sesso e potere. E l’imprecisione del detto che «comandare è meglio che fottere», il quale trascura il fatto che fottere può essere e spesso vuole essere una forma di comando, oppure l’esercizio del comando con altri mezzi. Una forma di comando schietta, assoluta, sbrigativa, del tutto priva di senso o di parole.

Proprio quello che in regime democratico né Strauss Kahn né nessun altro può più vantare. Perché in democrazia, dove ai re per diritto divino è stata tagliata la testa, il potere deve essere legittimato tramite il lento esercizio della parola. Non a caso i parlamenti si chiamano così: perché lì i nostri rappresentanti parlamentano, cioè si parlano, e solo dopo possono assumere la decisione ed esercitare il loro potere. La forma pura di potere, il piacere malvagio di disporre assolutamente del corpo altrui, è quindi negata per principio, ed è per questo che l’uomo ha finito col cercarlo in altre forme, in grado di compensare la perdita di un potere secolare, smarritosi nelle faticose lungaggini parlamentari, che stanno alla decisione politica un po’ come i preliminari stanno all’atto sessuale.

Dominique Strauss-Kahn, dunque, non lo sa, ma al di là delle sue inclinazioni personali, delle sue debolezze senili (o di misteriosi complotti a suo danno: non si sa mai), quel che sta vivendo, nella solitudine di un satiro a cui la fortuna presenta il conto, è, in una prospettiva non esistenziale ma storico-politica, lo sforzo secolare della democrazia (evidentemente non ancora compiuto) di mettere uomini e donne gli uni di fronte agli altri in un dialogo tra pari, quello da cui a volte gli uomini rifuggono cercando facili compagnie in una camera d’albergo.

Il Mattino,22 febbraio 2012

Il predicatore che caccia i devoti dal tempio della tv

Due sono le caratteristiche fondamentali della retorica populista, l’anti-intellettualimo e la personalizzazione, e Adriano Celentano, buon per lui, le incarna tutte e due. Hegel diceva che ogni cosa è un sillogismo, ed ecco infatti il sillogismo dell’altra sera: Adriano Celentano è la televisione, la televisione è anti-intellettualistica e personalizzante. Adriano Celentano è il campione dell’anti-intellettualismo e della personalizzazione. Appunto.

In conferenza stampa, il direttore artistico del Festival ha dichiarato che la performance del re degli ignoranti è stata “il massimo che potesse aspettarsi”: Celentano ha saputo riassumere l’intero suo percorso artistico (riassumere mica tanto: c’è voluta una buona oretta); ha saputo dire qualcosa che fa discutere (l’importante è infatti discutere, non importa di cosa), e lo ha fatto in un discorso articolato. L’articolazione, non stupitevi, è consistita nel contraddittorio messo in scena con Pupo. Visto il botto dei dati auditel, c’è poco da obiettare. Piuttosto, citiamo ancora Hegel – con grande faciloneria, si capisce, come conviene fare quando è Pupo a impersonare la voce critica: ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale. Ovvero: chi vince ha sempre ragione. Mazzi e Morandi vincono, Celentano vince: c’è dunque una logica in questa vittoria, ed è quella del sillogismo di prima, la logica della ragione populista. Che in salsa televisiva consiste sempre, ha spiegato Taguieff, “nel fare eco al desiderio di rompere con il sistema politico costituito, le élite politiche tradizionali o il gioco classico dei partiti”, solo che di nuovo ha il fatto che “trae l’essenziale della sua efficacia simbolica dalla risorse proprie dello spazio mediatico e dalla capacità telegenica del leader”. La descrizione si attaglia benissimo al vecchietto della via Gluck: mettete la Chiesa di Roma al posto del sistema politico, la “casta” dei preti al posto delle élite politiche e, invece dei partiti sporchi e cattivi, stampa e associazionismo cattolico: il gioco è fatto. D’altra parte, non è mica la prima volta che si scopre questa perfetta omologia fra politica e televisione. (E d’altra parte ancora: non è mica sicuro che l’antidoto al populismo sia la recente sobrietà tecnocratica: questa anzi sembra il rovescio speculare di quella, e forse terrà il campo almeno finché quella non sarà riassorbita).

A questo punto, però, Pupo, o chi per lui, potrebbe avere qualcosa da obiettare. E cioè: ma l’insofferenza verso classi dirigenti ed élite non l’aveva pure un certo Gesù? Non era lui che se la prendeva con scribi e farisei? Che dire della beata semplicità, del lasciate che i bambini vengano a me, della fede che è scandalo e stoltezza per pagani e giudei? Celentano queste cose volete che non le sappia? Fanno parte della sua personale Imitatio Christi, dal tempo del film «Joan lui» ad oggi. E se a Gesù andò male, è certo che anche Celentano saprà accettare le critiche come la croce che gli tocca di portare.

Poi però uno si ricorda la madre di tutte le scene populiste (si fa per dire): Gesù che caccia i mercanti dal tempio. E pensa: ma come è potuto accadere questo singolare rovesciamento, per cui prima si cacciavano dalla casa del Signore coloro i quali ne facevano mercato, mentre adesso, tutt’al contrario, si invoca la cacciata dei preti o la chiusura di Avvenire e Famiglia cristiana dal tempio della canzonetta, cioè dal cuore del mercato discografico e televisivo? Eh, già: perché il populismo ha un’altra caratteristica ancora: a parlare contro il potere è sempre uno che il potere ce l’ha. Politico, finanziario o televisivo poco importa, ma state sicuri che ce l’ha. E non lo molla facilmente.

L’Unità, 16 febbraio 2012

Il padrone dei media

Il titolo completo recita: “Il Sessantotto realizzato da Mediaset ovvero il conflitto di disinteresse e inoltre la Grande Rimozione della Vittima in un Dialogo agli Inferi fra Machiavelli e il Tenerissimo”. Il testo di Valerio Magrelli, di cui presentiamo un estratto – l’inizio dell’Atto terzo – ha la forma di un «dialogo con i morti»: genere letterario minore ma, come spiega l’autore, ricorrente nella cultura europea. E si capisce perché: quando la realtà compie una capriola, e si presenta quasi rovesciata, occorre procurarsi un punto di vista ben distante, per osservare il rovesciamento e non rimanerne catturati. Si guarda la vita dagli inferi, quando la vita assume connotazioni quasi infernali. Un tempo di questi meccanismi si occupava la dialettica: ma chi osa più servirsi di un simile ferro vecchio? Hegel aveva addirittura coniato l’espressione: die verkehrte Welt, il mondo rovesciato, e dopo di lui si sono susseguiti numerosi tentativi di rimettere il mondo sui suoi piedi, a testa in su. Con esiti, è vero, quasi sempre disastrosi. Anche di questi funesti rovesciamenti abbiamo uno specchio letterario: il geniale rivoluzionario Sigalev, nei Demoni, autore di un piano di emancipazione universale, che si conclude, ahilui, con il dispotismo illimitato.

Il fatto però che piani come quelli dell’ideologo Sigalev finiscano in malora non deve impedirci di vedere tutte le storture del nostro tempo. Un’opera di fantasia – così definisce Magrelli il suo dialoghetto, nella breve avvertenza premessa al testo – non è meno un’opera di verità. E non affronta con minore serietà, nonostante il tono leggero, il problema di cui non ci si è potuti a lungo capacitare: com’è possibile, leggiamo a un certo punto, che in un paese in declino una maggioranza di italiani progressivamente impoveritasi abbia dato convintamente il proprio voto all’uomo più ricco e più potente del paese, «il padrone dei media»? La parte del testo che pubblichiamo contiene qualche elemento di una possibile risposta. Ma uno di essi si trova già nel lungo titolo sopra riportato: non c’è stato in Italia solo un gigantesco conflitto di interesse, mai regolato o mal regolato, c’è stato anche – e in parte c’è ancora – un altrettanto grande conflitto di disinteresse. La domanda, diviene allora, per noi: com’è possibile ricostruire un interesse, si direbbe quasi una nuova sensibilità, per la cosa pubblica, per i beni comuni, per il diritto e per i diritti di tutti?

Questo fascicolo di Tamtàm intende favorire, in tutti i suoi contributi, l’opera di ricostruzione civile del Paese che il partito democratico giudica oggi necessaria. È un’opera che passa anche per un (non facile) scioglimento del disinteresse che circonda lo stato della cultura – e in particolare dell’istruzione e della formazione. Ed è per questo motivo che pubblichiamo il testo di uno dei nostri maggiori scrittori su questi anni. Non scomodiamo la parola «impegno», per non riaprire in forme trite e stucchevoli la questione del rapporto degli intellettuali con la realtà, ma possiamo provare a dire (con le parole di un intellettuale del nostro ‘900, che vi ha riflettuto a lungo) che ci sono stati certo tempi in cui la politicità saturava l’arte o la letteratura, fino a soffocarla, ma vengono pure tempi in cui un’insufficienza di politicità rende la letteratura vacua e oziosa. E forse è da questi ultimi tempi che dobbiamo allontanarci. Magrelli lo fa. Nella direzione di Kant, più che di Hegel:  dalla parte del «legno storto dell’umanità» che invano i Sigalev proveranno a raddrizzare, ma anche con tratti di intransigenza morale e l’invito, rivolto alla sinistra italiana, a reinventarsi «realistica, oggettiva, pragmatica», senza fuggire dinanzi ai problemi o accontentarsi di mere enunciazioni di principio.

Nel libro, l’autore si congeda dal lettore ricordando una pagina di Filippo De Pisis sulle solfatare di Pozzuoli. De Pisis vi descriveva lo spettacolo (ad uso dei turisti) del cane che, avendo respirato le esalazioni della fangaia, dapprima danza in stato di ebbrezza, poi stramazza esausto al suolo. Una metafora del rapporto fra lo scrittore e la società: «nella figura di chi si occupa di letteratura, io non riesco a scorgere né una sentinella, né un soldato d’avanguardia, né un antesignano, né un diagnosta, ma semplicemente una cavia: il cane che cade per primo». Ma perché non pensare anche al primo che si rialza, e a come rialzare il Paese?

Il dialogo è stato completato nel giugno 2011, ma pubblicato solo a novembre. Magrelli ha fatto a tempo a inserire un Post scriptum, steso quindi a ridosso del cambio di governo e dell’uscita di scena di Berlusconi, in cui formula l’augurio che «queste pagine risultino tanto meno urgenti per il presente, quanto più istruttive per il futuro».  Ecco: perché siano istruttive, bisogna pensare che l’ebbrezza passi, e che il cane e il paese si rimettano per davvero in piedi.

(Questo testo introduce lo stralcio del libro di Valerio Magrelli, Il ’68 realizzato da Mediaset, Einaudi 2011, pubblicato dalla rivista del Partito Democratico) Tamtàm

Perché alla fine vince Vendola

Io organizzo, tu vinci: da quale modello politico il partito democratico abbia importato questa generosa formula non è dato sapere, ma dopo la Puglia di Vendola, la Napoli di De Magistris, la Milano di Pisapia, la Cagliari di Zedda, è ora la volta di Genova. Alle primarie il Pd schierava un dirigente nazionale, Roberta Pinotti, e il sindaco uscente, Marta Vincenzi. È già singolare che il sindaco si sia dovuta sottoporre alle forche caudine delle primarie: di solito al secondo mandato ci si arriva in carrozza. Ma a stranezza si è aggiunta stranezza, perché a vincere è stato il candidato indipendente, Marco Doria, che la sveltezza e la disinvoltura retorica di Vendola ha consentito di ascrivere a tambur battente a Sinistra e Libertà. Cavallerescamente (ma non troppo), i dirigenti del Pd si affrettano ora a dichiarare che il risultato ci sta tutto, è nello spirito della competizione, quando è veramente autentica; ma allora è il partito democratico che rischia di apparire, agli occhi del suo stesso elettorato, in debito di autenticità.
Di certo, la vicenda ha riaperto la discussione, anche perché Bersani ha già assicurato, con un filo di imprudenza, che se non si cambia il Porcellum il Pd ricorrerà alle primarie per la scelta dei suoi candidati al Parlamento. Che è come dare ai propri avversari, interni ed esterni, un ottimo motivo per gufare contro un accordo in materia elettorale.
Mettersi però a discutere dello strumento delle primarie significa scambiare il dito con la luna, e la luna è nientepopodimeno che l’orizzonte politico-culturale del Pd. Dove va, infatti, il Pd?  Quando scende per strada e manifesta nelle piazze, allestisce i gazebo e sente la base, pencola a sinistra: vincono i candidati più vicini alle battaglie sui diritti, sui beni comuni, sui nuovi bisogni e le nuove sofferenze sociali – candidati movimentisti, financo populisti, non sempre in sintonia coi gruppi dirigenti del partito.  Quando invece il Pd varca il portone di Palazzo Chigi e affronta la severa agenda del governo Monti, vira piuttosto verso i più tranquilli lidi del centro, e nel discorso pubblico fioriscono parole come serietà, sobrietà, responsabilità: l’anima tecnocratica prende il sopravvento, e un occhio di attenzione viene dato, prima che ai ceti popolari, ai severi corsi del mercato.
Intendiamoci: non siamo certo alla schizofrenia del partito di lotta e di governo e soprattutto, particolare non trascurabile, da qualche mese i consensi nel Pd crescono, a giudicare almeno dai sondaggi. E tuttavia la formula che Bersani non si stanca di usare: questo non è il nostro governo, non dice ancora chiaro e tondo come sarebbe, il suo governo. In buona logica, infatti, non si definisce mai nulla in termini solo  negativi. Dire di una certa cosa che non è né questo né quello, non è ancora dire che razza di cosa sia. Affermare che il Pd è un partito di centrosinistra, e spiegarsi dicendo che non è né di centro né di sinistra, non è esempio di fulgida chiarezza.
La situazione finisce con l’essere la seguente: c’è un grande partito, forse l’ultimo che possa essere così definito, forte abbastanza da poter contrattare col governo gli elementi del suo programma, ma in cui spezzoni di idee non trovano ancora un linguaggio condiviso.  La vicenda dell’articolo 18, intoccabile e riformabilissimo nello stesso tempo a seconda del dirigente che si intervista, è abbastanza indicativa. E così il Pd può essere di sinistra sì, ma non troppo, moderato ma anche no, riformista ma con juicio, e così via aggettivando. L’ancoraggio europeo nel Pse ci sarebbe, ma chi li sente i cattolici; la responsabilità nazionale funzionerebbe, ma rischia di accaparrarsela Monti; e poi c’è sempre, sornione, Casini. Semplicemente democratici, sbotta infine qualcuno, ma più per tagliar corto che per dare a vedere, finalmente, di cosa si tratta.
Intendiamoci: stiamo parlando del primo partito italiano, stando almeno ai sondaggi. Ma a sinistra ancora se la ricordano, la volta che erano il primo partito, quando, un po’ come adesso, non avevano saputo ben delineare un orizzonte politico chiaro oltre la battaglia elettorale. Niente orizzonte, niente vittoria: qualcun altro decise di scendere in campo, circondato, lui sì, da cieli azzurrini, e la vittoria, alla fine, andò a lui.

Il Mattino, 14.02.2012

L’antica polemica crociana sul governo di onesti e competenti

A cosa sono serviti questi vent’anni? Quando la prima Repubblica cominciò a venir giù, tornò agli onori della cronaca una pagina di Benedetto Croce, dei primi del ‘900. La citò in un’intervista anche Cossiga, ridendo della grossa. Era un piacere, infatti, poter ricorrere all’autorevolezza del filosofo per dare dell’imbecille a chi si illudeva che le cose della politica potessero essere rette da “una sorta di areopago, composto da onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese”. Al cronista che gli faceva da spalla, Cossiga leggeva le parole di don Benedetto: “Senta qua: un’altra manifestazione della volgare intelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica”.  Ci voleva un bel coraggio a sventolare la frase di Croce come una bandiera, o forse un vero amore per le provocazioni: dall’arresto di Mario Chiesa in poi, con le televisioni in diretta dal tribunale di Milano, petulante o no che fosse non c’era altra richiesta che si levasse dall’opinione pubblica. Ma Cossiga si era chiamato fuori: un paio d’anni di picconate per tirar giù, dopo quello di Berlino, i muri della politica italiana, e poi le dimissioni. Alla Presidenza della Repubblica c’era ormai Scalfaro, e al governo Amato: l’uno e l’altro chiamati a fronteggiare una devastante crisi di legittimazione dei partiti, e un’altrettanto devastante crisi finanziaria.

Cossiga, però, leggeva Croce. Il quale, dopo aver spiegato che quando uno sta male l’ultima cosa che fa è chiedere un medico onesto: quel che cerca anzitutto è uno bravo, invitava a giudicare l’onestà politica esclusivamente in termini di capacità politica. Non era una patente di assoluzione per ogni genere di malefatta, come a volte si intende con disinvoltura, ma un invito alla distinzione, e insieme un esercizio di diffidenza verso le varie forme di supplenza della politica esercitate da poteri di altra natura. La vorrei proprio vedere all’opera, continuava Croce, questa accolita di onesti uomini tecnici, animata da personale disinteresse e competente nei vari rami dell’attività umana, ma politicamente inetta: come potrebbe mai reggere le sorti di uno Stato?

Fosse vissuto ai nostri tempi, l’avrebbe vista. In realtà, la nostra storia nazionale è stata sempre percorsa, nei passaggi più difficili, da tentazioni tecnocratiche e istanze moralizzatrici. Così è stato con Tangentopoli, e così, dopo vent’anni, sta capitando di nuovo. E, in verità, come nessuno darebbe oggi un giudizio liquidatorio sul primo governo ‘tecnico’ della repubblica, quello di Ciampi, così oggi gli italiani guardano con fiducia a Monti.

Però la pagina di Croce è ricomparsa, nel mese di novembre, con l’insediamento del nuovo governo. L’hanno rispolverata, citandola a piene mani, Il Foglio, Il Giornale, Il Corriere. Di nuovo torna infatti l’illusione di un governo degli onesti e dei competenti, che avrebbe la sua principale virtù nella distanza dai partiti e dalla politica politicienne. A farne le spese, per ora, è stato il vincitore di vent’anni fa, cioè Berlusconi, ma è ancora da vedere come finirà: non è mica escluso che la vittoria sfugga al centrosinistra un’altra volta. In ogni caso, come allora così anche oggi la politica si trova sul banco degli imputati.

Torna così il saggetto crociano. Che però almeno questa volta andrebbe letto tutto. Perché a un certo punto il filosofo si faceva da solo l’obiezione: ma cosa accade – chiedeva – quando la disonestà fuoriesce dalla sfera privata, e tracima fino a corrompere l’opera dell’uomo politico? Bella domanda. Meno bella ed efficace la risposta. Croce si limitava infatti a dire che no, non può essere: «un uomo dotato di genio o capacità politica si lascia corrompere in ogni altra cosa, ma non in quella, perché in quella è la sua passione, il suo amore, la sua gloria». Più prosaicamente, Croce stava dicendo: non può accadere che un politico, se davvero è tale, si lascia distogliere dai suoi interessi privati in conflitto.

Non può accadere, però accade: è accaduto, eccome se è accaduto. Fosse vissuto ai nostri tempi, Croce avrebbe visto anche questo, e non ne sarebbe rimasto entusiasta. Forse non avrebbe riscritto il suo saggio, ma avrebbe esercitato anche in altre direzioni distinzioni e diffidenze.

Facciamo allora così. Non nascondiamoci dietro le parole del filosofo. Promettiamo di lasciare nel cassetto la pagina di Croce e i suoi usi interessati, però chiediamo in cambio che si chiuda presto questa fase di transizione e che una nuova Repubblica raggiunga il suo stabile assetto politico senza scorciatoie moralistiche e supponenze tecnocratiche. Se così fosse, vent’anni non sarebbero passati invano, nessuno accamperebbe filosofiche scuse dietro cui lasciar penetrare interessi privati nella cosa pubblica e la politica potrebbe forse tornare a dimostrare tutta la sua capacità. E onestà.

(L’Unità, 12 febbraio 2012. In rete si può scaricare l’intero inserto, qui

Che bello quando litigavamo su Sanremo

Aleandro Baldi: chi era costui? Ma il vincitore del Festival di Sanremo edizione 1992, di cui quest’anno si celebra (si fa per dire) il ventennale. Correva nella sezione nuove proposte in coppia con l’indimenticata, ma in fondo dimenticata, Francesca Alotta, e vinse con Non amarmi, di Baldi-Bigazzi-Falagiani.

E chi era Francesco Oliverio? Questa è più difficile. Per rispondere, ci vuole l’Enciclopedia di Sanremo, che fa la storia del Festival dalla A alla Z. Dunque: Oliverio era un giovane musicista casertano, autore di Se finisce qui, che a Baldi intentò causa, accusandolo di plagio.

Ma non è di loro due che vi volevo parlare, bensì del grande Morricone, che chiamato in veste di perito a dirimere la questione sentenziò: la canzone di Aleandro Baldi, vincitrice del Festival, non reca traccia sia pur minima di un’idea originale. Il guaio è che per Morricone mancava completamente di originalità anche la canzone di Oliverio. Entrambi i brani, scriveva sul finire della prima Repubblica, ricordano non questa o quella canzone, ma “decine, centinaia, migliaia di brani del passato e di oggi”. Per Oliverio, purtroppo, nessuna speranza: rivendicare paternità, in questa condizione, è cadere nel ridicolo. Ma nessuna pietà nemmeno per la musica leggera. E per Sanremo, che pure quest’anno torna, immarcescibile, per la sessantaduesima volta.

Si dice: il mondo è cambiato, il Festival, lui, però non cambia. È cambiata l’industria discografica, passata dai 78 giri agli mp3, dalla radio ai videoclip, lasciandosi alle spalle il vinile e il dvd per approdare (con serie difficoltà) nel caotico mondo del file sharing; il Festival, invece, è lì, sempre uguale: serata più, serata meno. È cambiata la musica italiana, passata da Nilla Pizzi e Achille Togliani a Domenico Modugno e Adriano Celentano, dai cantautori impegnati alle più recenti contaminazioni con il gusto internazionale: il Festival, lui, non sempre se ne è accorto ma ha tenuto botta lo stesso. Non ha avuto Mina o De André, ma Dalla e Battisti sì, e può dire di aver tenuto a battesimo stelle nazionali e internazionali. È cambiata pure la televisione: dal bianco e nero al satellite e al digitale, con i reality show che ormai selezionano partecipanti (e vincitori) del Festival, ma Sanremo è Sanremo e non perde smalto. E qualcuno dice persino che, grazie alla crisi, gli italiani se ne staranno di più a casa, con conseguente beneficio per gli ascolti. Cambiato, infine, è il mondo: perfino Andreotti non è più al governo né nei suoi paraggi, e pare che debba venir fuori, prima o poi, una terza Repubblica; ma si può star certi che anche quella troverà in Sanremo lo specchio del paese.

La parola definitiva sul funzionamento di questo specchio non sempre fedele la disse però Beniamino Placido, un bel po’ di anni fa. Da allora,  le cose non sono cambiate di molto. Placido ce l’aveva con un articolo apparso in prima pagina proprio sull’Unità – siamo nel 1986, c’era ancora il PCI –, a firma di Gianni Borgna. Il titolo diceva tutto: «Apologia del Festival di Sanremo». E cioè, grosso modo: smettiamola di fare le bucce a questo grande spettacolo nazional-popolare; non illudiamoci che popolare sia sempre sinonimo di impegnato o di progressista, e non crediamo neppure che popolare voglia dire per forza brutto o volgare. Seguiamolo, anche perché nella sua storia ha proposto fior di canzoni e fior di artisti. A parte il giudizio di merito, era il tentativo di scardinare gli ormai invecchiati codici della cultura comunista, gli anatemi francofortesi contro l’industria culturale e gli spettacoli di massa, e non da ultimo anche gli echi tardivi della liturgia berlingueriana dell’austerità.

Un atteggiamento più condiscendente nei confronti dei luoghi comuni, in effetti, ci sta. Certo, un compositore come Morricone non troverà un briciolo di originalità nei motivetti sanremesi, ma, dopo tutto, il compito del Festival non è quello di allevare un nuovo Bach o un novello Beethoven. Nell’86 il Festival era soprattutto una vetrina discografica; oggi è innanzitutto uno spettacolo televisivo: in entrambi i casi, è chiaro che non si tratta di un antico Conservatorio musicale o dell’Accademia di Santa Cecilia. Ma c’è  che la cultura di un paese è qualcosa di condiviso, e la condivisione non si realizza se non in un luogo medio, alla portata di tutti. Ciò è vero anche oggi, ed è una verità che va persino difesa, contro l’idea che un patrimonio culturale comune possa formarsi a partire, come si dice oggi, dai consumi di nicchia. Circola infatti questa opinione, parecchio liberale – e chi non è liberale, di questi tempi? – che siccome ognuno si può fare la propria playing list, secondo i propri individualissimi gusti, la cultura di un popolo o di una nazione non può che essere la semplice risultante di tutte queste microculture di nicchia. Ma le cose non vanno così: appartenenze o identità non si creano per il fatto che ognuno prende da uno stesso guardaroba gli abiti che vuole, ma dal fatto che ogni tanto ci si mette tutti negli stessi panni.

La parola definitiva di Placido, in quel lontano articolo su Sanremo e dintorni, sta comunque qui. Provo a dirla così: vada per la cultura popolare di massa e vada pure per Sanremo specchio del paese. Qualche canzone non è malaccio e anche se gli antichi fasti non torneranno qualcosa di buono ci capiterà ancora di ascoltare. Però Sanremo funziona da specchio non per quel che vediamo, ma per come lo vediamo. E oggi, concludeva Placido con un punta di amarezza, non può funzionare solo così, che ci si deve tutti insieme ritrovare, per settimane e settimane, a parlare di Sanremo e alimentare il mito, al punto che persino sull’Unità non si trovano più i vecchi fustigatori di una volta. Un po’ di nostalgia per il tempo in cui, in un paese “felicemente diviso”, quello che sembrava un comunista veniva indicato a dito, è lecito averla. Un po’ di differenza e di diffidenza, insomma, nel modo in cui guardiamo le stesse cose, ci vuole. Senza scomodare l’altro mito, quello della diversità dei comunisti – dopo tutto, anche i comunisti ascoltavano Gino Latilla e Sergio Endrigo –, ma senza neppure rinunciare alla critica: non solo o non tanto di Sanremo, ma anche dell’idea che non ci si possa dividere mai e in nessun caso. E a pensarci: il paese che si divideva fra comunisti e democristiani, Coppi e Bartali, cresceva; questo, in cui tutti insieme amiamo appassionatamente Mario Monti e Sanremo, ancora no. Ma aspettiamo, con fiducia, di vedere il Festival. Buona visione a tutti.

L’Unità, 5 febbraio 2012

La beneficenza show del Molleggiato

L’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, diceva La Rochefoucauld, con il sorriso del moralista disincantato. Ma forse, per prendere col dovuto distacco la notizia che Adriano Celentano sarà a Sanremo e devolverà in beneficenza il suo compenso – la bellezza di 350.000 euro a serata – non basta neppure servirsi della massima dell’uomo di mondo. Perché di simili omaggi ne stiamo vedendo un po’ troppi, ultimamente, e il bello è che vanno sempre alla stessa maniera. Fase uno: la Rai, o chi per Lei, cerca il personaggio di successo, il big che faccia parlare di sé e dell’evento prima, durante e dopo lo spettacolo. Fase due: si avvia la trattativa tra la parte pubblica, che mette i soldi, e la parte privata, che pratica prezzi di mercato, ossia: cifre a parecchi zeri. Fase tre: imbarazzo generale, articoli di giornale sull’opportunità della spesa, mugugni. La protesta cresce e si passa così alla fase quattro: il personaggio di successo mostra improvvisamente tutta la sua generosità, e devolve l’onorario a favore di famiglie bisognose, o di meritori istituti di ricerca, di enti assistenziali o di organizzazioni del volontariato.

Tutto bene quel che finisce bene, si dirà: però perché comincia male, e si raddrizza solo in corso d’opera? Forse in tutte e quattro le fasi, almeno stavolta, qualcosa che non va c’è. In primo luogo, non è entusiasmante la prospettiva di star lì a interrogarsi per una settimana sul significato dei monologhi di Celentano, che nell’ultimo disco ha mostrato di aver a cuore il destino del pianeta più di quanto abbia a cuore quello delle sette note. Per carità: Celentano è il Festival, un grande artista, la storia della musica italiana: non è però la storia della filosofia, e neppure la coscienza del paese. Sarà pure un segno dei tempi, ma forse non è ancora inevitabile che ci si tolga il cappello dinanzi all’interprete musicale che si atteggia a intellettuale pensoso, o al comico che si veste da profeta, o al cantautore che veste i panni del manager (salvo dimettersi quando monta il malcontento). Certo, se le università fanno a gara a concedere la laurea honoris causa a motociclisti e rocker, non ci si può sbalordire che il dubbio amletico dei nostri tempi sia se questo o quello è rock oppure lento. E però un po’ di stucco si rimane ugualmente.

In secondo luogo, non si capisce come mai alla decisione di dare tutto in beneficenza si arrivi non per uno spontaneo moto dell’animo, non per uno slancio improvviso del cuore, ma solo dopo che si è levato un chiassoso coro di disapprovazione: forse i vip diventano più buoni solo quando si accorgono che il pubblico se li vuole immaginare così. C’è un omaggio alla virtù da rendere, e coincide quasi sempre con la cura della propria immagine pubblica: è la moderna civiltà delle buone maniere, che si misura dalla disponibilità a devolvere il cachet (se fa troppo rumore).

In terzo luogo, non si capisce come vadano queste singolari trattative. Prima si accetta il principio del mercato: anche i cantanti sono professionisti. Poi, di colpo, si scopre che i valori di mercato, ottenuti grazie alla tigna di avvocati e manager, sono profondamente immorali. Mai che a qualche dirigente venga in mente che non si tratta solo di valori di mercato, ma anche di missione del servizio pubblico, che non dovrebbe accendersi o spegnersi a intermittenza, a seconda delle opportunità o degli umori della pubblica opinione.

Infine, non si capisce nemmeno come funzioni la generosità del Molleggiato. A caval donato non si guarda in bocca, d’accordo; però non si comprende perché la Rai, i cui conti non sono floridissimi, non la meriti proprio per niente. Alla Rai si spilla tutto, fino all’ultimo euro. Ma proprio perché la Rai e Sanremo sono il paese – si dice così, per spiegare l’importanza dell’evento, e della partecipazione del «Re degli ignoranti» – perché non si trova mai un cantante o un calciatore che invece di fare il bel gesto di elargire in beneficenza rinuncia alla parcella per amore del servizio pubblico? Perché la Rai non merita atti di liberalità? Certo, la gente capisce meglio che è beneficenza quella di donare a un ospedale o a una famiglia povera, ma che peccato: invece di accodarsi ai tanti che han fatto come lui, che prima han chiesto soldi e poi sono tornati sui propri passi quando han rischiato di apparire esosi, Celentano avrebbe potuto essere davvero originale: dare più valore al servizio pubblico che al suo gesto privato, ed esibirsi gratis. Di sicuro noi avremmo applaudito più convintamente. E comunque lo faremo volentieri, se ci regalerà qualche canzone in più, e qualche omelia in meno.

Il Mattino, 1° febbraio 2012