L’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, diceva La Rochefoucauld, con il sorriso del moralista disincantato. Ma forse, per prendere col dovuto distacco la notizia che Adriano Celentano sarà a Sanremo e devolverà in beneficenza il suo compenso – la bellezza di 350.000 euro a serata – non basta neppure servirsi della massima dell’uomo di mondo. Perché di simili omaggi ne stiamo vedendo un po’ troppi, ultimamente, e il bello è che vanno sempre alla stessa maniera. Fase uno: la Rai, o chi per Lei, cerca il personaggio di successo, il big che faccia parlare di sé e dell’evento prima, durante e dopo lo spettacolo. Fase due: si avvia la trattativa tra la parte pubblica, che mette i soldi, e la parte privata, che pratica prezzi di mercato, ossia: cifre a parecchi zeri. Fase tre: imbarazzo generale, articoli di giornale sull’opportunità della spesa, mugugni. La protesta cresce e si passa così alla fase quattro: il personaggio di successo mostra improvvisamente tutta la sua generosità, e devolve l’onorario a favore di famiglie bisognose, o di meritori istituti di ricerca, di enti assistenziali o di organizzazioni del volontariato.
Tutto bene quel che finisce bene, si dirà: però perché comincia male, e si raddrizza solo in corso d’opera? Forse in tutte e quattro le fasi, almeno stavolta, qualcosa che non va c’è. In primo luogo, non è entusiasmante la prospettiva di star lì a interrogarsi per una settimana sul significato dei monologhi di Celentano, che nell’ultimo disco ha mostrato di aver a cuore il destino del pianeta più di quanto abbia a cuore quello delle sette note. Per carità: Celentano è il Festival, un grande artista, la storia della musica italiana: non è però la storia della filosofia, e neppure la coscienza del paese. Sarà pure un segno dei tempi, ma forse non è ancora inevitabile che ci si tolga il cappello dinanzi all’interprete musicale che si atteggia a intellettuale pensoso, o al comico che si veste da profeta, o al cantautore che veste i panni del manager (salvo dimettersi quando monta il malcontento). Certo, se le università fanno a gara a concedere la laurea honoris causa a motociclisti e rocker, non ci si può sbalordire che il dubbio amletico dei nostri tempi sia se questo o quello è rock oppure lento. E però un po’ di stucco si rimane ugualmente.
In secondo luogo, non si capisce come mai alla decisione di dare tutto in beneficenza si arrivi non per uno spontaneo moto dell’animo, non per uno slancio improvviso del cuore, ma solo dopo che si è levato un chiassoso coro di disapprovazione: forse i vip diventano più buoni solo quando si accorgono che il pubblico se li vuole immaginare così. C’è un omaggio alla virtù da rendere, e coincide quasi sempre con la cura della propria immagine pubblica: è la moderna civiltà delle buone maniere, che si misura dalla disponibilità a devolvere il cachet (se fa troppo rumore).
In terzo luogo, non si capisce come vadano queste singolari trattative. Prima si accetta il principio del mercato: anche i cantanti sono professionisti. Poi, di colpo, si scopre che i valori di mercato, ottenuti grazie alla tigna di avvocati e manager, sono profondamente immorali. Mai che a qualche dirigente venga in mente che non si tratta solo di valori di mercato, ma anche di missione del servizio pubblico, che non dovrebbe accendersi o spegnersi a intermittenza, a seconda delle opportunità o degli umori della pubblica opinione.
Infine, non si capisce nemmeno come funzioni la generosità del Molleggiato. A caval donato non si guarda in bocca, d’accordo; però non si comprende perché la Rai, i cui conti non sono floridissimi, non la meriti proprio per niente. Alla Rai si spilla tutto, fino all’ultimo euro. Ma proprio perché la Rai e Sanremo sono il paese – si dice così, per spiegare l’importanza dell’evento, e della partecipazione del «Re degli ignoranti» – perché non si trova mai un cantante o un calciatore che invece di fare il bel gesto di elargire in beneficenza rinuncia alla parcella per amore del servizio pubblico? Perché la Rai non merita atti di liberalità? Certo, la gente capisce meglio che è beneficenza quella di donare a un ospedale o a una famiglia povera, ma che peccato: invece di accodarsi ai tanti che han fatto come lui, che prima han chiesto soldi e poi sono tornati sui propri passi quando han rischiato di apparire esosi, Celentano avrebbe potuto essere davvero originale: dare più valore al servizio pubblico che al suo gesto privato, ed esibirsi gratis. Di sicuro noi avremmo applaudito più convintamente. E comunque lo faremo volentieri, se ci regalerà qualche canzone in più, e qualche omelia in meno.
Il Mattino, 1° febbraio 2012
Si fà più rumore in questo modo
l’elemosina e la beneficenza sono il trucco con cui la cattiva coscienza sostituisce la giustizia.