Due sono le caratteristiche fondamentali della retorica populista, l’anti-intellettualimo e la personalizzazione, e Adriano Celentano, buon per lui, le incarna tutte e due. Hegel diceva che ogni cosa è un sillogismo, ed ecco infatti il sillogismo dell’altra sera: Adriano Celentano è la televisione, la televisione è anti-intellettualistica e personalizzante. Adriano Celentano è il campione dell’anti-intellettualismo e della personalizzazione. Appunto.
In conferenza stampa, il direttore artistico del Festival ha dichiarato che la performance del re degli ignoranti è stata “il massimo che potesse aspettarsi”: Celentano ha saputo riassumere l’intero suo percorso artistico (riassumere mica tanto: c’è voluta una buona oretta); ha saputo dire qualcosa che fa discutere (l’importante è infatti discutere, non importa di cosa), e lo ha fatto in un discorso articolato. L’articolazione, non stupitevi, è consistita nel contraddittorio messo in scena con Pupo. Visto il botto dei dati auditel, c’è poco da obiettare. Piuttosto, citiamo ancora Hegel – con grande faciloneria, si capisce, come conviene fare quando è Pupo a impersonare la voce critica: ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale. Ovvero: chi vince ha sempre ragione. Mazzi e Morandi vincono, Celentano vince: c’è dunque una logica in questa vittoria, ed è quella del sillogismo di prima, la logica della ragione populista. Che in salsa televisiva consiste sempre, ha spiegato Taguieff, “nel fare eco al desiderio di rompere con il sistema politico costituito, le élite politiche tradizionali o il gioco classico dei partiti”, solo che di nuovo ha il fatto che “trae l’essenziale della sua efficacia simbolica dalla risorse proprie dello spazio mediatico e dalla capacità telegenica del leader”. La descrizione si attaglia benissimo al vecchietto della via Gluck: mettete la Chiesa di Roma al posto del sistema politico, la “casta” dei preti al posto delle élite politiche e, invece dei partiti sporchi e cattivi, stampa e associazionismo cattolico: il gioco è fatto. D’altra parte, non è mica la prima volta che si scopre questa perfetta omologia fra politica e televisione. (E d’altra parte ancora: non è mica sicuro che l’antidoto al populismo sia la recente sobrietà tecnocratica: questa anzi sembra il rovescio speculare di quella, e forse terrà il campo almeno finché quella non sarà riassorbita).
A questo punto, però, Pupo, o chi per lui, potrebbe avere qualcosa da obiettare. E cioè: ma l’insofferenza verso classi dirigenti ed élite non l’aveva pure un certo Gesù? Non era lui che se la prendeva con scribi e farisei? Che dire della beata semplicità, del lasciate che i bambini vengano a me, della fede che è scandalo e stoltezza per pagani e giudei? Celentano queste cose volete che non le sappia? Fanno parte della sua personale Imitatio Christi, dal tempo del film «Joan lui» ad oggi. E se a Gesù andò male, è certo che anche Celentano saprà accettare le critiche come la croce che gli tocca di portare.
Poi però uno si ricorda la madre di tutte le scene populiste (si fa per dire): Gesù che caccia i mercanti dal tempio. E pensa: ma come è potuto accadere questo singolare rovesciamento, per cui prima si cacciavano dalla casa del Signore coloro i quali ne facevano mercato, mentre adesso, tutt’al contrario, si invoca la cacciata dei preti o la chiusura di Avvenire e Famiglia cristiana dal tempio della canzonetta, cioè dal cuore del mercato discografico e televisivo? Eh, già: perché il populismo ha un’altra caratteristica ancora: a parlare contro il potere è sempre uno che il potere ce l’ha. Politico, finanziario o televisivo poco importa, ma state sicuri che ce l’ha. E non lo molla facilmente.
L’Unità, 16 febbraio 2012