Archivi del mese: aprile 2012

Hegel: la logica del mondo globale

Chi se la sente di celebrare Hegel? Chi se la sente di celebrare la Scienza della Logica, il cui primo volume, la «Dottrina dell’essere», compie oggi duecento anni? Primo e in certo modo ultimo, dal momento che Hegel ne cominciò la revisione poco prima di morire, così che rimane di fatto il suo testamento filosofico. Ma chi affiderebbe oggi il proprio lascito spirituale a un’opera che pretende, nientemeno, di esporre il regno della verità, ovvero: “Dio  com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito”. Diciamolo francamente: nessuno. Da un bel po’ di anni i filosofi, e non solo loro, si sono così abituati all’idea che di verità supreme non c’è modo di stabilirne che accettano di buon grado di lasciare ad altri saperi, per esempio alla scienza, le indagini intorno ai fondamenti ultimi della vita o dell’universo, e si accontentano o di un conciliante relativismo, oppure di affermare piccole verità intorno a oggetti di formato quotidiano – montagne, ciabatte o cacciaviti – tutto il resto essendo abbandonato al mutevole gioco delle individualissime opinioni.

Hegel, invece, no. Eppure in quel lontano 1812 accadevano nel mondo fatti di tale portata, che non era mica così facile orientarsi nel pensiero: figuriamoci fare dell’idea assoluta l’unico contenuto della filosofia! Napoleone, per esempio, aveva sistemato il fratello Giuseppe sul trono di Spagna, e aveva avviato i preparativi per l’invasione della Russia. Le cose gli andarono male su entrambi i fronti: in Russia l’armata francese fu disfatta, da Madrid Giuseppe fu cacciato. L’“anima del mondo a cavallo” – così Hegel aveva definito l’imperatore apparso nel 1806 per le vie della sua città, Jena  – cominciava a claudicare un po’, e però il filosofo ne continuava a vedere, a ragione, il significato storico-universale.

E questo è un primo, ottimo motivo per non trascurare l’anniversario. Con Hegel, la filosofia si fa definitivamente consapevole della sua responsabilità pubblica. Hegel è il primo filosofo che interroga sistematicamente la posizione della filosofia e del sapere in generale rispetto al mondo. Prima di lui, i filosofi potevano trascurare di considerare da quale tribuna parlassero: collocati in quale angolo di mondo, parlando quale lingua, appartenendo a quale tradizione e anche, perché no?, vivendo e lavorando dentro quale sistema economico e politico. Tutte domande che solo con Hegel diventano ineludibili: se Cartesio e Kant avevano scoperto in filosofia il soggetto, Hegel ne ha arricchito, e di molto, il profilo. Il soggetto non è più un distaccato osservatore della natura, ma un uomo immerso nel mondo, che porta su di sé la responsabilità di condurre non solo i suoi privati pensieri, ma l’intera sua epoca al concetto, cioè ad un sapere razionale libero.

Che c’entra però la Scienza della logica, uno potrebbe dire? Questa è piuttosto materia della filosofia politica. E in effetti è nei famosi, anzi famigerati, Lineamenti di filosofia del diritto che Hegel formula espressamente questo problema: la collocazione della filosofia nella realtà. Siccome però la realtà nel frattempo era cambiata e l’ordine era stato restaurato: Napoleone era finito a Sant’Elena e la tempesta gallica era passata, eccolo tromboneggiare dalla più ambita cattedra tedesca di filosofia, a Berlino, contro l’assurda pretesa di ciascuno di dire la propria su questo e su quello, e soprattutto sullo Stato.

Questa è lo Hegel dipinto come illiberale quando in Europa, dopo la sua morte, torna a soffiare forte il vento della rivoluzione: prima liberale, poi democratica e socialista. Lo Hegel dello Stato etico, dello Stato totalitario: da giovane credente negli ideali della rivoluzione francese, nella maturità fervido fiancheggiatore della polizia prussiana. Il giudizio sullo Hegel politico resta, in effetti, controverso, ma va riconosciuto che nel suo sistema non si trovano né l’idea di una sfera pre-politica di diritti fondamentali, né la concezione liberale della separazione dei poteri, né il principio democratico del suffragio universale. Non si trovano, insomma, i lemmi fondamentali del lessico politico contemporaneo.

Poi però uno entra nelle pagine hegeliane, e vi trova ad esempio una coscienza acuta dell’insufficienza del gioco spontaneo degli interessi a comporre l’unità politica fondamentale che non è affatto inutile rimeditare. Trova le pagine sulla società civile, sulle quali nei decenni scorsi si interrogava tanta parte dell’intellettualità di sinistra in Italia e non solo (da Biagio De Giovanni a Giacomo Marramao a Roberto Racinaro, per fare solo qualche nome) e si accorge nuovamente che gli anatemi liberali passano di molto a lato dei nostri problemi attuali. Se la lasci fare, diceva Hegel, la società civile forma pochi sempre più ricchi da una parte, e molti sempre più poveri dall’altra: non un problema da poco, e non un problema che più non ci riguardi.

Problema che Hegel voleva mettere nel pensiero (e ricomporre grazie allo Stato). Non dunque risolverlo solo in teoria, lasciando in pratica le cose come stanno. Al contrario (al contrario anche di quanto pensava Marx), per Hegel si trattava di dare ai pensieri un posto nel mondo. E farlo in forza dell’idea che senza pensieri, senza un’unità di senso, il mondo non si tiene, e che il solo urto delle forze economiche non basta a fare un mondo.

I pensieri, a loro volta non provengono solo dalla testa delle persone, ma dal mondo stesso. Certo, l’individualismo resiste all’idea che i pensieri vanno raccolti non semplicemente dalle parole di ciascuno, ma nelle cose e tra le cose: costituiscono, diceva Hegel, l’automovimento della cosa stessa. Ma prendete pure tutte le prudenze del caso – e prendetele, invero, assieme allo stesso Hegel, il quale sapeva bene che il mondo cristiano-borghese aveva ormai introiettato definitivamente il valore infinito della soggettività – come non vedere che i pensieri sono contenuti rappresi negli oggetti del mondo, nei libri come nelle automobili, nelle leggi come nei computer? La Scienza della Logica non modula in fondo che quest’unico pensiero. E quanto sarebbe salutare se qualche filosofo lo coltivasse ancora, invece di tirare i remi in barca e rassegnarsi a dar forma alle proprie personali idiosincrasie.

Alla fine, cosa insegna infatti la Scienza della Logica? Che la libertà anche per il pensiero è una conquista. “Assoluto” vuol dire infatti solo “assolto”, sciolto cioè da vincoli e legacci che il mondo, quando ne subiamo la logica, ci impone. Pensare liberamente è possibile non fuggendo via nei propri privatissimi pensieri, ma immettendosi nel mondo e dopo averlo tutto pensato, tutto portato al concetto. E, a pensarci, la prima liberazione, quella del singolo individuo, è roba di pochi; l’altra, invece, è roba che non può non investire i molti, anzi potenzialmente tutti.

L’Unità, 28 aprile 2012

Fischi a Bossi la piazza non perdona

Le sparate di Umberto Bossi. Alzi la mano chi non ricorda i Winchester e le pallottole, i celodurismi e le altre volgarità del leader della Lega, da più di vent’anni sempre lì a minacciare di calare su Roma ladrona oppure di imbracciare il fucile. Tutta una retorica accompagnata da diti medi e gesti dell’ombrello, pernacchie e pugni alzati, che ha un unico scenario naturale: non certo le aule parlamentari o gli uffici ministeriali, non i social network e gli spot elettorali ma la piazza, il luogo fisico dell’incontro con gli elettori, con i padani veri. Ma sta il fatto che in piazza Bossi non ci può più andare come prima. Che la fisicità del suo rapporto con gli elettori leghisti rischia di riservargli qualche ruvidezza imprevista fino a poche settimane fa. Che perciò sarà più prudente per lui tenere d’ora innanzi i comizi nelle sedi della Lega. Che se si affaccia da un palco a fianco di un candidato sindaco per fare campagna elettorale rischia di vedere rivolto al suo indirizzo tutto il repertorio di insulti, gesti derisori e spacconate che per anni ha creduto di poter liberamente rivolgere ai suoi avversari politici.

Singolare destino: l’uomo della canottiera, dell’ampolla del Po, dei dialetti valligiani e di altre smargiassate, passato prima a fare il compassato ministro delle riforme istituzionali dell’ultimo governo Berlusconi, e finito poi a parlare al riparo del cerchio magico o, peggio ancora, dietro la cortina di un robusto cordone di forze dell’ordine che lo protegge dalle intemperanze della base.

Può darsi che l’episodio dell’altro ieri, quando a Crema qualche decina di leghisti arrabbiati ha srotolato striscioni contro la Lega “predona”, non si ripeterà altrove: di certo in casa Lega dovranno però mettere qualche attenzione in più al rapporto del vecchio Capo con l’elettorato, E che tristezza vederlo ancora agitare i pugni, in replica alle inattese contestazioni, come quel tale che, essendo ben sicuro che sarà trattenuto, finge di divincolarsi minacciando sfracelli. Sembra proprio che nulla verrà risparmiato a Bossi: nemmeno un finale da avanspettacolo, magari con lancio di ortofrutta offerta dai sempre arrabbiati agricoltori padani.

D’altra parte, chi deve rubare la scena (e la piazza, e il repertorio di improperi), c’è già. È Beppe Grillo. Il che la dice lunga sull’odierna comunicazione politica. Grillo infatti ne rifiuta le forme più riflessive e mediate, il contraddittorio e l’intervista; disdegna i media tradizionali e usa invece massicciamente la Rete, il blog, i social network. Ma non trascura affatto i comizi. E nei comizi suda, grida, si sbraccia, strappa l’applauso con una battuta (o, altrettanto spesso,  con un insulto). Come il Bossi prima maniera, che non a caso ha in più di un’occasione dichiarato di apprezzare.

Ora, non è affatto un paradosso che nell’incipiente epoca della realtà virtuale la realtà fisica reclami tanto spazio. Quanto più anzi si artificializzano le relazioni sociali, tanto più la realtà naturale prende per contraccolpo un significato di autenticità, di spontaneità, di genuinità, che richiede solo di essere liberato da ritualità e formalità. Perciò Grillo non parla più da un palco o da una tribunetta, ma cammina avanti e indietro sul limitare del palco, realizzando una performance invece di pronunciare semplicemente un discorso.

Anche i partiti politici della prima Repubblica stavano in piazza, manifestavano, lanciavano parole d’ordine. Ma il tutto veniva filtrato attraverso protocolli codificati, che mantenevano una distanza razionale, ‘verticale’, tra la schiera dei militanti e il leader politico. Oggi, invece la piazza, o la passseggiata  in mezzo alla folla, ha il significato del contatto reale, ‘orizzontale’, immediato, viscerale e non cerebrale. Non si tratta tanto di una maggiore identificazione, ma di una diversa identificazione. Identificazione non più nel proprio ‘campione’, nel migliore di noi, ma in quello che più ci assomiglia. Che è proprio come noi, parla come noi e si incazza come noi.

Solo che questo Bossi non se lo può più permettere. Grillo magari sì, lui no. Alza ancora i pugni o la voce, ma strappa al più un sorriso di commiserazione, come il vecchio attore che si ostina a voler calcare ancora gli assi del palcoscenico, quando il suo tempo è scaduto.

Vedremo molto presto se a Maroni basterà il vecchio copione del federalismo per tenere in piedi la baracca, o se invece, finita la recita di Bossi e dopo i biglietti staccati dalla Family, sulla Lega calerà definitivamente il sipario.

Il Mattino, 29 aprile 2012

Grillo-Di Pietro l’ultima faida dei due tribuni

Sotto la gragnuola di insulti rivolti da Beppe Grillo all’indirizzo del “corteo di salme” che avrebbe celebrato la Resistenza, è  forse il caso di citare a nostra volta: “Cari amici, allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica è stato il più terribile risultato di un’opera di diseducazione ventennale, che è riuscita a inchiodare in molti di noi dei pregiudizi, fondamentale quello della «sporcizia» della politica.”: sono le parole di Giacomo Ulivi, anni 19, fucilato il 10 novembre 1944, ricordate da Giorgio Napolitano in occasione del 25 aprile. Sono parole che lasciano il segno, e che è merito del Presidente della Repubblica avere riproposto in un momento così delicato per il nostro Paese, per la sua classe politica e per i partiti. Sono parole necessarie: non per assolvere i partiti politici dalle loro responsabilità, che ci sono tutte, ma al contrario perché se le assumano nuovamente, così come seppero assumersele in momenti ancora più difficili di quelli che stiamo attraversando. Parole che contengono anche la risposta alla domanda che dalle colonne de Il Fatto ha formulato Antonio Di Pietro. Piccato dal richiamo del Presidente, che invitava a non dare ascolto ai demagoghi di turno, spaventato forse al pensiero che gli stia per toccare in sorte di passare il turno al demagogo più demagogo di lui, ossia a Grillo, il leader dell’Idv si è chiesto se fosse antipolitica il referendum sull’acqua o la proposta di abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, cioè le campagne in cui ha voluto impegnare il suo partito. E mentre se lo chiedeva con finta ingenuità, non trovava di meglio che denunciare come supremo pericolo per il paese non la demagogia, il populismo o l’antipolitica, bensì i partiti, i veri “traditori della Resistenza” che andrebbero cacciati “a calci nel sedere”. Vale a dire: metto lì due proposte, ma i voti me li conquisto dando loro il preciso mandato di coltivare il pregiudizio sulla sporcizia della politica.

Come del resto Grillo, con il quale Di Pietro deve sentirsi in corsa. Anche Grillo ha le sue brave proposte: l’uscita dall’euro, ad esempio. E anche lui le butta lì tra un insulto e l’altro, con l’intenzione precisa di delegittimare la classe politica tutta quanta, indiscriminatamente, immaginando persino, non è chiaro se per ignoranza o per disprezzo, che i partigiani prenderebbero oggi la mitraglia contro il Parlamento eletto, che lui giudica, con fine sapienza giuridica, “peggio di quello fascista”.

Ma cacciamoli pure, i partiti: cosa ci dovremmo mettere al loro posto? “Rifiutarli in quanto tali – si chiede il Presidente – dove mai può portare”? O Di Pietro e Grillo immaginano di governare il paese a colpi di manette, referendum popolari e scomuniche a mezzo blog? Nel discorso di Napolitano, non c’era solo una sottolineatura forte e convinta, a norma di Costituzione, del ruolo decisivo dei partiti, ma anche l’invito pressante a fare le riforme, nella consapevolezza della dimensione europea dei problemi che abbiamo dinanzi. Ma per il comico genovese basta uscire dall’euro, et voilà.

Per il resto, quel che gli interessa è alimentare l’illusione che se potessimo liberarci della classe politica saremmo tutti più ricchi, sani e belli, quando invece non solo non ci ritroveremmo affatto più ricchi, ma di sicuro sarebbe impoverita l’articolazione sociale, politica e istituzionale del Paese, con grave nocumento per la sua tenuta democratica.

Napolitano sta provando da qualche mese a indicare la via, spronando partiti e parti sociali a cercare insieme le soluzioni per riprendere la strada della crescita: non solo economica, si vorrebbe aggiungere, ma anche civile. E mentre prova così a favorire un rinnovato clima di fiducia e di leale collaborazione, Di Pietro e Grillo si danno di gomito e cercano di aizzare sentimenti contrari. Tanto il Presidente invita a abbandonare le campagne contro i partiti in quanto tali, tanto i due grandi moralizzatori le conducono e le cavalcano.

Che allora qualcuno spieghi loro perlomeno questo: che del metodo democratico richiesto dalla Costituzione perché i partiti concorrino a determinare la politica nazionale, nei loro personalissimi movimenti e partiti c’è, chissà perché, poca, pochissima traccia. Di sicuro meno di quanta ce ne sia nei partiti che tanto disprezzano.

Il Mattino, 27 aprile 2012

I suicidi della crisi. L’Italia nel buco nero

La morte è un buco. Ma non come i buchi che si aprono nel terreno, come i crepacci sui fianchi delle montagne o come un muro rotto. Perché è un buco profondissimo e senza contorni. Un buco privo di orli, senza transenne. Se guardate il mondo da lontano non lo vedete: l’uomo che viveva gli affanni e le delusioni della vita con grande pena e fatica, l’uomo che era al lavoro con i colleghi oppure a casa, che scherzava con gli amici la sera oppure guardava la televisione in famiglia, quell’uomo ora non c’è più; ci sono però le stesse cose di prima, la casa il lavoro la cena le stesse persone. Il mondo è uguale a prima, pieno come prima, ma lui non c’è più, è finito nel buco. Derrida diceva che la morte è ogni volta unica, ogni volta è la fine del mondo, ma è molto più intollerabile pensare che il mondo, invece, c’è ancora, continua, sopravvive, impassibile e indifferente alla morte di ognuno.

Questo pensiero non ha bisogno della scomparsa di una persona cara per trovare insopportabile, ingiusto, incomprensibile, come possa accadere oggi che in quella casa non ci sia più la ragazza che ieri si è tolta la vita perché non riesce a trovare un lavoro degno di questo nome. Come possa scorrere ancora, lento e rumoroso come prima, il traffico cittadino, nella strada in cui un commerciante si è dato fuoco perché non riesce a far fronte ai debiti. Come possano riprendere domani le attività nella fabbrica del piccolo imprenditore che oggi ha deciso di farla finita. Il mondo scorre come prima, uguale a prima, e tutto continuerebbe senza sforzo, giorno dopo giorno, se noi non ci fermassimo a riflettere sui buchi che si aprono nella pelle del mondo, se lasciassimo che il mondo si richiuda senza pietà né memoria sugli squarci improvvisi della morte.

Questa, di fermarsi; questa, di pensare; questa, a volte, di pregare, è l’opera di una cultura. Una società possiede una cultura, un senso comune, un’identità e un compito se è in grado di costruire un bordo tutto intorno al buco, come il giardiniere che recinge con cura l’aiuola, o il muratore che tira su con pazienza un muro. Da quel momento in poi, si potrà vedere il buco: qualcuno se ne ricorderà, qualcun altro imparerà qualcosa.

Ma quanto è più importante che si compia quest’opera, quando il buco si è aperto per mano di colui che, perdendo all’improvviso l’equilibrio, vi è precipitato dentro: senza apparente motivo eppure con ogni motivo. Con i motivi di una vita sentita come fallimentare, di una responsabilità percepita come troppo grande, di una solitudine sentita come irrimediabile, troppo densa e nera. Con i motivi che le cronache di questi giorni ci raccontano con sgomento: motivi che hanno messo radici e si sono arrampicati come idre nella psiche di chi si è ucciso, ma che provengono da fuori: vengono da un mutuo non concesso, da un rapporto di lavoro interrotto, da un’ingiustizia patita. Vengono insomma  dal mondo in cui noi ci siamo ancora: come prima, ma sapendo ormai che non dobbiamo lasciare che tutto vada come prima.

La morte, quanto a lei, non appartiene al morto: per questo ce ne occupiamo da vivi. Ma suicida è chi aveva tutti i motivi per non sentire più come sua neppure la vita. Perciò quanto maggiore è l’opera che spetta a noi, per restituire insieme il senso di quella morte e di quella vita. Si rimane sbigottiti di fronte alla percentuale di suicidi che in questi mesi le statistiche registrano. È la crisi: piani di vita spezzati, speranze frustrate, conti che non tornano, sguardi che non si riescono più a sostenere: tra colleghi, tra familiari, tra amici.

La crisi è però solo il nome economico di un dramma che non è meramente individuale ma sociale, sia per cause che per dimensioni, ma quel che spetta a noi di fare appartiene anche all’etica e alla politica, ed è dell’ordine di ciò che rende la politica non semplicemente un affare di potere, ma l’impegno collettivo in cerca di un senso. Perché peggio di una politica che si spende solo per il potere c’è solo una politica del tutto impotente a costruire qualcosa come un senso.

Un senso, un piccolo muricciolo intorno al buco senza margini della morte.

Il Mattino, 18 aprile 2012

Hegel


CONGRESO INTERNACIONAL

 LÓGICA DE LA CONSTITUCIÓN, CONSTITUCIÓN DE LA LÓGICA

(A la luz de 200 años de la Ciencia de la Lógica, de hegel).

16-20 de abril de 2012

Círculo de Bellas Artes – Departamento de Filosofía de la Universidad Autónoma

Colabora el Instituto Goethe de Madrid

PROGRAMA

FACULTAD DE FILOSOFÍA Y LETRAS

UNIVERSIDAD AUTÓNOMA DE MADRID (CANTOBLANCO)

(13 HORAS)

SALA DE CONFERENCIAS (PLANTA BAJA)

 LUNES, 16 

Prof. Massimo Adinolfi: Hegel y el ateísmo del mundo político.

  SALA DE JUNTAS DEL DECANATO

(PRIMERA PLANTA)

MARTES, 17

Prof. Román G. Cuartango: Lógica de la Idea y comprensión especulativa del Estado.

SALA DE JUNTAS DEL DECANATO

(PRIMERA PLANTA)

MIÉRCOLES 18

Prof. Ernesto Forcellino: El lugar de la lógica, entre el arte y la política.

SALA DE JUNTAS DEL DECANATO

(PRIMERA PLANTA)

JUEVES 19

Prof. Jacinto Rivera de Rosales: Constitución y realidad efectiva histórica.

(CÍRCULO DE BELLAS ARTES)

TARDES, 19.30 HORAS

LUNES 16 DE ABRIL – MODERA: Jorge Pérez de Tudela

Bernard Bourgeois :  Lógica del Estado y Estado de la Lógica

Jean-François Kervégan: La ciencia de la idea pura

 MARTES 17 DE ABRIL – MODERA: Valerio Rocco

José Luis Villacañas: Sattelzeit y Ciencia de la Lógica: el caso español de Cádiz 1812.

MESA REDONDA – Luciana Cadahia / Antonio Gómez / Valerio Rocco / Gonzalo Velasco: Sujeto, historia y política.

MIÉRCOLES 18 DE ABRIL – MODERA: Félix Duque

Jorge Pérez de Tudela : Sobre la antigua pasión de los hombres por levantar monumentos.

Vincenzo Vitiello : La constitución lógica de la Objetividad. La cuarta forma del silogismo hegeliano.

 JUEVES 19 DE ABRIL – MODERA: Félix Duque

Klaus Vieweg : El Estado como ‚Sistema de tres silogismos‘. La fundamentación lógica hegeliana de la idea del Estado.

Walter Jaeschke: Una nueva configuración del pensar y la realidad.

VIERNES 20 DE ABRIL -MODERA: Jorge Pérez de Tudela

Juan Manuel Navarro Cordón: Individuo y Estado.

Félix Duque: Sujeto y libertad.

La Grande Scorciatoia

Quando, nell’agosto del 2005, Mario Monti rilasciò a La Stampa l’intervista alla quale ha voluto riferirsi due giorni fa, concedendone un’altra allo stesso giornale, si sollevò un dibattito ampio e animato intorno all’ipotesi formulata con grande precisione dall’ex commissario europeo: “non  un partito di centro ma un’operazione di centro, nel senso che richiede il convergere di sforzi da destra e da sinistra ed è indispensabile non solo alla sopravvivenza del mercato ma della stessa democrazia”.

Come adesso, così anche allora mancava circa un anno alle elezioni; anche allora, il centrodestra non aveva dato prova di buon governo. Monti però dava un giudizio non lusinghiero non solo sul governo Berlusconi, ma anche sull’opposizione. A suo giudizio, né il centrodestra né il centrosinistra avrebbero potuto realizzare quelle “riforme liberali” di cui il paese aveva impellente bisogno.

Il centrodestra perse le elezioni, il centrosinistra le vinse di un’incollatura e franò poi al governo: le tanto attese riforme non furono fatte, coi risultati che sappiamo (aggravati da un nuovo ciclo berlusconiano, l’ultimo e certo il peggiore). In continuità con il giudizio di allora, il Monti di ora attribuisce dunque all’attuale esperienza di governo il valore di primo passo in direzione dell’“operazione di centro” già prospettata nel 2005.

Monti riprese nuovamente la parola una settimana dopo, sul Corriere, per rispondere alle critiche. Gli fu facile lasciar cadere le obiezioni fondate sulla debolezza delle forze politiche di centro, e più chiara si fece l’idea che l’operazione somigliava piuttosto a una grande coalizione che a un grande centro. Il punto stava per lui nel fatto che, sotto il profilo del governo dell’economia, i due poli erano più vicini fra loro di quanto non lo fossero al loro interno. Quanto ciò fosse vero allora e sia vero oggi è difficile a dirsi. Sensibile poi all’argomento di quanti gli avevano fatto osservare che una grande coalizione avrebbe cancellato “l’unico progresso istituzionale fatto dall’Italia dopo gli scandali degli anni Novanta” (Sergio Romano), cioè l’alternanza fra i due poli, rispose che considerava anche lui il bipolarismo un passo avanti, e tuttavia non poteva non notare che tutti i difensori dell’assetto bipolare riconoscevano la necessità di miglioramenti così sostanziali, che, in assenza, il sistema politico si presentava piuttosto come “una grande frittata che non funziona” (Giovanni Sartori).

E così siamo, io credo, al punto. Non però allo stesso punto di allora. Non solo perché si è realizzata una delle condizioni che agli occhi degli osservatori impediva il realizzarsi dell’operazione, cioè l’uscita di scena di Berlusconi (e da ultimo pure di Bossi), ma perché nelle stesse parole del Monti di allora stava la consapevolezza che la grande coalizione era un’ipotesi subordinata rispetto alla prima urgenza, cioè un sistema politico da riformare. Il che era tanto più vero in quanto, nelle parole di Monti, ad essere minacciata non era solo la sopravvivenza del mercato, ma della stessa democrazia.

Quel che allora accadde, grazie alla sciagurata introduzione del Porcellum, fu in realtà studiato apposta non per riformare il sistema politico, ma per incepparlo ulteriormente – cosa che in effetti non mancò di accadere con la striminzita vittoria dell’Unione. Ex contrario, sappiamo cosa ci occorre innanzitutto oggi: far ripartire la politica. E dunque: il superamento del Porcellum e la riforma istituzionale, meglio ancora se accompagnata dall’attuazione dell’art. 49 della Costituzione (quello che recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”).

Tanto più che sono ancora le parole di Monti (questa volta dell’ultimo Monti) a richiamare implicitamente la necessità che si delineino chiare visioni politiche alternative, non offuscate da supposte neutralizzazioni tecniche. Monti mantiene infatti la caratterizzazione dell’attuale esperienza di governo come tecnica, distinguendola da una “nuova fase di governi politici”. A questa distinzione si deve certo obiettare che tutti i governi sono politici, nella misura in cui ricevono in Parlamento il sostegno delle forze politiche, ma è evidente che la più forte ragione per mantenerla da parte del Presidente del Consiglio è non la competenza professorale sua e degli altri ministri (in fondo, anche Prodi era un professore universitario, anche se non bocconiano), bensì l’esigenza di mettere il governo al riparo della cattiva fama di cui godono i partiti. Segno che, di nuovo, è da lì che bisogna ripartire, se non si vuole assecondare definitivamente un clima e una piega, che, complici gli ultimi eventi, non promette nulla di buono. Non tanto o non solo per i mercati, che peraltro sono forti abbastanza per far sentire le loro ragioni, quanto per la tenuta della democrazia, le cui ragioni, dopo tutto, tocca ancora ai partiti far valere.

L’Unità, 6 aprile 2012

Maggioritario magico

Nel dibattito sulla riforma della legge elettorale torna a disegnarsi uno spartiacque che aveva preso forma anche all’inizio degli anni 90 tra fautori del proporzionale e fautori del maggioritario. Siccome l’accordo fra i partiti sembra pencolare dalla parte dei primi, sono oggi i fautori del maggioritario a lamentare una riforma che, ai loro occhi, appare più come una controriforma, un ritorno alla bassa cucina della prima Repubblica, ai governi fatti e disfatti in Parlamento (come se, appunto, il Parlamento fosse una bassa cucina), allo scippo del potere che il principio maggioritario assegnerebbe senz’altro ai cittadini di scegliersi il governo il giorno stesso delle elezioni, senza le deprecate trattative tra i partiti (come se in Costituzione non fosse scritto che i governi nascono con la fiducia del Parlamento, e non con il solo suffragio elettorale). A chi obiettasse che nei vent’anni che sono alle nostre spalle il maggioritario non ha dato gran prova di sé, viene risposto che ciò è dipeso da tutto il resto: dalle riserve proporzionali previste dalla legge, dai regolamenti parlamentari che favoriscono il frazionamento dei gruppi politici, dai rimborsi elettorali ai partiti che ne certificano – per dir così – l’esistenza in vita ben oltre il necessario, e così via. Da tutto, insomma meno che dal maggioritario.

Ci può stare. Quel che però non ci può più stare è la semplificazione, usata con grande disinvoltura, per cui maggioritario significherebbe di per sé efficienza e proporzionale significherebbe di per sé inefficienza; il primo sarebbe moderno e il secondo sarebbe logoro e stantìo. Siccome è evidente che si può mettere un sistema proporzionale in condizione di funzionare, così come si può mettere un maggioritario in condizione di non funzionare (ne abbiamo avuto ampiamente prova), deve essere altrettanto evidente a tutti che sistemi elettorali diversi disegnano sistemi politici diversi, i quali però non sono in astratto buoni o cattivi, ma lo sono invece nelle condizioni storiche, culturali, sociali in cui sono chiamati a vivere. Non c’è politologia che tenga, e neppure analisi comparata di sorta: non sarà la dimostrazione che in Germania funziona così, o in Francia colà, a rilasciare il giudizio storico-politico che ci occorre, per una decisione che supera di gran lunga la tecnicalità elettorale e riguarda nientemeno che un’idea di Paese. Lo stesso mantra del bipolarismo andrebbe recitato con maggiore circospezione. La Prima Repubblica (che era proporzionale) è stata bipolare: quella che è mancata è stata l’alternanza. La Seconda Repubblica (che è stata, grosso modo, maggioritaria) ha invece avuto l’alternanza, scandita con la regolarità di un pendolo. Ma a giudicare dai cambi di casacca, e dall’ultimo governo Berlusconi-Scilipoti, è persino opinabile che, con tutto il berlusconismo e l’antiberlusconismo del mondo, sia stata più nettamente bipolare di quanto sia stata la prima.

Il fatto è che se il sistema politico è frammentato non sarà una legge maggioritaria a ricompattarlo, se non forzosamente. Quel che ci occorre è invece un ricompattamento intorno a progetti politici, non  a mere premialità elettorali – che, come s’è visto, serviranno pure il giorno delle elezioni a darci un governo, ma non lo mettono in condizione di governare negli anni successivi.

E dunque? Dirò una cosa lievemente paradossale: non deprecherei i partiti che si facessero la legge elettorale a loro uso e consumo. Mi domando piuttosto: a uso e consumo di chi, in alternativa, dovrebbero farla? A parte demagogia populiste o tecnocratiche, se si crede ancora nella democrazia rappresentativa, e se non ci si compiace dell’aristocrazia democratica che – secondo Ilvo Diamanti su Repubblica di ieri – sarebbe di fatto il principio del montismo, cioè della fase politica attuale – c’è solo da augurarsi che i partiti ci vedano giusto e si facciano davvero una legge a loro uso e consumo. Che li aiuti a rendere compatte anzitutto le loro ragioni, senza frazionarle in mille coriandoli proporzionali ma senza neppure confonderle in inutili cartelloni maggioritari. Perché certo, le leggi si fanno per il Paese e per i cittadini, ma non c’è altro modo di definire quello che serve al Paese o alla generalità dei cittadini che non sia per l’appunto il voto alle formazioni politiche in libere elezioni.

L’unità, 3 aprile 2012

Tasse, se lo Stato viene meno al suo compito

“Si consideri il caso del pagamento volontario delle tasse sul reddito”: ecco, è proprio quello che nessuno si sognerebbe, di questi tempi, di considerare. A giudicare dai dati diffusi in questi giorni, il problema non è che non si pagano volontariamente le tasse, è che ci sono quelli (e non sono pochi) che le tasse non le pagano affatto. E quelli che le pagano, avvertono tutto il peso di un’ingiustizia evidente, palese, smaccata. Nel mondo alla rovescia in cui ci è dato di vivere, il dipendente paga in media più del datore di lavoro: il che rende incomprensibile perché allora non sia il primo a dare lo stipendio al secondo.

Tuttavia, il filosofo che comincia il suo ragionamento da ipotesi del terzo tipo e casi improbabili come quello suggerito non è poi così bislacco come sembra. Anche perché si tratta di John Rawls, e delle sue lezioni di storia della filosofia politica. Dunque, d’accordo: non paghiamo volentieri le tasse. Ma perché? La risposta di Rawls è (grosso modo): perché non ci va di passare per fessi. Se altri non pagano, non vogliamo pagare neanche noi. Solo se fossimo certi che anche gli altri pagano, allora pagheremmo volentieri (forse). In realtà, bisognerebbe aggiungere anche altre, non trascurabili ipotesi di contorno: nessuno, infatti, sborsa volentieri un euro se vede che chi lo riscuote non fa un uso razionale del gettito raccolto. E nessuno scuce di buon grado anche un solo centesimo, se non è convinto dell’equità dello schema generale delle imposte. Ma, inserite ad hoc queste supposizioni, resta nondimeno necessaria un’autorità statale che – così dice Rawls – “alteri le condizioni di fondo” del pagamento delle tasse, e consenta a me di pensare che non sono l’unico ingenuo a  versare all’erario.

Ora, alterare le condizioni di fondo non è poca cosa, come compito fondamentale dello stato. Non è roba da stato minimo, insomma, anche se si tratta anzitutto di mettere leggi e farle rispettare: solo così si potrà stabilire quel clima di fiducia che rende pagare le tasse meno sgradevole di quanto non lo sia quando la regola è, invece, l’evasione. Siccome, d’altra parte, Rawls sta commentando la nascita dello Stato moderno e la severa dottrina hobbesiana dell’autorità, può ricostruire il profilo di uno Stato esigente, che impiega senza star troppo a discutere tutti gli strumenti coercitivi che ritiene i più opportuni per rendere stabili le entrate dello Stato. Ma il commento di Rawls era comunque (grosso modo): non c’è bisogno di supporre che i cittadini siano disonesti, per giustificare i blitz delle agenzie delle entrate e la caccia ai furbacchioni.

Orbene, questo commento dà da pensare. Perché da noi accade invece che ad ogni voce che si leva per chiedere allo Stato di impegnarsi seriamente nella lotta all’evasione, c’è sempre qualcuno che manda alti lai contro lo Stato occhiuto, lo Stato poliziesco, lo Stato etico, e via sproloquiando. Come se invece di uno stato occhiuto non avessimo noi italiani uno Stato guercio, che sembra avere un occhio solo e guardare da una sola parte: e purtroppo non dalla parte dove sono custoditi i più ingenti patrimoni.

E così, se è forse solo ad uso dei filosofi che possiamo ipotizzare che qualcuno paghi volontariamente le tasse, è ad uso di tutti che dobbiamo ipotizzare che Fiamme gialle, scontrini fiscali, tracciabilità e controlli incrociati ci vogliano eccome. Quanto poi agli argomenti che tirano in ballo il patto sociale implicito nel nostro paese, per spiegare così elevati livelli di evasione, è chiaro che non sono campati in aria. E infatti la lotta all’evasione tocca interessi costituiti e anche abitudini sociali consolidate (oltre che perseguire ladri matricolati). Però c’è anche una cosa come il patto statale, e quello, insegna Hobbes, è più importante e viene prima, molto prima.

Ché se quest’ultimo patto venisse rispettato, siccome non siamo più ad Hobbes e all’«homo homini lupus» ma a Rawls e alla costituzionalizzazione dei beni sociali primari, allora sì che sarebbe diverso. Se infatti nello schema generale delle imposte e nella loro esazione ravvisassimo più equità e giustizia sociale, e una qualche preoccupazione in più per l’uguaglianza, forse troveremmo persino qualche cittadino bislacco, del terzo tipo, disposto a pagare volentieri le tasse. Perché ce ne sono, anche in Italia ce ne sono, solo che vedano intorno a loro meno sproporzione fra i redditi, e un po’ più di rispetto per i sacrifici di chi lavora.