La morte è un buco. Ma non come i buchi che si aprono nel terreno, come i crepacci sui fianchi delle montagne o come un muro rotto. Perché è un buco profondissimo e senza contorni. Un buco privo di orli, senza transenne. Se guardate il mondo da lontano non lo vedete: l’uomo che viveva gli affanni e le delusioni della vita con grande pena e fatica, l’uomo che era al lavoro con i colleghi oppure a casa, che scherzava con gli amici la sera oppure guardava la televisione in famiglia, quell’uomo ora non c’è più; ci sono però le stesse cose di prima, la casa il lavoro la cena le stesse persone. Il mondo è uguale a prima, pieno come prima, ma lui non c’è più, è finito nel buco. Derrida diceva che la morte è ogni volta unica, ogni volta è la fine del mondo, ma è molto più intollerabile pensare che il mondo, invece, c’è ancora, continua, sopravvive, impassibile e indifferente alla morte di ognuno.
Questo pensiero non ha bisogno della scomparsa di una persona cara per trovare insopportabile, ingiusto, incomprensibile, come possa accadere oggi che in quella casa non ci sia più la ragazza che ieri si è tolta la vita perché non riesce a trovare un lavoro degno di questo nome. Come possa scorrere ancora, lento e rumoroso come prima, il traffico cittadino, nella strada in cui un commerciante si è dato fuoco perché non riesce a far fronte ai debiti. Come possano riprendere domani le attività nella fabbrica del piccolo imprenditore che oggi ha deciso di farla finita. Il mondo scorre come prima, uguale a prima, e tutto continuerebbe senza sforzo, giorno dopo giorno, se noi non ci fermassimo a riflettere sui buchi che si aprono nella pelle del mondo, se lasciassimo che il mondo si richiuda senza pietà né memoria sugli squarci improvvisi della morte.
Questa, di fermarsi; questa, di pensare; questa, a volte, di pregare, è l’opera di una cultura. Una società possiede una cultura, un senso comune, un’identità e un compito se è in grado di costruire un bordo tutto intorno al buco, come il giardiniere che recinge con cura l’aiuola, o il muratore che tira su con pazienza un muro. Da quel momento in poi, si potrà vedere il buco: qualcuno se ne ricorderà, qualcun altro imparerà qualcosa.
Ma quanto è più importante che si compia quest’opera, quando il buco si è aperto per mano di colui che, perdendo all’improvviso l’equilibrio, vi è precipitato dentro: senza apparente motivo eppure con ogni motivo. Con i motivi di una vita sentita come fallimentare, di una responsabilità percepita come troppo grande, di una solitudine sentita come irrimediabile, troppo densa e nera. Con i motivi che le cronache di questi giorni ci raccontano con sgomento: motivi che hanno messo radici e si sono arrampicati come idre nella psiche di chi si è ucciso, ma che provengono da fuori: vengono da un mutuo non concesso, da un rapporto di lavoro interrotto, da un’ingiustizia patita. Vengono insomma dal mondo in cui noi ci siamo ancora: come prima, ma sapendo ormai che non dobbiamo lasciare che tutto vada come prima.
La morte, quanto a lei, non appartiene al morto: per questo ce ne occupiamo da vivi. Ma suicida è chi aveva tutti i motivi per non sentire più come sua neppure la vita. Perciò quanto maggiore è l’opera che spetta a noi, per restituire insieme il senso di quella morte e di quella vita. Si rimane sbigottiti di fronte alla percentuale di suicidi che in questi mesi le statistiche registrano. È la crisi: piani di vita spezzati, speranze frustrate, conti che non tornano, sguardi che non si riescono più a sostenere: tra colleghi, tra familiari, tra amici.
La crisi è però solo il nome economico di un dramma che non è meramente individuale ma sociale, sia per cause che per dimensioni, ma quel che spetta a noi di fare appartiene anche all’etica e alla politica, ed è dell’ordine di ciò che rende la politica non semplicemente un affare di potere, ma l’impegno collettivo in cerca di un senso. Perché peggio di una politica che si spende solo per il potere c’è solo una politica del tutto impotente a costruire qualcosa come un senso.
Un senso, un piccolo muricciolo intorno al buco senza margini della morte.
Il Mattino, 18 aprile 2012
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