Archivi del giorno: aprile 29, 2012

Hegel: la logica del mondo globale

Chi se la sente di celebrare Hegel? Chi se la sente di celebrare la Scienza della Logica, il cui primo volume, la «Dottrina dell’essere», compie oggi duecento anni? Primo e in certo modo ultimo, dal momento che Hegel ne cominciò la revisione poco prima di morire, così che rimane di fatto il suo testamento filosofico. Ma chi affiderebbe oggi il proprio lascito spirituale a un’opera che pretende, nientemeno, di esporre il regno della verità, ovvero: “Dio  com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito”. Diciamolo francamente: nessuno. Da un bel po’ di anni i filosofi, e non solo loro, si sono così abituati all’idea che di verità supreme non c’è modo di stabilirne che accettano di buon grado di lasciare ad altri saperi, per esempio alla scienza, le indagini intorno ai fondamenti ultimi della vita o dell’universo, e si accontentano o di un conciliante relativismo, oppure di affermare piccole verità intorno a oggetti di formato quotidiano – montagne, ciabatte o cacciaviti – tutto il resto essendo abbandonato al mutevole gioco delle individualissime opinioni.

Hegel, invece, no. Eppure in quel lontano 1812 accadevano nel mondo fatti di tale portata, che non era mica così facile orientarsi nel pensiero: figuriamoci fare dell’idea assoluta l’unico contenuto della filosofia! Napoleone, per esempio, aveva sistemato il fratello Giuseppe sul trono di Spagna, e aveva avviato i preparativi per l’invasione della Russia. Le cose gli andarono male su entrambi i fronti: in Russia l’armata francese fu disfatta, da Madrid Giuseppe fu cacciato. L’“anima del mondo a cavallo” – così Hegel aveva definito l’imperatore apparso nel 1806 per le vie della sua città, Jena  – cominciava a claudicare un po’, e però il filosofo ne continuava a vedere, a ragione, il significato storico-universale.

E questo è un primo, ottimo motivo per non trascurare l’anniversario. Con Hegel, la filosofia si fa definitivamente consapevole della sua responsabilità pubblica. Hegel è il primo filosofo che interroga sistematicamente la posizione della filosofia e del sapere in generale rispetto al mondo. Prima di lui, i filosofi potevano trascurare di considerare da quale tribuna parlassero: collocati in quale angolo di mondo, parlando quale lingua, appartenendo a quale tradizione e anche, perché no?, vivendo e lavorando dentro quale sistema economico e politico. Tutte domande che solo con Hegel diventano ineludibili: se Cartesio e Kant avevano scoperto in filosofia il soggetto, Hegel ne ha arricchito, e di molto, il profilo. Il soggetto non è più un distaccato osservatore della natura, ma un uomo immerso nel mondo, che porta su di sé la responsabilità di condurre non solo i suoi privati pensieri, ma l’intera sua epoca al concetto, cioè ad un sapere razionale libero.

Che c’entra però la Scienza della logica, uno potrebbe dire? Questa è piuttosto materia della filosofia politica. E in effetti è nei famosi, anzi famigerati, Lineamenti di filosofia del diritto che Hegel formula espressamente questo problema: la collocazione della filosofia nella realtà. Siccome però la realtà nel frattempo era cambiata e l’ordine era stato restaurato: Napoleone era finito a Sant’Elena e la tempesta gallica era passata, eccolo tromboneggiare dalla più ambita cattedra tedesca di filosofia, a Berlino, contro l’assurda pretesa di ciascuno di dire la propria su questo e su quello, e soprattutto sullo Stato.

Questa è lo Hegel dipinto come illiberale quando in Europa, dopo la sua morte, torna a soffiare forte il vento della rivoluzione: prima liberale, poi democratica e socialista. Lo Hegel dello Stato etico, dello Stato totalitario: da giovane credente negli ideali della rivoluzione francese, nella maturità fervido fiancheggiatore della polizia prussiana. Il giudizio sullo Hegel politico resta, in effetti, controverso, ma va riconosciuto che nel suo sistema non si trovano né l’idea di una sfera pre-politica di diritti fondamentali, né la concezione liberale della separazione dei poteri, né il principio democratico del suffragio universale. Non si trovano, insomma, i lemmi fondamentali del lessico politico contemporaneo.

Poi però uno entra nelle pagine hegeliane, e vi trova ad esempio una coscienza acuta dell’insufficienza del gioco spontaneo degli interessi a comporre l’unità politica fondamentale che non è affatto inutile rimeditare. Trova le pagine sulla società civile, sulle quali nei decenni scorsi si interrogava tanta parte dell’intellettualità di sinistra in Italia e non solo (da Biagio De Giovanni a Giacomo Marramao a Roberto Racinaro, per fare solo qualche nome) e si accorge nuovamente che gli anatemi liberali passano di molto a lato dei nostri problemi attuali. Se la lasci fare, diceva Hegel, la società civile forma pochi sempre più ricchi da una parte, e molti sempre più poveri dall’altra: non un problema da poco, e non un problema che più non ci riguardi.

Problema che Hegel voleva mettere nel pensiero (e ricomporre grazie allo Stato). Non dunque risolverlo solo in teoria, lasciando in pratica le cose come stanno. Al contrario (al contrario anche di quanto pensava Marx), per Hegel si trattava di dare ai pensieri un posto nel mondo. E farlo in forza dell’idea che senza pensieri, senza un’unità di senso, il mondo non si tiene, e che il solo urto delle forze economiche non basta a fare un mondo.

I pensieri, a loro volta non provengono solo dalla testa delle persone, ma dal mondo stesso. Certo, l’individualismo resiste all’idea che i pensieri vanno raccolti non semplicemente dalle parole di ciascuno, ma nelle cose e tra le cose: costituiscono, diceva Hegel, l’automovimento della cosa stessa. Ma prendete pure tutte le prudenze del caso – e prendetele, invero, assieme allo stesso Hegel, il quale sapeva bene che il mondo cristiano-borghese aveva ormai introiettato definitivamente il valore infinito della soggettività – come non vedere che i pensieri sono contenuti rappresi negli oggetti del mondo, nei libri come nelle automobili, nelle leggi come nei computer? La Scienza della Logica non modula in fondo che quest’unico pensiero. E quanto sarebbe salutare se qualche filosofo lo coltivasse ancora, invece di tirare i remi in barca e rassegnarsi a dar forma alle proprie personali idiosincrasie.

Alla fine, cosa insegna infatti la Scienza della Logica? Che la libertà anche per il pensiero è una conquista. “Assoluto” vuol dire infatti solo “assolto”, sciolto cioè da vincoli e legacci che il mondo, quando ne subiamo la logica, ci impone. Pensare liberamente è possibile non fuggendo via nei propri privatissimi pensieri, ma immettendosi nel mondo e dopo averlo tutto pensato, tutto portato al concetto. E, a pensarci, la prima liberazione, quella del singolo individuo, è roba di pochi; l’altra, invece, è roba che non può non investire i molti, anzi potenzialmente tutti.

L’Unità, 28 aprile 2012

Fischi a Bossi la piazza non perdona

Le sparate di Umberto Bossi. Alzi la mano chi non ricorda i Winchester e le pallottole, i celodurismi e le altre volgarità del leader della Lega, da più di vent’anni sempre lì a minacciare di calare su Roma ladrona oppure di imbracciare il fucile. Tutta una retorica accompagnata da diti medi e gesti dell’ombrello, pernacchie e pugni alzati, che ha un unico scenario naturale: non certo le aule parlamentari o gli uffici ministeriali, non i social network e gli spot elettorali ma la piazza, il luogo fisico dell’incontro con gli elettori, con i padani veri. Ma sta il fatto che in piazza Bossi non ci può più andare come prima. Che la fisicità del suo rapporto con gli elettori leghisti rischia di riservargli qualche ruvidezza imprevista fino a poche settimane fa. Che perciò sarà più prudente per lui tenere d’ora innanzi i comizi nelle sedi della Lega. Che se si affaccia da un palco a fianco di un candidato sindaco per fare campagna elettorale rischia di vedere rivolto al suo indirizzo tutto il repertorio di insulti, gesti derisori e spacconate che per anni ha creduto di poter liberamente rivolgere ai suoi avversari politici.

Singolare destino: l’uomo della canottiera, dell’ampolla del Po, dei dialetti valligiani e di altre smargiassate, passato prima a fare il compassato ministro delle riforme istituzionali dell’ultimo governo Berlusconi, e finito poi a parlare al riparo del cerchio magico o, peggio ancora, dietro la cortina di un robusto cordone di forze dell’ordine che lo protegge dalle intemperanze della base.

Può darsi che l’episodio dell’altro ieri, quando a Crema qualche decina di leghisti arrabbiati ha srotolato striscioni contro la Lega “predona”, non si ripeterà altrove: di certo in casa Lega dovranno però mettere qualche attenzione in più al rapporto del vecchio Capo con l’elettorato, E che tristezza vederlo ancora agitare i pugni, in replica alle inattese contestazioni, come quel tale che, essendo ben sicuro che sarà trattenuto, finge di divincolarsi minacciando sfracelli. Sembra proprio che nulla verrà risparmiato a Bossi: nemmeno un finale da avanspettacolo, magari con lancio di ortofrutta offerta dai sempre arrabbiati agricoltori padani.

D’altra parte, chi deve rubare la scena (e la piazza, e il repertorio di improperi), c’è già. È Beppe Grillo. Il che la dice lunga sull’odierna comunicazione politica. Grillo infatti ne rifiuta le forme più riflessive e mediate, il contraddittorio e l’intervista; disdegna i media tradizionali e usa invece massicciamente la Rete, il blog, i social network. Ma non trascura affatto i comizi. E nei comizi suda, grida, si sbraccia, strappa l’applauso con una battuta (o, altrettanto spesso,  con un insulto). Come il Bossi prima maniera, che non a caso ha in più di un’occasione dichiarato di apprezzare.

Ora, non è affatto un paradosso che nell’incipiente epoca della realtà virtuale la realtà fisica reclami tanto spazio. Quanto più anzi si artificializzano le relazioni sociali, tanto più la realtà naturale prende per contraccolpo un significato di autenticità, di spontaneità, di genuinità, che richiede solo di essere liberato da ritualità e formalità. Perciò Grillo non parla più da un palco o da una tribunetta, ma cammina avanti e indietro sul limitare del palco, realizzando una performance invece di pronunciare semplicemente un discorso.

Anche i partiti politici della prima Repubblica stavano in piazza, manifestavano, lanciavano parole d’ordine. Ma il tutto veniva filtrato attraverso protocolli codificati, che mantenevano una distanza razionale, ‘verticale’, tra la schiera dei militanti e il leader politico. Oggi, invece la piazza, o la passseggiata  in mezzo alla folla, ha il significato del contatto reale, ‘orizzontale’, immediato, viscerale e non cerebrale. Non si tratta tanto di una maggiore identificazione, ma di una diversa identificazione. Identificazione non più nel proprio ‘campione’, nel migliore di noi, ma in quello che più ci assomiglia. Che è proprio come noi, parla come noi e si incazza come noi.

Solo che questo Bossi non se lo può più permettere. Grillo magari sì, lui no. Alza ancora i pugni o la voce, ma strappa al più un sorriso di commiserazione, come il vecchio attore che si ostina a voler calcare ancora gli assi del palcoscenico, quando il suo tempo è scaduto.

Vedremo molto presto se a Maroni basterà il vecchio copione del federalismo per tenere in piedi la baracca, o se invece, finita la recita di Bossi e dopo i biglietti staccati dalla Family, sulla Lega calerà definitivamente il sipario.

Il Mattino, 29 aprile 2012