Archivi del mese: Maggio 2012

Le voci del corpo

Come farsi un corpo non nazista? Bella domanda.  Prima di provare a rispondere, però, è forse il caso di chiedersi se davvero il corpo uno se lo fa, o se invece non si trova ad averlo, e c’è poco da fare. La prima domanda si trova in realtà nell’ultimo libro di Rocco Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica (Feltrinelli 2012) e sta insieme al mazzo di domande che invece di chiedere “che cosa?” o “perché” chiedono piuttosto “come?”. Se uno chiede “come?”, “come fare?” è perché si trova già, come diceva Pascal, embarqué, imbarcato, preso cioè in mezzo e chiamato a fare qualcosa, in un modo o nell’altro. Ma appunto: in qual modo? E cosa vorrà mai dire che in qualche modo noi ci facciamo il nostro corpo?

Nulla di particolare. In fondo, è dall’alba dei tempi che l’uomo si fa un corpo. Per Marcel Mauss, il corpo è anzi il primo strumento dell’uomo, “il primo e più naturale oggetto tecnico”. Il che non vuol dire che intratteniamo con esso un rapporto puramente strumentale, ma al contrario che la dimensione della strumentalità non è affatto una dimensione accessoria della nostra esistenza. E, d’altra parte, il corpo delle origini non è forse un corpo tatuato, in qualche modo rifatto? Claude Levi-Strauss ha raccontato, in Tristi tropici, di come gli indigeni si stupissero nel vedere i visi bianchi, lisci e nudi dei primi missionari. Nessun tatuaggio, nessuna iscrizione sui loro volti: come gli animali, essi dovevano pensare.

La nostra credenza nella naturalità del corpo umano appartiene in effetti ad una determinata epoca storica (che forse si sta per chiudere, vista la nuova diffusione del tatuaggio). Un’epoca, prima cristiana poi specificamente moderna, dentro un ben più ampio, anzi sterminato intreccio di pratiche corporee, maniere variopinte e diverse di farsi un corpo.

Con la non piccola complicazione che, ormai, anche se non possiamo prendere e lasciare a nostro piacimento il nostro corpo, o addirittura fabbricarlo come più ci aggrada, possiamo però ben modificarlo geneticamente, ritoccarlo qua e là con iniezioni di botox o con protesi al silicone, allenarlo  e anzi ‘doparlo’ (a proposito, oggi si conclude il primo Giro d’Italia, da un bel po’ di anni in qua, che non vede irrompere i Nas tra le ammiraglie delle squadre: meno male!). E dunque: come ce li facciamo, oggi, i nostri corpi?

Possibilmente in modo non nazista, suggerisce Ronchi, il che lascia intendere che sia ancora in campo un modo nazista di farsi i corpi, un’estetica o piuttosto una cosmetica nazista dei corpi, di cui qualcosa comprendiamo andando con la memoria al cinema di Leni Riefenstahl, al culto della forza, al corpo forgiato dall’esercizio, dalla fatica e dalla sottomissione. Certo, ci piace pensare che, siccome c’è una cesura netta fra i regimi totalitari e i regimi democratici, allora anche sul piano della disciplina dei corpi vi deve essere un’altrettanto netta cesura fra atleti, modelle e attori dei nostri giorni e la vigoria dei corpi nazisti. E forse è davvero così; in ogni caso, non è una differenza da poco se a farsi un corpo sia ciascuno per sé, o se invece sia un omino coi baffi, fattosi Führer, a decidere la salute del corpo di tutti (anzi: della sola razza ariana).

Però un brivido corre ugualmente lungo la schiena, se si pensa alla prepotenza con la quale ai nostri corpi viene più o meno esplicitamente  richiesto di essere sempre più efficienti, sempre più in forma, sempre più in salute, sempre più rispondenti a modelli e imperativi sociali a cui rischiamo di rimanere assoggettati, senza alcuna capacità di distanziazione critica. Un principio di ottimizzazione sembra essersi esteso dall’organizzazione dei sistemi sociali ed economici alla maniera in cui abbiamo il nostro corpo. E non si tratta più di mantenere un certo equilibrio o una sana armonia, ma di stressare il corpo fino a estrarre da lui ogni riserva di energia disponibile e, sempre, il massimo della prestazione. Michel Foucault dava a questo dispositivo il nome di “biopolitica” e per non farci credere che stesse parlando di chissà quale lontanissimo orizzonte teorico spiegava: ecco a voi il neoliberalismo!

Ora, queste analisi portano sempre con sé scenari da incubo. Chi però inforca la bicicletta, va in palestra o si mette a dieta non pensa in realtà né ai film della Riefenstahl né al capo del personale. E certo un abisso separa l’una dall’altro. Ciascuno si fa il suo corpo per e con gli amici, senza bordeggiare derive totalitarie e, dopo tutto, senza neppure rinunciare a una birra. Però i corpi inermi, violentati, oppure offesi di cui parlano o che ci rappresentano la letteratura, l’arte o la religione da un bel po’ di decenni a questa parte qualche allarme lo mandano. A volte, anche nel processo legislativo e nel dibattito pubblico fanno capolino preoccupazioni analoghe.

Forse, la maniera migliore per non ritrovarsi con un corpo nazista è non dimenticare mai che i nostri corpi, comunque li facciamo, parlano anche, e vogliono parlare con la loro voce. E la democrazia rimane il terreno sul quale i corpi possono anche essere l’un l’altro forzosamente intonati, ma dove le voci possono ancora rimanere, fortunatamente, dissonanti.

L’unità, 27 maggio 2012

Rothko, l’arte indispensabile

Se si tratta di un Pollock, o peggio di un Rothko, “perdi trenta centimetri del dipinto dietro un divano e la cosa male non fa”, non è come coprire una parte della tela di un Rubens o di un Veronese, che è un vero delitto.

Ma è proprio così? A riferire questa irriverente opinione del pittore Peter Saul sui grandi maestri dell’espressionismo astratto è l’influente critico d’arte americano Robert Storr. Ma a confutarla basterebbe una qualsiasi delle riflessioni raccolte negli scritti sull’arte di Mark Rothko. Alcune di esse costituiscono il testo di “Red”, di John Logan, in scena in queste settimane al Teatro dell’Elfo di Milano (per la regia di Francesco Frongia e la traduzione di Matteo Colombo). Il pittore (impersonato da Ferdinando Bruni) è in scena con un assistente (Alejandro Bruni Ocaña), e con lui parla della sua arte mentre è alle prese con i Seagram Murals, le tele commissionate all’artista per decorare “l’ennesima sala da pranzo per ricchi sfondati”, il Four Seasons Restaurant di New York. Rothko aveva però le idee chiare, in proposito: “Ho accettato questo incarico – si legge in una sua lettera – come una sfida, armato di intenzioni del tutto malevole. Spero tanto di riuscire a dipingere qualcosa che guasti l’appetito d’ogni figlio di puttana che entrerà in quella sala per mangiare”.

Alla fine la cosa non riesce: Rothko non consegnerà mai quelle tele. Logan immagina che la decisione venga presa dopo una visita al ristorante: in mezzo a uomini elegantissimi e donne dai lunghi guanti, a gente che sembra incarnare perfettamente la parabola descritta da Jean Clair ne L’inverno della cultura: “dal culto alla cultura, dalla cultura al culturale, dal culturale al culto del denaro”. E dal culto del denaro all’investimento: non per caso Clair descrive il funzionamento del mercato dell’arte a colpi di hedge funds e cartolarizzazioni finanziarie. Come? Semplice: ti impacchetto l’artista già affermato insieme con quello da promuovere, te li metto nella stessa galleria che funziona come le agenzie di rating, le quali dovrebbero valutare in maniera indipendente ma in realtà favoriscono la speculazione, e il gioco è fatto, il titolo tossico è pronto per entrare nel grande museo, moltiplicando così il suo valore. I riccastri del Four Season, ai quali Rothko non volle più dare in pasto i suoi quadri, sono a loro volta pronti a comprare: per questioni di status, per investire, o per altro, ma in ogni caso non per guardare a lungo il colore, non per lasciarsi dominare dai grandi rettangoli monocromi di Rothko, leggermente sfrangiati ai bordi, e incastrati l’uno nell’altro in un rapporto teso, dinamico, violento.

Cosa voleva infatti Rothko? D’accordo: guastare l’appetito di quei figli di puttana. Ma poi: cos’altro? Due cose: creare un luogo, e trovare una misura veramente umana. Le due cose sono poi una e la stessa cosa. Rothko ricordava bene le impressioni del suo viaggio in Italia: i rossi e i neri degli affreschi pompeiani – probabilmente gli stessi che si ritrovano nel ciclo dei Seagram Murals – e le finestre cieche dell’atrio della Biblioteca Laurenziana di Firenze, capolavoro di Michelangelo. Per Rothko, procuravano al visitatore proprio l’effetto da lui ricercato: costruire uno spazio chiuso, claustrofobico, dal quale fosse impossibile uscire, nel quale le sue tele, di grande formato e in grado di occupare pareti intere, funzionassero non come aperture,ma al contrario come durissime murate, come muri di colore in grado di sopraffare l’uomo, di strapparlo dalla futilità e dalla volgarità della vita quotidiana, per costringerlo – per l’appunto – ad essere finalmente un uomo.

Non è un paradosso che una tale preoccupazione animi tutta la pittura di Rothko. Se egli non ha mai descritto come astratta la sua pittura, è perché non ha mai inteso far altro che cercare il mezzo per procurare ancora un contenuto all’umanità dell’uomo: se ha abbandonato la figura, è perché non aveva più modo, con essa, di “arrivare”. E per questo la misura era importante per lui quasi quanto la proporzione per un artista rinascimentale: nei suoi scritti, si trovano meno osservazioni sui quadri che non sulle pareti alle quali dovevano essere appesi. I metri quadrati delle tele di Rothko ci vogliono perciò tutti, fino all’ultimo centimetro. E le tele devono essere esposte alla giusta altezza, e visti dalla giusta distanza. Cioè il più possibile vicino al pavimento, e a distanza ravvicinata: come in un’inquadratura di Orson Welles, in modo che il potere del quadro si abbatta sull’uomo e lo riconduca, un’altra volta, a se stesso.

A Cannes oggi David Cronenberg presenta il suo ultimo film, Cosmopolis (dal romanzo di DeLillo). E di nuovo c’è Rothko, fin nei titoli di testa. E pure lì Rothko se la deve vedere con un figlio di puttana, il giovane miliardario Eric Packer, mago della finanza, che vorrebbe acquistare addirittura la Rothko Chapel. Dopo tutto, chiede alla mercante d’arte (una conturbante Juliette Binoche), non è questione di soldi? Eh no, non lo è. Non lo è almeno per Marc Rothko E per le sue tele, che resistono solide e inalterate alla liquidazione finanziaria del mondo. E chiedono all’uomo di fare altrettanto. 

L’Unità, 25 maggio 2012

Un governo tecnico in cerca di “supplementi d’anima”

C’è un passaggio, nelle parole pronunciate ieri da Monti, che conviene osservare da vicino: non per impugnare la matita rossa e blu, ma solo per capire bene. “La crisi economica – ha detto il premier – se non è affrontata con convinzione e coraggio può diventare culturale e di valore”. Il contesto in cui cadevano queste assennate parole – l’incontro con Benedetto XVI – giustifica l’attenzione rivolta alle condizioni morali e spirituali del paese. Il papa ha invitato l’Italia a non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà, e ha indicato nella grande tradizione umanistica del nostro paese i fondamenti culturali a cui attingere per invertire la rotta. Un grande “rinnovamento spirituale ed etico” deve collegarsi alla tradizione storica dell’Italia, per riprenderla, rielaborarla, riproporla su basi nuove. Ed è vero: la nostra eredità culturale e civile è dote preziosa per tenere unito il paese, e rimetterlo sul sentiero della crescita. Si può naturalmente discutere su cosa diventino i valori, anche i più “etici” e “spirituali”, quando siano separati dalle condizioni effettive in cui furono pensati e posti in essere, e se una sorta di philosophia perennis possa mai accompagnare un paese attraverso le sue tante e diverse stagioni storiche e politiche. Ma queste son domande di filosofi. Nel momento in cui i timori di uno sfilacciamento del tessuto sociale si fanno sempre più grandi, è comprensibile ed anzi auspicabile che forti si intendano le parole che infondono fiducia, che donano speranza, che richiamano tutti al comune senso di appartenenza e alla più coraggiosa assunzione di responsabilità. E fa bene il Presidente del Consiglio ad accoglierle e rilanciarle, specialmente di fronte a segnali di malessere sociale che vanno acuendosi sempre più. Ancor più è apprezzabile che Monti abbia sentito ieri l’esigenza di riprendere la parola che fin dal giorno del suo insediamento aveva accompagnato la proposta programmatica del suo governo: la parola equità. Ci vuole equità, aveva detto, e ancora ieri ha ripetuto. E dentro la tradizione umanistica si trovano davvero le risorse per ripensare il valore non solo morale ma anche politico dell’equità: quella dimensione in cui il rigore della giustizia non può mai andar disgiunto da un ricco senso di umanità, e le proposizioni di principio non vengono mai fatte valere in astratto, nell’ignoranza delle circostanze concrete in cui gli uomini vivono.

Ma resta il passaggio che citavamo in apertura. Perché non può sfuggire che, a rigor di logica, se il premier teme che l’acuirsi della crisi economica possa comportare conseguenze più ampie, sul piano culturale ed etico, allora per lui l’elemento “culturale” ed “etico” si trova in posizione di effetto, mentre la crisi economica, recessione e disoccupazione si trovano in posizione di causa. Ma questo significa che ben difficilmente il rapporto può rovesciarsi, e d’improvviso la fiducia e la speranza, il coraggio e i forti auspici morali possono essere la causa, e la ripresa economica l’effetto. Sempre a rigor di logica si dovrebbe piuttosto pensare il contrario, e che un clima di aspettative favorevoli si stabilirà solo grazie a nuovi investimenti: non solo di fiducia.

Certo, abbiamo bisogno di supplementi d’anima. Forse ne ha ancora più bisogno un governo come quello in carica, che non ha l’etichetta di governo tecnico perché analisti cocciuti si ostinano a ricordare le competenze professionali del premier, ma perché Monti stesso parla alla politica come ad un mondo ben distinto e a volte – lui ritiene – anche distante dal governo. La politica viene individuata come una sfera diversa, con la quale si discute, ma della quale tuttavia non si fa parte e non si intende far parte.

Forse c’è la convinzione che la popolarità dell’esecutivo ne trarrà guadagno, o forse si ritiene che sia così più facile trovare nel governo il punto di mediazione fra interessi contrapposti. Può darsi. Ma sta il fatto che è proprio questo distacco a volte ostentato che rende comprensibile che il premier cerchi supplementi morali a sostegno della sua azione, pur con qualche bisticcio fra la causa e l’effetto. Perché a pensarci il vero supplemento dell’azione di governo c’è, e non può avere altro nome che, per l’appunto, politica. E in tutta Europa, sembra  proprio che ne stia di nuovo venendo il tempo.

L’Unità, 14 maggio 2012