Archivi del giorno: luglio 1, 2012

L’alleanza e le pulsioni populiste

È stato detto che il populismo esprime, sia pure in modo distorto, un’esigenza di partecipazione che i meccanismi istituzionali della democrazia rappresentativa non riesce più a soddisfare. Può darsi sia così. Ma in tal caso credo sia giusto prendere un po’ di fiato e poi obiettare con il più classico degli: “embé?”. Visto che per i populisti i ragionamenti sono sempre troppo intellettuali, troppo sofisticati, troppo pieni di distinzioni e parole difficili, immagino che la mia obiezione sarà apprezzata. Ma posso comunque provare ad articolarla meglio.

E cioè: nelle pulsioni populiste che percorrono le società contemporanee (non solo l’Italia) ci sarà pure del buono, anche se si esprime in modi decisamente meno buoni. Si tratterà pure di forme inedite di cittadinanza attiva, che, trovando ostruiti (oppure inutilizzabili) i canali tradizionali di espressione della volontà politica, assumono modalità diverse, più immediate e meno paludate. Resta vero tuttavia che regole e istituzioni del gioco democratico sono essenziali e dobbiamo averne cura. Perciò direi: grazie per la precisazione sociologicamente corretta, nessuno demonizzi nessuno, ma lasciateci ancora compiere lo sforzo di mettere la politica nelle forme richieste da una democrazia parlamentare, con il senso delle istituzioni e dello Stato che ciò richiede, con il profilo di una forza di governo consapevole di impegni e responsabilità nazionali e internazionali, e, da ultimo, con la consapevolezza di dover costruire un futuro possibile per questo Paese. Pigiare ossessivamente il pedale della contrapposizione fra partiti. Istituzioni, professionisti della politica, élites, caste e via denigrando da una parte e, dall’altra, il popolo o la gente di cui i movimenti populisti sarebbero diretta e genuina manifestazione, non è accettabile. Tanto meno lo è quando a rendersene protagonisti sono politici con ultradecennale esperienza alle spalle. Ma tant’è.

Lo schema di Bersani, ad ogni modo, discende da questo ragionamento. Che non è l’unico possibile, ma è quello proposto dal Pd. Il patto tra progressisti e moderati si inserisce infatti in questa delimitazione del campo di gioco, che ha una precisa linea di demarcazione nel rifiuto degli argomenti populisti contro l’Euro, contro le tasse, contro gli immigrati, contro il finanziamento pubblico ai partiti, contro i parassiti del pubblico impiego e, a detta del suocero di Grillo (se capisco), pure contro i sionisti cattivi.

Naturalmente, ci sarà sempre un populista come il comico genovese che traccerà una divisione diversa: fra il Palazzo e i cittadini, fra i partiti incistati nelle istituzioni e movimenti al fianco dei cittadini tartassati, ma sarà, per l’appunto, la rappresentazione di un populista che lucra su questo schema.

E oramai Di Pietro deve decidere se intende adottarlo oppure no. Se infatti si torna a discutere di alleanze non è per l’inguaribile deriva politicista dei partiti, ma per i pencolamenti dell’IdV, che non ha ancora chiaro se deve inseguire Grillo e gridare più forte di lui, o se accetta invece la proposta politica del Pd. E, cosa curiosa, sembra non averlo chiaro neppure Vendola. Il quale ovviamente ha tutte le ragioni di chiedere di discutere con il centrosinistra di contenuti e programmi, ma deve pure mostrare qualche preoccupazione per l’agibilità dello spazio politico in cui quei programmi dovranno essere realizzati.

Vendola tituba, Di Pietro si spolmona, il tutto perché Bersani sembra avere occhi solo per Casini. Ma non mi pare che le cose stiano così. Stanno anzi al contrario: invece di avere occhi per il proprio posizionamento presso l’elettorato, preoccupati del crescente consenso dei grillini, bisogna che la strana coppia scommetta su una nuova stagione della democrazia italiana e sulla ricostruzione civile del paese, piuttosto che sulla maniera in cui approfittare della fine poco gloriosa della seconda Repubblica. Lascino a Grillo e a suo suocero il compito di fare di tutte l’erbe un fascio. Alla fine, si scoprirà che i più legati al passato, al berlusconismo e all’Italietta sono proprio i nuovissimi populisti: urlatori quando si parla di quel che è stato, privi di voce quando si tratta del futuro.

L’Unità, 1° luglio 2012

Una nazionale che sa stupire

Anche se avremo di fronte la Spagna campione di Europa e del mondo. non sarà una corrida. Non solo perché l’Italia difensivista non c’è più ed è difficile metterci sotto – se ne sono accorti tutti, dopo Italia-Inghilterra e Italia-Germania – ma perché con questi Europei ci siamo lasciati alle spalle un bel po’ di luoghi comuni. Non è l’impresa più importante – quella resta la vittoria finale, naturalmente – ma è già un piccolo motivo di soddisfazione. Se c’è infatti una fabbrica di luoghi comuni che non sembra conoscere crisi, quella è il calcio. Si capisce: un gioco nel quale può non accadere nulla per novanta minuti mette a dura prova le risorse linguistiche e mentali di tifosi, spettatori, giornalisti. Non sono molti, infatti, gli sport in cui il risultato finale può essere quello iniziale (e l’indimenticabile Gianni Brera sosteneva pure che lo 0-0 è anzi lo score della partita perfetta): di mezzo, gli atleti impegnati nel gioco del calcio usano quasi esclusivamente gli arti inferiori, mica quelli superiori, e la testa la usano nell’unico modo in cui non se ne mettono a frutto le qualità intellettuali.

Dunque è tutto un fiorire di banalità, e una rappresentazione parecchio stereotipata di vizi e virtù di un popolo. Solo che questa volta l’Italia è rappresentata da Buffon, Pirlo, Balotelli e di banalità se ne ascoltano e vedono molte di meno. E ancor meno ne dice Prandelli nelle conversazioni alle quali quotidianamente si sottopone. Non che le sue dichiarazioni regalino lo stesso perverso piacere della perfidia o della strafottenza di un Mourinho, ma suonano come parole sentite e meditate, mai rese sull’onda di un agonismo esasperato. Insolito, per un paese poco  disposto a smorzare il tifo con un ragionamento. Brera, sempre lui, si era inventato l’eretismo podistico, per dire di quella specie di orgasmo che raggiungono a volte gli atleti e che tracima negli spettatori, negli allenatori, nei presidenti delle squadre di calcio fin dopo la partita. Ecco: quando parla Prandelli, il livello di eretismo ed eccitabilità nervosa, se pure c’era, è già calato di parecchio, e si può ragionare. Il che non significa che non chieda cuore e passione ai suoi ragazzi, ma lo fa senza mai oltrepassare la misura, e sempre rammentando che si tratta solo di un gioco.

Ovviamente, però, il calcio non è solo un gioco, e non solo per l’enormità degli interessi coinvolti, ma perché il posto dello sport nazionale in una società moderna non è quello di una partita a carte fra amici o di una sfida fra scapoli e ammogliati. Non a caso tiriamo ancora fuori le immagini di Messico ’70 o del Mundial dell’82: perché c’è lì un pezzo importante della nostra identità. Ma guardando ai giocatori in campo in questi giorni ci accorgiamo di come stia cambiando. A cominciare, naturalmente, da Balotelli. Qualche giorno fa Granzotto su Il Giornale si lamentava: possibile che non si possa parlar male di Balotelli senza essere accusati di razzismo? Ora che Balotelli s’è messo a giocar bene e anzi di più, non sarà forse necessario fare l’elogio del multiculturalismo ma constatare un fatto, quello sì. E il fatto sono i nuovi italiani, e l’idea, che s’affaccia forse per la prima volta, che ad essi è legato non un problema, ma una speranza e un’opportunità per il paese.

Poi Balotelli ha abbracciato la mamma. E tutti a pensare all’eterna Italia mammona. A me invece è venuto di pensare a un’altra storia italiana: quella di Pinocchio, la cui favola finisce con il burattino diventato finalmente un bravo bambino. Ora, non è lo stesso con SuperMario, scapestrato e indisciplinato ma alla fine cuore di mamma? No, non è lo stesso. Anzitutto, la storia di Pinocchio non è solo una fiaba a lieto fine. Ed ha ragione Benigni, per il quale le frasi finali del libro di Collodi sono l’unica, vera grande menzogna di Pinocchio: “Come sono contento di essere diventato un bambino buono! E come ero buffo quand’ero un burattino!”. Ma soprattutto Balotelli non ha mentito, queste parole non le ha dette, nessuna morale un po’ ipocrita ha voluto trarre dalla sua vita, e di sé non pensa affatto di essere buffo quando fa la statua in mezzo al campo, né fa meno lo sbruffone quando ne promette quattro agli spagnoli per questa sera.

Chissà dunque se ci sarà anche a Kiev il lieto fine. Comunque vada, ho però l’impressione che, forse, anche le storie del nostro paese almeno un poco possono cambiare. E perciò: forza azzurri!

Il Mattino, 1° luglio 2012