Archivi del mese: settembre 2012

Il rene della politica

“S’i governassi il mondo”: sembra l’inizio di un sonetto di Cecco Angiolieri (“S’i fosse foco arderei ‘l mondo/ S’i fosse vento lo tempestarei”). Oppure un compito in classe per bambini della scuola primaria, esortati a dire come cambierebbero le tante cose brutte che vedono intorno a loro. E invece è il titolo dell’ultimo articolo, apparso la scorsa settimana su «Prospect», del filosofo americano Michael Sandel, in cui sono ripresi i temi del suo più recente best seller: «What Money Can’t Buy». Sandel è abbastanza noto in Italia, ma è soprattutto una vera e propria star nei paesi anglosassoni, dove le sue lezioni sono seguiti da torme di fan che da noi non raccolgono neanche Baricco o Saviano (segue sul blog dell’Unità)

Perché ha fallito la nuova politica

Cene, feste, macchine. Macchine, feste, cene. Più spiccioli per le ricariche telefoniche o per piccole passioni e innocenti (però lussuosi) trastulli. Forse non conosciamo ancora il totale esatto, milione più milione meno, di sicuro però Guardia di Finanza e Corte dei Conti ci metteranno un po’ per passare al setaccio fatture e scontrini del gruppo Pdl alla Regione Lazio.

Ma, reati e danno erariale a parte, come lo si troverà ora anche un solo cittadino che di fronte a tanto sperpero, a tanta sfacciataggine, a tanto malcostume voglia impegnarsi in un pacato ragionamento politico, in una riflessione meditata sulle prospettive del Paese e la riscossa della democrazia?

E così siamo punto e a capo. Vent’anni dopo Tangentopoli rischiamo di ritrovarci là dove ci eravamo lasciati. Cioè nei pressi di un’elezione politica generale in cui il tema principale del confronto politico rischia di essere non le prospettive che si offrono al paese, non l’uscita dalla crisi, non il confronto con l’Europa, ma la qualità della classe politica chiamata a governare. E naturalmente non la qualità squisitamente politica, e neppure le competenze, il prestigio internazionale oppure, che so, la capacità di leadership, ma il grado di prossimità, di coinvolgimento o di compromissione con le impudenze, l’illegalità o le ruberie di cui non si smette di avere prova.

Con quale risultato? Che cosa ne viene al paese da un confronto politico in cui elementi di programma e scelte di fondo sono sopravanzate dalla (sacrosanta, peraltro) indignazione per gli scandali che continuano a tracimare sulle prime pagine dei quotidiani? Ben poco, purtroppo. Lo si è fatto già una volta, già una volta abbiamo votato sull’onda della convinzione che i politici sono tutti ladri, con la speranza di procurare un cambiamento di sistema che ci liberasse in un colpo solo di tutto il marciume della vecchia Repubblica: quel che però è venuto fuori non ha dato gran prova di sé. E non è tanto questione di Berlusconi, quanto del berlusconismo, cioè dell’idea che una colorita espressione napoletana rende meglio di ogni disquisizione politologica: l’idea di fare il gallo sopra la monnezza (invece di togliere la monnezza dalle strade). Vale a dire, fuor di metafora: invece di costruire una proposta politica e di governo, fare del discredito e della delegittimazione della politica le condizioni della propria fortuna. Da ultimo lo sta facendo Grillo – il quale, dal canto suo, ha definitivamente  chiarito, a Parma, cosa sia il suo movimento, quando ha detto senza mezzi termini che “Bossi è stato un grande, finché non è entrato nel sistema”). Grillo come il Bossi d’antan, quello che voleva scendere dalle valle coi fucili fino a Roma. Ma, Grillo o non Grillo, il rischio che si punti solo a far saltare il tavolo esiste. E che nuovi apprendisti stregoni vogliano esercitarsi nell’impresa, anche. Il primo partito chiamato a resistere a questa china pericolosa è il Pd, perché ha davanti alle primarie: vedremo in che modo verranno condotte, con quali argomenti chiameranno a votare la gente. Con quali proposte, con quali toni.

D’altra parte, ha ragione Mario Calabresi (su La Stampa): lo scandalo della Regione Lazio non dimostra solo che quando si crede di aver toccato il fondo c’è sempre qualcuno che si mette a scavare,  ma sgretola anche le poche certezze sulle quali si voleva costruire, negli ultimi anni, la speranza di una politica nuova. Il federalismo, i giovani, le preferenze. Nessuno di questi ingredienti ha mostrato infatti di produrre di per sé buona politica, a giudicare almeno dalla maniera in cui un’istituzione regionale ha fatto spazio nel proprio bilancio agli appetiti di voraci consiglieri, i quali peraltro si segnalavano per la giovane età (De Romanis, quello della festa in costume), oppure per il ricchissimo patrimonio di preferenze (Fiorito, quello dei conti pantagruelici). Questo ovviamente non significa che, allora, dobbiamo augurarci l’inamovibilità della classe politica, un esasperato centralismo e il ritorno dei piemontesi in tutte le Prefetture d’Italia, e, infine, tenerci il Porcellum. Proprio no. Significa però che nessuna ricetta potrà mai bastare, nessuna tecnica elettorale e neppure le norme più stringenti se la politica non tornerà ad essere un’impresa collettiva, l’assunzione di una responsabilità comune e l’indicazione di un bene possibile, piuttosto che il percorso personale che ciascuno traccia per sé, nel deserto dei partiti, col favore dell’ombra che la luce proiettata sui galli, cioè sul leader di turno, lascia ai suoi spregiudicati compagni di ventura.

Il Mattino, 25 settembre 2012

Intruppati o elitari? La cultura sprofonda

La cultura non va difesa? Può darsi. Ma nemmeno attaccata, senza ulteriori specificazioni. Altrimenti saremmo ancora a quel tale, mi pare fosse Goebbels, al quale bastava sentire la parola cultura per mettere mano alla pistola. Simone Regazzoni –  che ha fra l’altro all’attivo, in ordine cronologico, i seguenti libri: «La filosofia di Lost», «Harry Potter e la filosofia» e «Pornosofia» – non ne può più delle geremiadi sulla cultura da preservare, tutelare, promuovere, coltivare, cultura che è immancabilmente quella alta, d’autore, e soprattutto adatta a procurare piccole patenti di nobiltà al fruitore. Il quale visita intimidito la mostra d’arte contemporanea, sceglie il film autoriale, ascolta compunto il concerto di musica colta e si tranquillizza: magari non gli è piaciuto nulla, forse ci ha capito pochissimo, ma sa di avere fatto le scelte giuste, e pensa di riceverne in cambio l’adozione di un tono di distinzione intellettuale, da sfoggiare nelle serate con gli amici.

Diciamolo subito, Regazzoni ha ragione. Soprattutto nel risvolto politico di questo discorso. Perché rifugiarsi nella cultura con la C maiuscola, lasciando invece campo libero nella società a Berlusconi, con i suoi Drive In, le squadre di calcio e le barzellette, non è stata una buona mossa, e i risultati elettorali si sono visti.  Di più: è stato il segno, come scrive Regazzoni, “dell’incapacità di una classe intellettuale di confrontarsi con lo spazio della cultura di massa”. Questa incapacità è per Regazzoni una malattia, di cui fornisce una diagnosi impietosa: pasolinismo, ovvero la “critica reazionaria della democrazia di massa, dei suoi media e della sua cultura”. Ed in effetti, Pasolini o non Pasolini, non sono pochi gli intellettuali che hanno pensato di doversi difendere dai tempi tristi e dai costumi volgari lamentando improbabili mutazioni antropologiche, criticando qualunque consumo di massa, e salendo infine sdegnosamente sopra un albero, pronti però a ridiscenderne in presenza di uno strapuntino più comodo e meglio retribuito.

Però Regazzoni ha anche torto, temo. In primo luogo, perché lascia intendere che il punto sia l’oggetto al quale si applica l’esercizio della professione intellettuale, e non invece il modo in cui lo si fa. Come se occuparsi dei film cecoslovacchi con sottotitoli in tedesco sia di per sé una cagata pazzesca, per dirla con Fantozzi, mentre fare della filosofia sui telefilm americani metta automaticamente in condizione di decifrare lo spirito del tempo.  In secondo luogo, perché a volte sceglie male i suoi esempi. Come per esempio quando se la prende con il pubblico, che si scandalizza per l’invito al Festival di Filosofia (si apre a giorni) rivolto quest’anno a Fabio Volo, ma si entusiasma stridulo per gli analoghi inviti a Michela Marzano o a Vito Mancuso, i quali starebbero rispettivamente alla filosofia e alla teologia come Giovanni Allevi sta alla musica classica. Ora, può darsi che sia davvero così, che cioè nessuno dei tre campioni di incassi meriti maggiore considerazione intellettuale di Fabio Volo – ed effettivamente ci sono ottime ragioni per preferire quest’ultimo – ma dubito molto che tenere sotto mano l’ultimo libro di Michela Marzano (che ne ha sfornati ben cinque nel solo 2012), o il programmatico e altisonante «Io e Dio» di Vito Mancuso, procuri senso di superiorità intellettuale e conferma del proprio ruolo sociale. Al contrario, l’uno e l’altra sono prodotti proprio di quella cultura di massa con cui Regazzoni vuole che l’intellettuale italiano si riconcili, smettendo di inarcare le sopracciglia.

La differenza non la fanno dunque né gli oggetti (sublimi oppure triviali) e neppure i numeri (grandi o piccoli, elitari o popolari), ma gli effetti, ossia quel che si vuole fare, il mondo che si vuole costruire con gli uni o con gli altri. Così è sbagliato temere ogni sorta di contaminazione con i gusti popolari, e mettere transenne che non difendono più nulla, ma semmai allontanano e mummificano. Ma è sbagliato pure perdere ogni distanza critica, e farsi piacere tutto indistintamente solo perché popolare, di successo, e di immediata comprensibilità. È sbagliato, più in generale, generare conformismi: e questo può accadere tanto in alto quanto in basso, sia nei festival che nei cinema d’essai.

A Regazzoni piace, in definitiva, il gesto dissacrante di Duchamp, quello che mise i baffi alla Gioconda. Nessun timore reverenziale verso la cultura alta, vuol dire, e siamo d’accordo. Ma se non si può tenere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno (e non prendere il becco di un voto), neanche si può tenere stampato in volto un sorriso idiota, qualunque cosa ci venga propinata.

(Il Mattino, 19 settembre 2012)

Realismo fuori dalla realtà

Dunque la storia sarebbe andata così: a un certo punto, verso la fine del Settecento, mentre in Europa si sta per fare la rivoluzione, la filosofia compie una «svolta trascendentale», e smette di credere che là fuori ci siano cose. Da allora, alberi o fontane, ciabatte o satelliti non sono più cose, per i filosofi, ma soltanto «dati di senso, fenomeni, apparenze». Sulle prime si continua a credere che le cose sussistano, però invisibili e inaccessibili: di sotto ai fenomeni, al di là delle apparenze, dietro ai dati sensibili. Poi, però, i filosofi si accorgono che li si lascia fare (pochi protestano, il mondo è in subbuglio, le rivoluzioni politiche si accavallano a quelle industriali), e allora tentano il colpaccio… (continua sul blog dell’Unità🙂

L’unità, 23 settembre 2012

A.A.A. Cercasi governatore

La prima cosa che occorre, per fare il governatore della Banca d’Inghilterra, è mandare il curriculum. La conoscenza della lingua inglese è obbligatoria, altrimenti non riuscirete neppure a leggere l’annuncio, ma per il resto non scoraggiatevi: non crediate che, per essere all’altezza del ruolo, occorra almeno sapere cosa fa il governatore di una banca centrale. Non occorre: sul sito del governo inglese, dove è apparso l’annuncio, viene spiegata ogni cosa. (Continua) (L’Unità, 19 settembre 2012)

La condizione operaia

Come stanno le cose con la condizione operaia? Settant’anni fa Simone Weil la vedeva così: “Molto male è venuto dalle fabbriche, e nelle fabbriche bisogna correggerlo. È difficile, forse non è impossibile. Bisognerebbe anzitutto che gli specialisti, gli ingegneri e gli altri fossero sufficientemente preoccupati non solo di costruire oggetti, ma di non distruggere uomini. Non di renderli docili, e neppure felici, ma solo di non costringere nessuno di loro ad avvilirsi”. Oggi le cose sono molto diverse: i processi produttivi sono cambiati, e molti aspetti del male venuto con l’introduzione del lavoro di fabbrica, cioè dell’abbrutimento che Simone Weil descrive con sgomento nelle sue lettere, sono stati per fortuna superati. Ma (continua)Immagine

Eluana, dibattito senza umanità

Quando suonano a morto le campane delle chiese di Udine, Maria (Alba Rohrwacher) è già lontana, ha già lasciato le amiche e gli altri attivisti riuniti in preghiera dinanzi ai cancelli della clinica “La quiete”, dove Luana Englaro si è spenta. Perché allora non dovrebbero valere per lei le parole rivolte a Pietro: “prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte”? Perché il rintocco delle campane, che invade lo schermo del film di Bellocchio, La bella addormentata, non dovrebbero lacerare la coscienza di Maria quanto il canto del gallo? Ma Maria è lontana per amore. La vita, la passione, la giovane età la portano lontano da dove le sue ragioni e convinzioni l’avevano fin lì condotta, e non importa se sia debolezza o forza, tradimento o buona fede: l’unica cosa che il film dimostra, è che la virtù e il corso del mondo non coincidono mai. Non nell’esistenza di Maria, ma neppure in quella degli altri protagonisti della pellicola, che nel momento decisivo, quando il presidente del Senato della Repubblica Italiana dà in aula la notizia pubblica della morte privata di una ragazza, si trovano tutti un passo prima o un passo dopo l’appuntamento che si erano dati con se stessi, con le loro proprie vite. Bellocchio non ha fatto un film a tesi: ha voluto offrire un grumo di storie che si raddensa negli ultimi giorni della vicenda Englaro intorno a un unico nodo, e all’impossibilità di scioglierlo senza che le esistenze non ne siano toccate, perfino straziate.

Nella vita, non nel Parlamento. Nel Parlamento, il decreto legge presentato il 7 febbraio 2009 dall’allora ministro Sacconi per stabilire con urgenza che “l’alimentazione e l’idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere sospese” doveva contenere la soluzione: fermare il padre di Eluana, impedire che Eluana fosse ammazzata, come gridò il senatore Quagliariello in aula, in una sequenza agghiacciante e memorabile che il film ripropone.

Rivedendosi sul grande schermo, Quagliariello ha osservato giustamente che le storie raccontate nel film, mentre sullo sfondo si consuma la battaglia politico-parlamentare sul decreto Sacconi, non hanno nulla di simile al caso di Eluana: non si tratta in nessuna di esse del problema, posto da Beppino Englaro ai tribunali italiani, di rispettare la volontà della figlia, ricostruita in base a dichiarazioni e testimonianze. Proprio per questo, però, il film è in grado di consegnare alla nostra memoria la collera di Quagliariello come una delle scene madri della vicenda politica italiana degli ultimi anni. E se anche è vero che il film di Bellocchio contiene – come è stato scritto – troppe scene madri per considerarsi perfettamente riuscito, almeno dal punto di vista cinematografico, è anche vero che riesce invece a dirci, senza entrare nel dibattito legislativo sul fine vita, che cosa a quel dibattito, culminato nella stizza rabbiosa di Quagliariello, mancasse per davvero: l’umanità.

Che cos’è l’umanità? Io non saprei dire altrimenti: è la maniera di fare esperienza della morte nella vita, della vita nella morte. La vita e la morte non sono infatti come le due facce di un foglio, l’una in ogni punto opposta all’altra, e dunque destinate a non incontrarsi mai. Per questo non è mai bastato ripetere con Epicuro che quando c’è la morte non ci siamo noi, mentre quando ci siamo noi non c’è la morte, per cui non abbiamo da preoccuparci, dal momento che non la incontriamo mai. Invece la incontriamo. La vita incontra la morte, proprio in quanto è vita umana, e il film accumula situazioni in cui avviene questo incontro, una faccia del foglio si ripiega e si volta nell’altra, come in uno strano anello di Moebius in cui non si può stabilire qual è il recto e quale il verso. Queste situazioni hanno i nomi e le parole dell’amore, e del dolore, e Bellocchio presta ai suoi personaggi un tono a volte un po’ didascalico, o troppo sentenzioso, per distillarne il senso: ma non è vero che l’amore acceca, dice la giovane Maria. E il padre, il senatore Beffardi (Toni Servillo), che si appresta a votare tra molti tormenti in dissenso dal gruppo contro il decreto Sacconi: “il dolore non nobilita l’uomo”.

Mettendo con materiale d’archivio la politica sullo sfondo, il film suggerisce che di questa umanità non vi fu, in quella vicenda, quasi nessuna traccia. Non è un caso che le uniche riprese televisive proposte nel film (oltre a quelle legate a Eluana) riguardano uno straniante documentario sulla vita che gli ippopotami conducono in acqua: una vita-solo-vita, una vita interamente e sordamente naturale, muta come in una specie di acquario e sempre uguale. Ma non è vero che la vita e la morte rimangono uguali, come cantava Gucccini: rimangono tali solo se la vita viene fissata come nuda vita di contro alla morte, e la morte non viene vissuta come un’esperienza umana, di cui è possibile appropriarsi (se si è laici) o in cui (se si è credenti) è possibile affidarsi.

Ma non è vero neppure, ed è l’unico appunto che vorremmo muovere al film, al di là del suo valore estetico, che la politica è solo una commedia macabra e farsesca, e che l’unico politico serio è quello che si dimette e lascia lo scranno di senatore, invece di urlare rancoroso in Parlamento. Anche la politica ha una sua nobiltà. Che può ritrovare, se rinuncia a far coincidere il corso del mondo (magari con la forza di una pretestuosa decretazione d’urgenza) con le nostre esacerbate virtù, e prova invece ad alleviare il peso della loro mancata coincidenza nelle vite di ognuno di noi, mettendolo in un destino comune.

L’Unità, 9 settembre 2012

Se i mercati sono contro il popolo

Ieri Angela Merkel deve essere passata di buon mattino dal birraio. O dal macellaio, non so. E lì deve aver scoperto che aveva ragione Adam Smith: non è dalla generosità dell’uno o dell’altro che poteva sperare di ottenere la merce, ma della valutazione che essi fanno dei loro propri interessi. Fatta questa sorprendente esperienza, posato il boccale di birra e messi nella sporta della spesa i galletti amburghesi, ha accusato non i birrai e i macellai bavaresi, ma i mercati, di non essere al servizio del popolo.

Forse, prima della giornata trascorsa ad Abensberg, in Baviera, la cancelliera pensava che tuttavia il mercato, con la sua famosa mano invisibile, avrebbe fatto in modo da far incontrare in maniera ottimale gli interessi del venditore e del compratore. Forse lo pensa tuttora, e ritiene che solo i mercati finanziari siano privi del fortunato ausilio della mano invisibile: sta di fatto che sembra venire a nuova consapevolezza, nella Merkel e forse nei governanti europei, che qualcosa tocca fare pure a loro.

È, infatti, un sillogismo di facile comprensione: se i mercati non sono al servizio del popolo, e se in democrazia, dove il popolo è sovrano, qualcuno al servizio del popolo deve pur starci, e preferibilmente i suoi rappresentanti, allora la cancelliera Merkel non può esimersi dal prestare lei quel servizio che i mercati non prestano, e con lei non possono esimersi dal prestarlo tutti gli altri governi dell’Unione.

I mercati, per loro conto, non solo non stanno al servizio del popolo, ma non stanno al servizio di nessuno. Sono organizzazioni di una razionalità puramente formale, si sarebbe detto una volta: regolano lo scambio, disinteressandosi di ragioni e fini dello scambio. Né lo si riesce a vedere un agente di borsa, un investitore, un broker assicurativo prendere il fiato prima di compiere un’operazione finanziaria, contare lentamente fino a dieci, quindi chiedersi pensoso: “ma questa transazione a molti zeri farà il bene del popolo? Dopo che avrò realizzato la mia brava plusvalenza, e sistemato le cose da qualche altra parte nel mondo per pagare meno tasse, com’è nel mio interesse, i miei concittadini staranno meglio di prima?”, e poi, valutati in coscienza i pro e i contro, decidere di conseguenza. Anche perché chi siano i concittadini dello speculatore che sposta capitali da una parte all’altra del globo non è facile dire.

Però Angela Merkel ieri, in un soprassalto di consapevolezza, se n’è accorta. Passi per il birraio, passi per il macellaio, passi pure per il panettiere – sono gli esempi di Smith, il quale, benché potesse vedere i progressi dell’economia inglese non poteva certo immaginare attività economiche molto diverse da queste – ma quando si tratta di massicci movimenti di capitale (e non di poetici battiti d’ali di farfalla che provocano tornadi all’altro capo del mondo) non si può lasciar fare al mercato. I mercati non hanno “spirito sociale”. Ed è così: non solo non ce l’hanno, ma non possono né vogliono averlo. E non glielo infondi nemmeno con ardite operazioni ideologiche con le quali ti inventi che è cosa buona e giusta che chi si è indebitato resti impiccato alla corda acquistata presso il creditore, oppure che l’unica salvezza è comprimere i salari, ridurre la spesa, tagliare i servizi, e sperare che quelli, i mercati, si impietosiscano e ti diano fiducia perché hai dimostrato buona volontà, rigore e austerità (distruggendo nel frattempo quote importanti di ricchezza nazionale).

Ma lo spirito sociale è come il coraggio di don Abbondio: se i mercati non ce l’hanno, mica se lo possono dare. Perciò siamo di nuovo a Angela Merkel, ai governi europei, alle responsabilità politiche dell’Unione: loro, uno spirito sociale ce l’hanno oppure no? Se ce l’hanno, è l’ora di dimostrarlo.

L’Unità, 4 setembre 2012

Delirio Grillo “Vogliono eliminarmi”

Basta aizzare l’opinione pubblica contro Beppe Grillo, dice preoccupato Beppe Grillo. Cioè la stessa persona che, nello stesso post in cui denuncia il “rito quotidiano dell’odio nei suoi confronti”,  conclude con un sinistro “ci vediamo in Parlamento” che somiglia tanto al modo in cui qualcuno ti dice “ti aspetto fuori”, per cominciare a menarti.

Però “gli aizzatori di professione” sono gli altri, cioè quelli che Grillo, l’inventore del Vaffa Day, insulta dal suo blog un giorno sì e l’altro pure, quelli di cui caricaturizza il cognome, quelli di cui compatisce e deride gli aspetti fisici , quelli che accusa di essere volta a volta morti, ladri, incapaci, incompetenti.

Facesse ancora il comico, ci sarebbe (forse) da ridere. Ma ormai è il leader acclamatissimo di un movimento politico che si appresta a scendere in campo alle prossime elezioni politiche, che i sondaggi accreditano di percentuali lusinghiere, e che dunque qualche responsabilità nell’uso delle parole dovrebbe ben avvertirla. E invece no. Invece Grillo ha deciso che alla retorica funeraria che accompagna i suoi interventi sempre urlati, per cui i partiti sono tutti morti e gli avversari politici sono degli zombie, manca un ultimo, prezioso tassello, il vittimismo, e ha deciso di usarlo.

Pare, infatti, che funzioni. Dove infatti l’abbiamo già sentita, questa storia del rito quotidiano dell’odio, che si celebrerebbe questa volta contro il comico genovese? Non certo in «1984»: Grillo si compiace di parafrasare il celebre capolavoro di George Orwell, ma non è la fonte letteraria che ci ritorna in mente, leggendo le sue allarmate parole, quanto piuttosto l’illustre precedente politico di Silvio Berlusconi: «Le campagne mediatiche fondate sulla menzogna non mi fermeranno», diceva a suo tempo il Cavaliere, che ebbe persino il guizzo di rappresentare la contrapposizione politica con i «comunisti» (gli odiati comunisti) in questi termini: “noi siamo il partito dell’amore, loro il partito dell’odio”.

Orbene, Grillo ha capito che per la contrapposizione frontale e di sistema sulla quale prospera la sua offerta politica – loro sono la casta: tutti uguali, tutti moralmente impresentabili e politicamente falliti, noi invece siamo la gente vera e incazzata, che non ne può più – occorre una linea di demarcazione netta e priva di sfumature. Che poi sia decisamente contraddittorio prendersela con gli aizzatori di professione, mentre si aizzano vigorosamente gli animi dei propri ideologizzatissimi simpatizzanti preoccupa Grillo tanto poco quanto poco Berlusconi si è in passato preoccupato di incoerenze e contraddizioni. Si può infatti dire tutto e il contrario di tutto, specie se il tutto è urlato e l’urlo prende il sopravvento, purché non si rinunci mai alla contrapposizione la più netta possibile tra quelli che vogliono distruggere (che sono sempre gli altri) e quelli che vogliono costruire (che siamo sempre noi, che stiamo con la gente), quelli che non hanno mai lavorato in vita loro e quelli che invece sopportano ogni genere di ingiustizia e vessazione. E così via.

Ripeto: funziona. È anzi una regola della politica, che nell’epoca della sfiducia verso la politica (della contro-democrazia, secondo la definizione del politologo francese Pierre Rosanvallon) riserva tra gli attori politici principali un posto di riguardo a chi fa meglio la parte dell’anti-politico. Il che è legittimo: basta sapere che si tratta, per l’appunto, di una parte. Ma non, però, della migliore.

Se ora, dopo aver insultato e fatto la vittima, Grillo vuol pure lamentarsi che quei cattivoni dei giornali o quei delinquenti dei politici rifiutano di confrontarsi sui programmi, che il movimento ha perfetti e nuovi di zecca (come se i grillini prendessero voti per quelli), beh: se la prenda pure con chi vuole, faccia pure passare uno per fallito e l’altro per furfante, ma non prenda nessuno per fesso. Quello no, grazie.

Il dialogo è scomodo. Ma senza dialogo siamo più poveri

Ma il cristianesimo è vero o no, in punta di fatto? La domanda non sembra proprio che possa essere aggirata, se è vero quanto diceva San Paolo ai suoi fratelli in Cristo: “Se Cristo non è risorto vana è la vostra fede”. Tutto ruota intorno alla resurrezione di Cristo. Hai voglia quindi a imbastire dialoghi fra credenti e non credenti, istituire cattedre, scrutare i segni dei tempi, o sforzarsi di capire le ragioni degli altri: alla fine bisogna tornare al punto, e chiedersi se Cristo sia davvero risorto oppure no.

Eppure non va così: non solo per il cardinale Martini, che al dialogo con i non credenti ha dedicato una parte fondamentale e insostituibile del suo impegno pastorale, intellettuale e spirituale, ma, oso dire, addirittura sulle strade del Vangelo. Lì, infatti, ad un certo punto, Cristo risorge. Così almeno narrano gli evangelisti. Secondo il racconto di Luca, Gesù apparve dopo la morte a due discepoli, in viaggio verso Emmaus, e camminò a lungo con loro. Senza essere riconosciuto ne ascoltò i discorsi, li interrogò, apprese così da loro stessi la delusione per la morte del Maestro e la confusione in cui erano stati gettati dalla scoperta del sepolcro vuoto. Allora Gesù interpretò per loro le Scritture, mostrando come esse si riferissero ovunque a lui come al Messia.

Ma non bastò. Non accadde nessuna rivelazione. Giunti al villaggio, Gesù fece come se dovesse proseguire il cammino, e solo dietro l’insistenza dei compagni di viaggio accettò di fermarsi a cena. E fu, allora, l’ermeneutica del gesto eucaristico, lo spezzare il pane ed il versare il vino, ad aprire finalmente gli occhi dei discepoli.

Orbene, io non sono un teologo né un biblista, ma voglio avventurarmi ugualmente nell’interpretazione di questi versetti, e provare a pensare che in essi si può trovare una buona ragione per dialogare e discutere anche quando non sia riconosciuta e stabilita preliminarmente e per tutti la stessa verità prima e ultima. Come non pensarlo, da parte almeno dei credenti, se persino Cristo risorto, nel Vangelo, non si impone con la forza dell’evidenza, ma prende la via del dialogo e dell’ascolto? Come non pensarlo, se alla fine della giornata Gesù accetta il rischio di aver discusso inutilmente, e fa per rimettersi in viaggio, con buona coscienza e senza rancore (immagino), e soprattutto senza aver ancora dimostrato se stesso e la verità? E come non pensarlo, da parte dei non credenti, che non possono certo dire, in prima persona, di essere la via, la verità e la vita, e non hanno dunque altro che le parole per mettere in comunione il vero?

Quando Carlo Maria Martini istituì in Milano la cattedra dei non credenti, sia da parte cattolica che da parte laica si ebbe quasi un moto di fastidio per questa tenace propensione al confronto, per una ricerca tesa, rigorosa e insieme aperta,  di possibili motivi comuni, che, a giudizio di quei severissimi censori, finiva col mettere da parte la pietra di inciampo decisiva, cioè la resurrezione di Cristo e insomma la verità della religione cristiana. Come se riflettere sul significato storico, culturale o antropologico della religione e delle religioni, oppure discutere di morale cristiana, morale laica, morale naturale, o ancora interpretare simboli e significati dell’esperienza umana del mondo e interrogare la costituzione filosofico-politica della modernità rappresentasse solo una perdita di tempo, fosse colpevolmente elusivo o costituisse comunque un modo di togliere dal tavolo la questione fondamentale. Che doveva essere e rimanere, nuda e cruda, la pretesa di verità della Chiesa. Altro che dialogo: da parte laica si manifestava chiaramente, in questo modo, l’ambizione di inchiodare i cristiani, e ancor più i cattolici, all’irrazionalità e finanche all’assurdità dei loro dogmi; da parte cattolica si protestava invece contro gli indebolimenti, i relativismi, i revisionismi e insomma tutte le aperture del cardinale. Vale a dire: tutto quello che si può dire lungo la via, prima che si faccia sera e si accetti o meno l’invito a restare a cena.

Eppure la Gaudium et spes  formulava espressamente agli atei l’invito a “voler prendere in considerazione il Vangelo di Cristo con animo aperto”. Il cardinale Martini fece lo stesso, e con lo stesso animo. Ancora: la Gaudium et spes giudicava l’ateismo uno dei fenomeni più preoccupanti del nostro tempo, ma offriva anche il riconoscimento che la civiltà moderna non è tale per essenza. E dunque: ora che stiamo assistendo all’esaurirsi della vena postmoderna, non sarebbe cosa assai importante riprendere il filo di una riflessione sul significato della modernità, su cosa mai essa sia o sia stata per essenza? E non sarebbe utile che credenti e non credenti continuassero a farlo insieme, discutendo e dibattendo fino a sera, nello stesso spirito di Carlo Maria Martini?