Archivi del mese: novembre 2012

Baricco e il bel gesto

Qual è la domanda che un intervento come quello di Alessandro Baricco, alla Leopolda, suscita? Vedremo poi. Intanto, quello che ha detto.

Ha detto Baricco che alla Leopolda c’è già stato un anno fa, per dire soltanto due cose: «non abbiate paura» e «giocate con i pezzi bianchi», cioè fate la prima mossa, giocate d’anticipo. Poi ha detto che si augura che l’Italia abbia sempre due cose importanti: una è «avere il gusto del futuro, profondo»; l’altra è che «non si può immaginare nessun futuro senza che sia scritto insieme agli spazi bianchi della società», i quali spazi bianchi sarebbero la solitudine, la povertà, la semplicità, cose così. Bisogna scriverli, quegli spazi, dice Baricco. Poi dà il suo contributo per la cultura di questo paese. Dice che la prima cosa da fare è «distruggere le navi», come fecero gli Arabi arrivati in Spagna dal mare, per far capire che sarebbero rimasti, oh se sarebbero rimasti. Nel contesto attuale, distruggere le navi significa, a sua volta, due cose:  la prima è che l’unico grande problema di questo paese è l’educazione; la seconda è che ci vuole uno «spirito costituente», perché si tratta «non di riformare, ma di rifondare. Completamente». Certo, si può mettere al primo posto il lavoro, ma la seconda cosa è allora «tornare ad educare il paese». E farlo significa: « valutare e giudicare ». Il merito, d’accordo, ma solo se si è capaci di «dare un punteggio e valutare». Due cose ancora, dunque.

Orbene, immagino che vi siate fin qui concentrati sulle parole tra virgolette. E avete fatto male: (sull’Unità, 18 novembre 2012, prosegue qui

Ultima chance per i partiti o è suicidio

La selva di proposte di riforma della legge elettorale somiglia sempre più ad un’altra famosa selva: quella del canto tredicesimo dell’Inferno. «Non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti», scriveva Dante, ed in effetti: trovatela voi una proposta di legge che non  sia «‘nvolta», involuta cioè, complessa e tortuosa come non mai. Soglie di sbarramento, premi al partito o alla coalizione fissati un po’ più su o un po’ più giù, e circoscrizioni e collegi e preferenze e turni unici o doppi turni: non si può dire che la materia non offra spine velenose ed aspri sterpi, tra i quali sembra proprio che non si riesca ad avanzare di un solo passo. E anche al cittadino italiano, che come il Poeta si è messo per un simile bosco, vien fatto di esclamare: «Io sentia d’ogne parte trarre guai». Non c’è nessuno, infatti, che non mandi alti lai per l’orribile Porcellum, anche se poi non si capisce, come nella selva dantesca, chi diavolo sia a lamentarsi, visto che passano gli anni e i mesi e il Porcellum è sempre lì, a farsi beffe dei propositi di riforma. «Cred’io ch’ei credette ch’io credesse», scrive allora l’Alighieri, e anche se non pensava al balletto di dichiarazioni e controdichiarazioni sulla materia elettorale, la cosa sembra che stia proprio così, fra l’uno e l’altro dei leader della strana maggioranza che si palleggiano le responsabilità, in un gioco sempre più incomprensibile (o forse fin troppo comprensibile) di tatticismi e convenienze, proprie ed altrui.

Eppure una cosa è certa: la riforma elettorale s’ha da fare. Dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano all’ultimo dei cittadini, è convinzione di tutti che non si possa andare al voto con l’attuale legge. Se i partiti non pensano di dover togliere dal tavolo l’argomento che questa legge rimette nelle mani di cinque o sei persone la scelta dell’intera rappresentanza nazionale, trasformando di fatto un organismo elettivo in un’assemblea di nominati, né prevede una soglia minima oltre la quale assegnare un premio in seggi, consentendo così a formazioni anche assai lontane dal 50% dei suffragi di diventare maggioranze parlamentari, vuol dire che non avvertono abbastanza il problema, che pure denunciano, di una perdita di credibilità della politica.

C’era un impegno a cambiare: va mantenuto. Ma si discute di date ed election day: il Pdl vuole accorpare voto regionale e voto nazionale, il Pd non intende accettare uno slittamento in avanti del voto regionale. Se però la soluzione fosse di anticipare il voto nazionale, potrebbero chiudersi definitivamente gli spazi per la riforma del Porcellum. Il Pdl otterrebbe di scongiurare il temuto effetto di trascinamento sulle politiche dio un voto regionale negativo. Il Pd otterrebbe di avvicinare il passaggio di consegne, nell’ipotesi, accreditata dai sondaggi, di una sua vittoria nelle urne. Ma l’Italia avrebbe ancora, per la terza legislatura consecutiva, una legge elettorale suina.

Ora, è vero che una legge elettorale non ha rango costituzionale, ma è difficile scindere il giudizio sul sistema politico – sulla sua moralità, sul suo prestigio, sulla sua funzione di rappresentanza, sulla capacità di determinare indirizzi istituzionali e di programma – dal giudizio sul sistema di voto. Lasciando le cose come stanno, non avremmo il primo provvedimento verso l’agognata terza Repubblica, ma l’ennesimo stallo in cui ci ha precipitati la seconda. E i partiti, invece di avviare il loro riscatto, procurerebbero ancora l’impressione di essere finanche disposti  a mandare a casa il governo Monti , pur di tutelare il loro proprio tornaconto. (E Grillo, nel frattempo, continuerebbe a ridersela alla grande).

Verrebbe voglia, in tale ipotesi, di continuare con la fosca similitudine dantesca. Perché la selva di cui parla Dante è la selva dei suicidi. E di suicidio politico c’è il rischio che si debba parlare. Nella Commedia, a coloro che si tolgono la vita viene inflitta la pena di vedere le spoglie mortali appese ai rami, senza che essi possano rientrare in possesso dei loro corpi. Continuando di questo passo, la tragedia è che delle istituzioni democratiche potrebbero non restare che morte spoglie. E la politica, ben lungi dal tornare in possesso della sua funzione, potrebbe essere costretta ad un ruolo sempre più marginale: se non nel Parlamento, certo presso la grande maggioranza dei cittadini.

(Il Mattino, 17 novembre 2012)

Un anno d’Europa senza Berlusconi

Il 4 novembre 2011 la vita in Italia era la vita di un paese benestante: i consumi non erano diminuiti, i ristoranti erano pieni, i posti di vacanza erano iperprenotati, e l’Italia non sentiva “un qualche cosa che potesse assomigliare ad una forte crisi”. Così disse il presidente del consiglio italiano in conferenza  stampa, nel corso del G20 di Cannes, in Francia. Otto giorni dopo Silvio Berlusconi rassegnò precipitosamente le dimissioni. Altri otto giorni e il nuovo governo di Mario Monti ottenne la fiducia di entrambi i rami del Parlamento. Ora è trascorso un anno: i ristoranti non si sono ancora riempiti, i posti di vacanza non registrano il tutto esaurito, e soprattutto gli italiani avvertono, e come!, un qualche cosa che assomiglia ad una forte crisi. Non solo assomiglia: è una forte crisi. Il Cavaliere disse anche, in quella occasione, che non vedeva in Italia esponenti in grado di rappresentare il Paese. Il 9 novembre il Presidente della Repubblica diede notizia di aver nominato il professor Mario Monti senatore a vita: qualcosa dunque cominciava a vedersi. E, dopo un anno, un certo deficit di rappresentanza del nostro paese in Europa e all’estero è stato forse colmato. È allora per questo che ci siamo liberati di Berlusconi: per presentarci in maniera più decorosa a conferenze europee e summit mondiali?

Anche per questo, sicuramente. Si potrebbero in verità elencare altre ragioni per cui la maggioranza dell’elettorato italiano ha visto con favore la fine di quel governo, ma non v’è dubbio che, fra queste, la ripresa di credibilità internazionale e il recupero di un certo peso politico in seno alle istituzioni europee hanno avuto un ruolo determinante. Ci sono voluti mesi perché smettessimo di parlare di spread sulle prime pagine dei quotidiani nazionali, e in verità ogni tanto, come accade con certi reumatismi che non passano mai, la fitta dello spread torna a farsi sentire, e a ricordarci i vincoli esterni che dobbiamo assolutamente rispettare.

Ma è sufficiente tutto ciò? Può essere il vincolo esterno a scandire le politiche del governo nazionale? Si può essere europeisti per forza, e metterci, in più, solo un certo contegno? Già una volta, in realtà, è toccato all’Italia di essere qualcosa per forza: quando, negli anni novanta, compimmo lo sforzo di star dentro i parametri di Maastricht per partecipare alla costruzione della moneta unica, e il riformismo dei governi di centrosinistra di quegli anni fu, per l’appunto, dettato dalla necessità. O almeno così ci fu raccontato e ci raccontammo. A distanza di anni, e dopo aver ricavato un assai gramo raccolto da quelle decisioni, il punto, forse, non è se fosse vero che quella era la strada giusta, ma se fosse davvero l’unica percorribile, e soprattutto se la si dovesse percorrere proprio perché era l’unica. Benedetto Croce diceva che l’azione umana ha dinanzi a sé un largo spettro di possibilità, in cui compie le sue scelte. Quando però ci si volta indietro, si trova che quelle scelte apparentemente libere erano in realtà imposte da una rigorosa necessità, che è compito dello studioso consegnare all’intelligenza storica dei fatti. A noi accade purtroppo tutto il contrario: guardiamo avanti, e scorgiamo soltanto necessità, obblighi ai quali non possiamo sottrarci. Abbiamo anzi un governo che sembra non volerci ricordare altro. Quando però ci volgiamo indietro, si scopre che, forse, dell’altro si sarebbe potuto fare: altro che tecnica! Spazi di libertà ce n’erano, e decisioni eminentemente politiche sono state prese.

Il fatto è che nessuna politica democratica può affermarsi, se non è in grado di sciogliere al tempo giusto necessità, vincoli, condizioni, in un libero progetto e in una convinta assunzione di responsabilità. Se non è in grado di avere una propria autonoma visione del nesso fra ambito nazionale e ambito internazionale e di proporla al proprio paese come la migliore speranza, piuttosto che come la sola possibilità.

Oggi il centrosinistra italiano è una forza di chiaro stampo europeista. L’unica, probabilmente, viste le pulsioni populiste che si agitano: a destra e non solo.  Su questo terreno, il centrosinistra fornisce dunque le più ampie garanzie ai partner europei. Ma qual è la qualità di questo europeismo? Bastano i certificati di garanzia, o ci vogliono nuove istruzioni per l’uso? Forse non basta dire che vogliamo più Europa, se l’Europa che vogliamo è solo quella che dobbiamo volere. Non basta usare l’europeismo come una ciambella ideologica di salvataggio, alla quale aggrapparci dopo il tramonto di ogni altra visione del mondo. Non basta dire dove non vogliamo finire, se non sappiamo dove vogliamo andare a parare. Non basta nulla, se non c’è modo di far sentire agli italiani qualche cosa che non assomiglia ad una forte crisi, ma ad una forte speranza di cambiamento.

L’Unità, 11 novembre 2012

Il forziere dei valori

Devo darvi una notizia buona e una cattiva. La notizia buona è che siete Picasso, Pablo Picasso, e ancor prima dell’età del giudizio siete arrivati in cima alla tradizione accademica: vostro padre vi ha messo matita e pennelli in mano, e voi non avete mai smesso di dipingere. Tutto quello che c’era da sperimentare del passato dell’arte è già stato da voi sperimentato, digerito, infine espulso.

La brutta notizia è che dinanzi a voi non è rimasta che un’alternativa, l’alternativa dinanzi alla quale ha finito col trovarsi l’arte europea ai nastri di partenza del secolo ventesimo. Anzi proprio nel 1900: quando, in agosto, muore dopo anni di malattia Friedrich Nietzsche, il filosofo del nichilismo («i valori supremi perdono ogni valore. Manca il fine. Manca la risposta alla domanda: perché?»), e in ottobre un baldanzoso giovanotto di Malaga arriva a Parigi: Picasso, per l’appunto.

Qual è l’alternativa? (continua qui)

Partiti non più tradizionali

«I principali partiti tradizionali godono di percentuali sempre più irrisorie», ha scritto Pierluigi Battista sul Corriere, commentando i risultati del voto in Sicilia. Non molto diversamente, Grillo ha ironizzato sui festeggiamenti del partito democratico: forse si attendevano un risultato a una cifra, ha detto. Per dire che c’è poco da festeggiare: continua qui.