Il 4 novembre 2011 la vita in Italia era la vita di un paese benestante: i consumi non erano diminuiti, i ristoranti erano pieni, i posti di vacanza erano iperprenotati, e l’Italia non sentiva “un qualche cosa che potesse assomigliare ad una forte crisi”. Così disse il presidente del consiglio italiano in conferenza stampa, nel corso del G20 di Cannes, in Francia. Otto giorni dopo Silvio Berlusconi rassegnò precipitosamente le dimissioni. Altri otto giorni e il nuovo governo di Mario Monti ottenne la fiducia di entrambi i rami del Parlamento. Ora è trascorso un anno: i ristoranti non si sono ancora riempiti, i posti di vacanza non registrano il tutto esaurito, e soprattutto gli italiani avvertono, e come!, un qualche cosa che assomiglia ad una forte crisi. Non solo assomiglia: è una forte crisi. Il Cavaliere disse anche, in quella occasione, che non vedeva in Italia esponenti in grado di rappresentare il Paese. Il 9 novembre il Presidente della Repubblica diede notizia di aver nominato il professor Mario Monti senatore a vita: qualcosa dunque cominciava a vedersi. E, dopo un anno, un certo deficit di rappresentanza del nostro paese in Europa e all’estero è stato forse colmato. È allora per questo che ci siamo liberati di Berlusconi: per presentarci in maniera più decorosa a conferenze europee e summit mondiali?
Anche per questo, sicuramente. Si potrebbero in verità elencare altre ragioni per cui la maggioranza dell’elettorato italiano ha visto con favore la fine di quel governo, ma non v’è dubbio che, fra queste, la ripresa di credibilità internazionale e il recupero di un certo peso politico in seno alle istituzioni europee hanno avuto un ruolo determinante. Ci sono voluti mesi perché smettessimo di parlare di spread sulle prime pagine dei quotidiani nazionali, e in verità ogni tanto, come accade con certi reumatismi che non passano mai, la fitta dello spread torna a farsi sentire, e a ricordarci i vincoli esterni che dobbiamo assolutamente rispettare.
Ma è sufficiente tutto ciò? Può essere il vincolo esterno a scandire le politiche del governo nazionale? Si può essere europeisti per forza, e metterci, in più, solo un certo contegno? Già una volta, in realtà, è toccato all’Italia di essere qualcosa per forza: quando, negli anni novanta, compimmo lo sforzo di star dentro i parametri di Maastricht per partecipare alla costruzione della moneta unica, e il riformismo dei governi di centrosinistra di quegli anni fu, per l’appunto, dettato dalla necessità. O almeno così ci fu raccontato e ci raccontammo. A distanza di anni, e dopo aver ricavato un assai gramo raccolto da quelle decisioni, il punto, forse, non è se fosse vero che quella era la strada giusta, ma se fosse davvero l’unica percorribile, e soprattutto se la si dovesse percorrere proprio perché era l’unica. Benedetto Croce diceva che l’azione umana ha dinanzi a sé un largo spettro di possibilità, in cui compie le sue scelte. Quando però ci si volta indietro, si trova che quelle scelte apparentemente libere erano in realtà imposte da una rigorosa necessità, che è compito dello studioso consegnare all’intelligenza storica dei fatti. A noi accade purtroppo tutto il contrario: guardiamo avanti, e scorgiamo soltanto necessità, obblighi ai quali non possiamo sottrarci. Abbiamo anzi un governo che sembra non volerci ricordare altro. Quando però ci volgiamo indietro, si scopre che, forse, dell’altro si sarebbe potuto fare: altro che tecnica! Spazi di libertà ce n’erano, e decisioni eminentemente politiche sono state prese.
Il fatto è che nessuna politica democratica può affermarsi, se non è in grado di sciogliere al tempo giusto necessità, vincoli, condizioni, in un libero progetto e in una convinta assunzione di responsabilità. Se non è in grado di avere una propria autonoma visione del nesso fra ambito nazionale e ambito internazionale e di proporla al proprio paese come la migliore speranza, piuttosto che come la sola possibilità.
Oggi il centrosinistra italiano è una forza di chiaro stampo europeista. L’unica, probabilmente, viste le pulsioni populiste che si agitano: a destra e non solo. Su questo terreno, il centrosinistra fornisce dunque le più ampie garanzie ai partner europei. Ma qual è la qualità di questo europeismo? Bastano i certificati di garanzia, o ci vogliono nuove istruzioni per l’uso? Forse non basta dire che vogliamo più Europa, se l’Europa che vogliamo è solo quella che dobbiamo volere. Non basta usare l’europeismo come una ciambella ideologica di salvataggio, alla quale aggrapparci dopo il tramonto di ogni altra visione del mondo. Non basta dire dove non vogliamo finire, se non sappiamo dove vogliamo andare a parare. Non basta nulla, se non c’è modo di far sentire agli italiani qualche cosa che non assomiglia ad una forte crisi, ma ad una forte speranza di cambiamento.
L’Unità, 11 novembre 2012