Archivi del mese: febbraio 2013

Euro e democrazia. Allarme populismo

Immagine

Si può cominciare da dove la campagna elettorale è finita – dalla piazza San Giovanni di venerdì sera, gremita all’inverosimile per l’ultimo comizio-spettacolo di Grillo – per chiedersi quanto la politica italiana sia infettata dal populismo, e se le urne ci regaleranno davvero un Parlamento affollato di parlamentari che, però, non credono nella democrazia parlamentare. Che il populismo sia una sorta di febbre che innalza la temperatura politica di un paese mettendone a dura prova la fibra è giudizio largamente condiviso, anche se, almeno entro certi limiti, si tratta di una malattia fisiologica, da cui è impossibile immunizzarsi (a meno di non voler rinunciare al suffragio universale). Le ultime battute della campagna elettorale, ma forse l’intera stagione politica che volge con queste elezioni al termine, fanno però temere che siano stati raggiunti ormai i livelli di guardia: l’astensionismo è dato in aumento, non solo il Movimento 5 Stelle, ed è diffuso nel Paese il discredito nei confronti della politica tutta. Quanto poi alla sfiducia nei confronti delle istituzioni rappresentative, sono gli stessi grillini, alfieri della democrazia diretta e della partecipazione via web, a proclamarla ad ogni occasione, trascinando in un unico giudizio le istituzioni e gli uomini che le rappresentano. Questo, peraltro, è il primo dei tratti caratteristici del populismo: la profonda diffidenza, il fastidio e infine il rigetto per tutte le forme della mediazione politica, identificate senz’altro con il compromesso, l’inciucio, l’imbroglio. Quando Grillo dice che i suoi uomini andranno alla Camera per aprirla come una scatoletta di tonno, lascia intendere che il Parlamento è per lui tutto meno che il luogo della rappresentanza: è piuttosto il covo dove si consumano truffe e raggiri ai danni dei cittadini. La polemica contro la partitocrazia finisce col tracimare, e investe poi anche i più alti organi costituzionali, giudicati volta a volta responsabili o conniventi.

E a proposito del tonno e di immagini simili, altro tratto evidente della retorica populista sono le espressioni grevi e sguaiate, spesso violente, che in queste settimane non ci sono state risparmiate. Sono servite per opporre al politichese una lingua presuntamente genuina, che dica finalmente pane al pane e vino al vino. Su questo terreno in Italia s’era già messa la Lega, nei cui discorsi non è infrequente che compaiano il turpiloquio e il vilipendio, ma anche Berlusconi, che ha provato a ripetere il refrain contro lo spregevole teatrino della politica, o Di Pietro, con le sue sgrammaticature da finto Bertoldo della politica. Oggi c’è Grillo, che di suo ci mette il gusto della battuta spesso denigratoria.

Poi c’è la faccenda del leader, di partiti fortemente personali e carismatici, sorti lontano dalle tradizioni politiche nazionali, che anzi rifiutano e dileggiano (con la conseguenza però che non si riesce nemmeno a capire a quali famiglie politiche europee appartengano, e dove andranno a sedersi il prossimo anno, dopo le europee). La personalizzazione della politica è fenomeno di lunga data, che procede di pari passo con la destrutturazione del sistema politico tradizionale e la sempre più significativa incidenza dei mass media. Il voto di oggi e domani fornisce nuovi, fulgidi esempi, a destra come a sinistra. A parte il solito Grillo, a destra, l’emancipazione del PdL dal suo padre fondatore è terminata il giorno in cui Alfano e compagni si sono resi conto che la campagna elettorale poteva farla solo Berlusconi, e così è stato. Dall’altra parte, appannatosi il fascino tutto personale delle narrazioni vendoliane, è accaduto che l’arcipelago residuo della sinistra antagonista si mettesse, per sopravvivere, sotto l’insegna di un nome e di un cognome, quello di Antonio Ingroia.

Populista è dunque il rifiuto della mediazione, populista è l’identificazione semplicistica con il capo, populista è infine la contrapposizione diretta e immediata fra élite e popolo. Vi sarebbe in verità un altro tratto rilevante, il nazionalismo (e addirittura il razzismo), ma per ora, per fortuna, ne abbiamo fatto l’economia, non essendo andati molto oltre le minuscole liste localistiche al Sud, e le consuete rivendicazioni territoriali della Lega. Sarà importante misurare la loro forza residua nelle regionali lombarde.

Ma alla forma principale con cui si presenta da noi la rivolta contro la casta – il ceto politico corrotto opposto alla gente onesta che lavora – forma che rimbomba nel grido grillino di piazza: “arrendetevi, siete circondati!”, si è aggiunto, complice la crisi, il sentimento di ostilità nei confronti della tecnocrazia europea. Una nuova linea di demarcazione sembra tracciarsi, a queste elezioni, fra quelli che vogliono tener l’Italia dentro l’euro, e quelli che invece pensano di tenerla fuori. Anche in questo caso, non c’è solo il roboante Grillo, ma pure la sinistra radicale e, a far da compagnia, benché più esitante, ancora il Cavaliere, che un giorno sollecita populisticamente propensioni antitedesche e un altro si ricorda invece di appartenere ancora alla famiglia del popolarismo europeo.

Quest’ultimo aspetto è però il più decisivo, benché una campagna elettorale deludente non lo abbia evidenziato abbastanza. Perché molto del nostro futuro dipenderà dall’Europa, le cui istituzioni non hanno però appeal presso l’elettorato e anzi scontano un pesante deficit di legittimità democratica, accentuato dalla crisi, che ha marginalizzato il Parlamento e la Commissione europea, esaltando il ruolo della BCE e gli accordi intergovernativi. Il contraccolpo è ancora una volta un balzo in avanti degli umori populisti, che si sollevano contro burocrati e banchieri centrali. Su questo si sarebbero dovuto misurare i partiti in campagna elettorale; su questo ci auguriamo che, almeno, vogliano farlo seriamente nel nuovo Parlamento

Il Mattino, 24 febbraio 2013

Vogliamo promesse

In principio era il Verbo, e il Verbo fece, nientemeno, una promessa. Ora, si può ben discutere sui contenuti della promessa e sui tempi e i modi del suo mantenimento, ma non sul fatto che una dimensione di natura prescrittiva sia originariamente legata all’uso della parola. Perciò, la scena che Agostino allestisce nelle Confessioni – a proposito dell’apprendimento del linguaggio: le parole denominano gli oggetti e il bambino impara a parlare apprendendo i nomi degli oggetti – quella scena è del tutto campata in aria. «Di una differenza tra tipi di parole Agostino non parla», notava Wittgenstein: come se Agostino non conoscesse i differenti impieghi del linguaggio, e soprattutto come sia necessario, perché qualcuno impari qualcosa, che ci sia fiducia, che si dia retta e che si presti ascolto. È quello che si chiama legame sociale, che si stabilisce (non solo ma anche) nel linguaggio e col linguaggio (prosegue su Left Wing)

Donne, la parità non si predica ma si pratica

Una candidata donna al Quirinale: è quanto auspicano molti leader politici in questi giorni. Ma può un curriculum finire qua? Possono le altre referenze, ed esperienze, e competenze, sparire, perché venga promossa esclusivamente una scelta in base al sesso? Ed è nell’interesse delle donne che scompaia ogni altra motivazione, in omaggio al riequilibrio di genere, e in oltraggio a tutto il resto? Bene, chiariamo subito un punto: l’Italia è ancora oggi una società maschilista. Basta passare in rassegna i vertici delle società per azioni, i ruoli dirigenti della pubblica amministrazione oppure i primari ospedalieri, o infine le stesse direzioni dei giornali, per rendersene conto. Ma c’è da dubitare che la promozione a ruoli di responsabilità di una donna semplicemente in quanto donna renda davvero giustizia alle sue doti, ai suoi talenti e ai suoi meriti, e non finisca invece col perpetuare logiche sessiste. Col risarcire cioè una tantum le donne per i torti e le discriminazioni subite, senza però rimuovere – come recita la nostra Costituzione –, anzi senza nemmeno scalfire gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’uguaglianza fra i sessi.

Certo, viviamo in un paese in cui, purtroppo, è più facile predicare la parità di genere che praticarla, in cui le battute grevi e da caserma fanno ancora simpatia e riscuotono l’applauso, in cui i comportamenti misogini non sono socialmente sanzionati ma spesso esplicitamente approvati, e in cui gli stereotipi nella rappresentazione della donna sono duri a morire, e anzi nutrono costantemente il racconto pubblico dei media e della televisione. Per cui ben venga una donna al Quirinale, e ben vengano anche centinaia di donne in Parlamento. Ma vengano per tutto ciò che portano con sé, con le loro storie collettive e le loro qualità individuali, con la loro cultura e, anche, la loro differenza, e non solo perché sarebbe bello se finalmente toccasse a una donna, tutto il resto rimanendo uguale a prima.

Nell’ultimo rapporto 2012 del World Economic Forum sul «gender gap», cioè sul divario che ancora separa le donne dagli uomini, l’Italia perde sei posizioni rispetto all’anno precedente e si colloca tristemente in ottantesima posizione, subito dopo Botswana, Perù e Cipro (ma prima, va detto, di Ungheria e Grecia).  Il rapporto prende in considerazione quattro fattori principali:  il livello di istruzione, le condizioni di salute, la condivisione di potere politico e infine la partecipazione alla vita economica e le opportunità di lavoro offerte alle donne. Inutile dire che è in particolare in quest’ultimo campo che l’Italia – complice la crisi – ha perso terreno nell’ultimo anno. Il dato colpisce ancora di più se solo si osserva la forte correlazione, evidenziata dagli estensori del rapporto, fra il divario di genere e la competitività di un paese, nel senso che quanto minore è il primo tanto maggiore è la seconda. Insomma: meno donne lavorano, più una nazione scivola indietro. Il che lascia anche pensare che nei curriculum delle donne si trovano risorse che meritano di essere valorizzate nell’interesse generale del paese, e non accantonate per limitarsi ad ossequiare il genere.

In occasione della manifestazione One Billion Rising dello scorso 14 febbraio – milioni di donne in tutto il mondo, in mille piazze di mille città hanno ballato insieme, contro la violenza di genere, gli stupri e i femminicidi – la scrittrice Michela Murgia ha spiegato che il suo significato più profondo è «quello di averci costrette a dire con il nostro stesso corpo che il cambiamento viene da noi, dalle donne, dalle scelte che facciamo, dal valore che decidiamo di darci e dal modo in cui scegliamo di agire dentro ai nostri contesti». Se questo è vero – ed è vero, così come è vero che il comportamento degli uomini non cambia se non in ragione di quanto quel cambiamento viene esigito, e praticato, e conquistato dalle donne stesse – allora non può trattarsi di riconoscimenti formali o peggio di graziose concessioni, neppure quando è in gioco la più alta carica della Repubblica.

Se tocca a una donna, dunque, è perché è più brava. Punto. E di questo, almeno, non c’è ragione di dubitare: che di donne brave ce ne sono, e ce ne saranno sempre più. 

Il Mattino, 21 febbraio 2013

L’addio che vale una domanda: che cos’è la fede?

Il significato di un gesto non si colloca mai soltanto nel campo delle intenzioni di chi lo compie. Ciò è tanto più vero, quanto più quel gesto è iscritto in una trama ampia di connessioni storiche, simboliche, istituzionali che lo trascendono, che lo sostengono ed a cui si sostiene. Per questo, tutte le analisi delle dimissioni annunciate da Benedetto XVI, le quali si soffermano sulle poche parole pronunciate in latino per congetture sul peso avuto dalle condizioni di salute, oppure sullo stato d’animo del Pontefice, o anche soltanto sulle circostanze più o meno contingenti che possono aver spinto l’uomo a compiere un gesto così clamoroso, possono tutte dare risalto al profilo psicologico oppure a più robuste dinamiche ecclesiali, e possono mantenere anche una doverosa forma di discrezione e rispetto per la figura di Joseph Ratzinger, ma riescono insufficienti, inadeguate per principio.

Di più: l’inadeguatezza è nelle cose stesse, poiché il significato del passo compiuto non sta in nulla di ciò che sia già accaduto, ma dipende in misura decisiva da quel che accadrà o potrà accadere. E non nelle prossime settimane, ma nei prossimi anni, nei decenni futuri. L’interpretazione di ogni gesto, e tanto più di un gesto così rilevante, è rimessa sempre al futuro. Per questo, non sono di particolare aiuto né i (rarissimi) precedenti storici, né i polverosi rimandi al diritto canonico: che la possibilità delle dimissioni sia perfettamente iscritta nella legge della Chiesa, infatti, non spiega nulla. E per la verità non sono sufficienti neppure le spiegazioni che cercano retroscena negli anni del Pontificato, oppure evidenziano difficoltà e resistenze incontrate dentro la Curia romana, o infine enfatizzano gli scandali, la «sporcizia della Chiesa». Non perché questi elementi non possono essere stati tenuti presenti, ma perché l’area di significato al quale appartiene il gesto di Benedetto XVI non è ancora tracciata: solo la storia (per i credenti: la Provvidenza) si preoccuperà di farlo. La storia, infatti, la fanno certamente gli uomini, come diceva Vico, ma con altrettanta certezza non sono semplicemente le loro intenzioni a farla (Vico sapeva anche questo).

Dove dunque guardare? Il gesto di Benedetto XVI, come ogni atto di portata storico-universale, si situa in un tempo del tutto particolare: non appartiene infatti al contesto presente, neppure ora che si sta compiendo sotto i nostri occhi; non è confitto in nessuna vicenda che si sia già consumata e con cui si possano già fare i conti. Appartiene invece a quella dimensione affatto particolare che è il futuro anteriore: è solo quel che «sarà stato», quando sarà riguardato dal futuro al quale appartiene, e in cui getta, con un inaudito carico di inquietudini, la storia stessa della Chiesa di Roma.

Non è, questo, solo un modo per lavarsene le mani, e rimandare al futuro lavoro degli storici la comprensione delle cause (e degli effetti, importanti almeno quanto le cause, e così difficili da determinare ora). Al contrario: è invece il modo per dargli il significato più teso di una domanda, rivolta alla Chiesa dal cuore stesso della Chiesa. Il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty diceva che il mondo, il mondo tutto intero e ogni ente nel mondo, esiste allo stato interrogativo. Joseph Ratzinger ha portato lo stato interrogativo nella vita della Chiesa. Che il Papa, che il Vicario di Cristo lasci la sede petrina, non può non significare che va di nuovo domandato, con inaudita radicalità, che cosa significhi essere cristiani oggi. E, domanda non meno conturbante, che cosa significhi esserlo nella Chiesa e per la Chiesa. Se il Papa ha giudicato che le sue forze non fossero più sufficienti a portare il peso del magistero papale, ciò non vuol forse dire che ogni cristiano, e la Chiesa intera, deve nuovamente domandarsi come portare quel peso, che cosa significa la presenza della Chiesa nel mondo, essere pellegrini nella storia, essere non al passo coi tempi ma segno dei tempi?

In una simile domanda c’è tutto il senso insieme teologico ed esistenziale dell’essere cristiani: non c’è dunque nulla di straordinariamente moderno, come provano a dire scioccamente quanti intendono l’istituto delle dimissioni sul piede delle consuetudini giuridiche degli Stati contemporanei. Ma non c’è neppure nulla di tradizionale, se non altro per l’eccezionalità del caso. Il fatto è che tradizione e modernità, continuità e discontinuità sono convocate insieme dal gesto di Papa Benedetto XVI, e rimangono drammaticamente indecise, aperte tuttora alle possibilità della storia e, per i credenti, all’attesa fiduciosa e alla speranza.

(in versione ridotta, questo articolo è apparso su Il Mattino di oggi)

Perché serve una nuova razionalità europea

Immagine

L’Europa è un’invenzione. Il suo significato geografico non coincide con il suo significato politico, e quest’ultimo non coincide con nessuna delle istituzioni che attualmente ne disegnano la fisionomia. Per giunta in nessuna determinante storica, culturale, linguistica o economica l’Europa può trovare un fondamento univoco, inconcusso. Il fatto che oggi l’Europa ci sia – in maniera incompleta e sbilenca, come unione europea e, più limitatamente, come unione monetaria – non toglie che avrebbe potuto non esserci. Non basta neppure che Draghi dica da Francoforte che l’euro è una decisione irreversibile, per togliere all’Europa il suo carattere contingente. Tale carattere si trova infatti all’origine, nel suo progetto istitutivo. Altiero Spinelli la progettava a Ventotene, mentre ancora infuriava la guerra e di una pacifica cooperazione fra i paesi europei sembrava del tutto utopico parlare. Il che non vuol dire solo che l’Europa bisognava inventarsela, ma che essa avrebbe potuto vivere e può tuttora vivere solo mantenendo lo slancio di un’invenzione, trovando l’energia politica per investire sempre nuovamente di senso il futuro del continente. Il che non equivale a un fiacco idealismo, ma al contrario si traduce nel realismo di chi conosce lo statuto potenziale, non finito, di tutto ciò che è reale.

L’Europa è un’invenzione, e non lo è oggi meno di quanto lo fosse ieri. Ma dov’è, oggi, quella energia? All’indomani di un Consiglio europeo che si è chiuso, come già molte volte in passato, al ribasso, è lecito, anzi doveroso, porre la domanda. Non si tratta solo delle ristrettezze di bilancio e dell’insufficienza delle soluzioni che a livello comunitario vengono adottate per fronteggiare la crisi, dell’austerità e dei tagli, ma più profondamente dell’incapacità di avere nuovamente un disegno, di pensare l’Europa, un’Europa diversa, fuori dal suo attuale stato di necessità.

Ogni costruzione storico-politica non vive solo nel presente, ma sempre anche nel punto in cui incrocia ancora la sua origine: solo così può avere un futuro, solo da lì può attingere l’energia di cui ha bisogno. Il presente sono i dati drammatici della crisi, ma anche l’impasse in cui si trova la capacità di azione degli organismi europei. Cosa c’era però all’origine? L’origine è infatti ciò in cui si mantiene l’essenza di una cosa. E l’origine dello spirito europeo era ed è nella risposta alla guerra e agli egoismi nazionali. L’Europa non è, non è mai stata e non sarà mai una nazione. Ma è il posto vuoto che deve rimanere libero, la posizione che nessuna nazione può né deve occupare: questo è il suo limite, ma anche la sua ragion d’essere. Così fu all’indomani del conflitto mondiale, così è stato anche quando si è aperto un nuovo ciclo della costruzione europea, tra l’89 e il 92, tra il Rapporto Delors e il Trattato di Maastricht.

L’origine, però, non è mai pura: più cose vi confluiscono dentro. L’attuale assetto europeo dipende dalle decisioni che furono prese allora, in quel giro di anni, e che furono prese per tenere insieme il centro e la periferia, la Germania riunificata e il concerto europeo delle nazioni. Quelle decisioni non furono abbastanza lungimiranti: le difficoltà nella creazione di una moneta unica erano infatti ben chiare fin da allora, e anche la necessità di rafforzare le politiche di integrazione, di favorire la convergenza fra le economie, di prevedere trasferimenti di bilancio. Un’unione monetaria sovranazionale non può reggere a lungo con politiche fiscali nazionali. Qualcosa dunque fu fatto; ma molto altro non fu fatto. Ma né i parametri di Maastricht né i successivi articoli del Trattato di Lisbona condannano l’Unione all’inazione o alla paralisi, né la privano di strumenti per fronteggiare la crisi, e soprattutto reagire agli egoismi, ai populismi e ai nazionalismi risorgenti, recuperando la propria ratio fondativa.

Non sono insomma gli strumenti, a mancare, ma la ragione politica. Noi abbiamo bisogno, ha detto l’ex cancelliere Helmut Schmidt nel 2011 in un discorso davvero memorabile – denso di storia, gravido di futuro – di una nuova «razionalità europea». Razionale è infatti il superamento degli interessi particolari, anche se si situa lungo un crinale difficile. L’Unione europea, ragionava Schmidt con lucido realismo, non può diventare un vero Stato federale. Ma è altrettanto realistico dire che non può neppure retrocedere a mera Lega di Stati. Tra l’uno e l’altra non c’è, però, il nulla, bensì lo spazio dell’invenzione europea. Ai governanti europei non bisogna chiedere di meno; alle democrazie europee bisogna chiedere di più. Perché senza l’ambizione di disegnare ancora i tratti inediti di quello spazio mai concluso non c’è Europa, non c’è unione, e non c’è futuro.

L’Europa è un’invenzione. Il suo significato geografico non coincide con il suo significato politico, e quest’ultimo non coincide con nessuna delle istituzioni che attualmente ne disegnano la fisionomia. Per giunta in nessuna determinante storica, culturale, linguistica o economica l’Europa può trovare un fondamento univoco, inconcusso. Il fatto che oggi l’Europa ci sia – in maniera incompleta e sbilenca, come unione europea e, più limitatamente, come unione monetaria – non toglie che avrebbe potuto non esserci. Non basta neppure che Draghi dica da Francoforte che l’euro è una decisione irreversibile, per togliere all’Europa il suo carattere contingente. Tale carattere si trova infatti all’origine, nel suo progetto istitutivo. Altiero Spinelli la progettava a Ventotene, mentre ancora infuriava la guerra e di una pacifica cooperazione fra i paesi europei sembrava del tutto utopico parlare. Il che non vuol dire solo che l’Europa bisognava inventarsela, ma che essa avrebbe potuto vivere e può tuttora vivere solo mantenendo lo slancio di un’invenzione, trovando l’energia politica per investire sempre nuovamente di senso il futuro del continente. Il che non equivale a un fiacco idealismo, ma al contrario si traduce nel realismo di chi conosce lo statuto potenziale, non finito, di tutto ciò che è reale.

L’Europa è un’invenzione, e non lo è oggi meno di quanto lo fosse ieri. Ma dov’è, oggi, quella energia? All’indomani di un Consiglio europeo che si è chiuso, come già molte volte in passato, al ribasso, è lecito, anzi doveroso, porre la domanda. Non si tratta solo delle ristrettezze di bilancio e dell’insufficienza delle soluzioni che a livello comunitario vengono adottate per fronteggiare la crisi, dell’austerità e dei tagli, ma più profondamente dell’incapacità di avere nuovamente un disegno, di pensare l’Europa, un’Europa diversa, fuori dal suo attuale stato di necessità.

Ogni costruzione storico-politica non vive solo nel presente, ma sempre anche nel punto in cui incrocia ancora la sua origine: solo così può avere un futuro, solo da lì può attingere l’energia di cui ha bisogno. Il presente sono i dati drammatici della crisi, ma anche l’impasse in cui si trova la capacità di azione degli organismi europei. Cosa c’era però all’origine? L’origine è infatti ciò in cui si mantiene l’essenza di una cosa. E l’origine dello spirito europeo era ed è nella risposta alla guerra e agli egoismi nazionali. L’Europa non è, non è mai stata e non sarà mai una nazione. Ma è il posto vuoto che deve rimanere libero, la posizione che nessuna nazione può né deve occupare: questo è il suo limite, ma anche la sua ragion d’essere. Così fu all’indomani del conflitto mondiale, così è stato anche quando si è aperto un nuovo ciclo della costruzione europea, tra l’89 e il 92, tra il Rapporto Delors e il Trattato di Maastricht.

L’origine, però, non è mai pura: più cose vi confluiscono dentro. L’attuale assetto europeo dipende dalle decisioni che furono prese allora, in quel giro di anni, e che furono prese per tenere insieme il centro e la periferia, la Germania riunificata e il concerto europeo delle nazioni. Quelle decisioni non furono abbastanza lungimiranti: le difficoltà nella creazione di una moneta unica erano infatti ben chiare fin da allora, e anche la necessità di rafforzare le politiche di integrazione, di favorire la convergenza fra le economie, di prevedere trasferimenti di bilancio. Un’unione monetaria sovranazionale non può reggere a lungo con politiche fiscali nazionali. Qualcosa dunque fu fatto; ma molto altro non fu fatto. Ma né i parametri di Maastricht né i successivi articoli del Trattato di Lisbona condannano l’Unione all’inazione o alla paralisi, né la privano di strumenti per fronteggiare la crisi, e soprattutto reagire agli egoismi, ai populismi e ai nazionalismi risorgenti, recuperando la propria ratio fondativa.

Non sono insomma gli strumenti, a mancare, ma la ragione politica. Noi abbiamo bisogno, ha detto l’ex cancelliere Helmut Schmidt nel 2011 in un discorso davvero memorabile – denso di storia, gravido di futuro – di una nuova «razionalità europea». Razionale è infatti il superamento degli interessi particolari, anche se si situa lungo un crinale difficile. L’Unione europea, ragionava Schmidt con lucido realismo, non può diventare un vero Stato federale. Ma è altrettanto realistico dire che non può neppure retrocedere a mera Lega di Stati. Tra l’uno e l’altra non c’è, però, il nulla, bensì lo spazio dell’invenzione europea. Ai governanti europei non bisogna chiedere di meno; alle democrazie europee bisogna chiedere di più. Perché senza l’ambizione di disegnare ancora i tratti inediti di quello spazio mai concluso non c’è Europa, non c’è unione, e non c’è futuro.

(Il Messaggero)