Archivi del mese: aprile 2013

I conti con la realtà

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Con il governo Letta si inaugura indubbiamente una nuova fase politica nella storia del paese: quale però si chiuda è ancora presto per dirlo. Non c’è dubbio infatti che il governo sia nato per l’esigenza di fare i conti con una realtà diversa da come le forze politiche si erano preparati ad affrontarla, nell’ultimo scorcio della precedente legislatura. La campagna elettorale è stata infatti condotta – in particolare dal partito democratico –  all’insegna della fine della seconda Repubblica, della fine del ventennio berlusconiano (e dell’ultimo decennio che aveva visto il Cavaliere quasi ininterrottamente al governo), e da ultimo della fine del governo tecnico, e dei «compiti a casa» imposti dall’Unione europea.

A tutte queste «fini» doveva evidentemente seguire un nuovo inizio: un nuovo inizio sul piano delle riforme, per dare finalmente al paese un assetto istituzionale progettato in maniera coerente, e insieme una nuova legge elettorale e una legge sui partiti; un nuovo inizio sul piano politico-culturale, con l’obiettivo di ridefinire l’asse centrale e nazionale della politica italiana, dopo le distorsioni personalistiche (per non dir altro) comportate dal berlusconismo; un nuovo inizio, infine, sul piano delle linee di politica economica, non più fondate sulla ricetta unica dell’austerità, e in grado di rimettere al centro, in Italia e in Europa, i temi del lavoro, dello sviluppo e dell’occupazione.

Ebbene, il voto non ha assegnato al partito democratico la forza parlamentare necessaria per intestarsi un’azione politica e di governo cosiffatta. Riguardando la cosa in termini oggettivi (non rifratta cioè negli incerti comportamenti soggettivi dei suoi protagonisti), si può dire che i due mesi trascorsi dal 24 febbraio sono trascorsi appunto perché questo «dato» si trovasse ad essere anche «dimostrato» nei fatti. Dando però al partito democratico la più ampia rappresentanza in Parlamento, il voto ha comunque conferito al Pd l’obbligo di farsene interprete: non di disattenderlo o di rovesciarlo, ma di trovargli uno sbocco positivo, nei limiti dati. Il senso dei pressanti richiami del presidente della Repubblica stava tutto qui: nella necessaria assunzione di responsabilità richiesta a tutte le forze politiche, e anzitutto al Pd, in una situazione che, complice la crisi, non consentiva né consente fughe in avanti o passi all’indietro.

Per il Pd, tuttavia, fare i conti con la realtà non può significare mettere semplicemente da parte quei nuovi «inizi», in cerca di sbrigativi accomodamenti con l’esistente. Il realismo, si sa, è uno strano animale, e in suo nome si possono tenere le più lucide analisi politiche come anche consumare i più efferati delitti. Essere realisti può significare vedere giusto, ma anche vedere corto. Non basta dunque richiamarsi al dato di realtà per dare legittimazione politica all’ircocervo che vedrà oggi la nascita nei saloni del Quirinale. In verità, il vicesegretario del Pd ha mostrato di averne chiara contezza fin dall’accettazione dell’incarico: questo governo non poteva nascere a qualunque costo, ha detto Letta, e probabilmente dovrà aggiungere nel suo discorso d’insediamento che neppure durare esso potrà ad ogni costo. Trovando l’accordo su una compagine governativa con una sicura caratura politica – con dentro sia Franceschini che Alfano, per fare solo i due nomi politicamente più vistosi – i partiti hanno mostrato di comprendere che non è tenendosi a distanza dall’azione di governo che potranno ritrovare anche loro la necessaria legittimazione.

Perché in tutti quegli «inizi» che il governo dovrà provare a segnare ne è in gioco ancora un altro, forse il più importante: il ristabilirsi di un rapporto di fiducia e di riconoscimento non tanto tra le forze politiche, quanto fra le forze politiche e il paese. Ma un simile rapporto non lo si riconquista stando contenti al quia: se e finché tiene al suo profilo riformista e progressista, il partito democratico non può (più) permetterselo. Fare i conti con la realtà per cambiarla è infatti un conto, fare i conti con essa per accettarla supinamente in mancanza di meglio è un altro. E non c’è migliore augurio che si possa fare a Enrico Letta, al governo (e all’Italia) che quello di non sbagliare i conti: sarebbe un errore fatale.

L’Unità, 28 aprile 2013

Il lungo tormento dei post-Pci e la fine del sogno democrat

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«Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi, e con certe guise», così diceva Vico nella Scienza Nuova: se vuoi sapere qual è la natura di una cosa, guarda com’è nata. Ora, il partito democratico è stato fondato nell’ottobre del 2007, sotto il secondo e periclitante governo Prodi, di cui ha probabilmente accelerato la caduta. L’anno successivo, sotto la guida di Veltroni, si è presentato alle elezioni e le ha perse. Quest’anno si è invece presentato sotto la guida di Bersani, e le ha «non vinte». Tra l’uno e l’altro, è stato retto per meno di un anno anche da Dario Franceschini, nel 2009. È partito con il 33,1 di Veltroni, è arrivato con il 25,4 di Bersani. La sua storia è tutta qui, in queste poche righe. E non è detto che continuerà ancora.

Ma per descriverne la natura occorre guardare più indietro. È sempre Vico che insegna: «le origini delle cose tutte debbono per natura esser rozze», e voleva dire: spurie, apocrife e mescolate. Così è stato per il Pd. Dietro il partito democratico c’è stato infatti il tentativo di irrobustire la creatura politica che, negli anni Novanta, aveva consentito alla sinistra ex-comunista, già transitata attraverso il Pds e i Ds, di andare al governo: non da solo, ma insieme con la sinistra democristiana, che nel frattempo aveva dato vita prima al partito popolare, poi alla Margherita, con la confluenza di piccole componenti liberal-democratiche. Un «amalgama mal riuscito», disse una volta D’Alema, e alla luce di com’è andata, è difficile dargli torto.

È vero però che le culture politiche che avevano fatto la prima Repubblica dovevano comunque provare a rimescolarsi e innovarsi, dopo le tre profonde fratture che avevano terremotato il sistema politico italiano: la caduta del Muro, l’inchiesta Mani Pulite e l’uscita della lira dallo SME (è infatti dai tempi della rivoluzione francese che crisi finanziarie e crisi politiche vanno a braccetto). Il primo frutto del rimescolamento è stato l’Ulivo, nel ’96; il secondo, l’Unione, nel 2006; il terzo, il Pd. Il terzo doveva rappresentare il coronamento di un progetto politico lungo un decennio: rischia invece di esserne la fine. Perché non si sono mai veramente ricomposti due opposti progetti: quello di chi spingeva per accelerare la trasformazione delle culture politiche di origine, e quello di chi invece cercava di preservarne le caratteristiche distintive. Col Pd, ha prevalso il primo progetto, senza che però le tensioni fossero veramente risolte. La drammatica crisi di queste ore le ha di nuovo portate in superficie.

Se però si guarda dentro il fitto scambio di accuse, veleni e sospetti di queste ore, si trova qualcosa di più di un confronto tra ex-comunisti ed ex-democristiani. Si trovano due idee diverse di riforma della politica e della società. Il guaio è che anche queste faticano ad amalgamarsi. Una è nata negli anni Novanta, quando la sinistra europea cercava una «terza via» tra la socialdemocrazia del passato e la vulgata liberista del presente. Un libro di Anthony Giddens, consigliere di Tony Blair, dice forse più cose del suo stesso contenuto: «Oltre la destra e la sinistra». Il fatto è che, senza mai veramente imboccarla, il Pd ha cercato comunque di proseguire per questa via, anche quando nel resto d’Europa veniva abbandonata, o almeno fortemente riconsiderata. Non perché dovevano tornare con forza la nostalgia di una sinistra fortemente identitaria e refrattaria al cambiamento, ma perché nel fuoco della crisi le sue risposte sono apparse subalterne alla ricette monetariste su cui è stata costruita l’Europa dell’euro.

E siamo alle vicende degli ultimi mesi: la segreteria Bersani ha provato a sterzare e prendere un’altra via, ma lo ha fatto mentre nel frattempo il vento del «cambiamento» così speso evocato aveva incrinato seriamente gli altri elementi intorno a cui soltanto può costruirsi un partito, e cioè l’organizzazione e il gruppo dirigente. Finiti sotto accusa delle virulente campagne anti-casta, all’ombra delle quali è esploso il fenomeno Grillo, non c’era più una cultura politica condivisa che facesse da scudo alle campagna moralizzatrici (e spesso semplicemente denigratrici). E, purtroppo, nessun partito può sopravvivere quando i suoi stessi iscritti, militanti e simpatizzanti finiscono col non nutrire più né fiducia né stima per la propria memoria storica e per gli uomini che la rappresentano. Le lacrime di ieri di Bersani, a cui va l’onore delle armi, mostrano che il compito di ristabilire una «connessione sentimentale» coi propri elettori e con il paese è ormai affare di una nuova generazione. Con o senza il Pd.

Il Mattino e Il Messaggero, 21 aprile 2013

La lotta di classe, il ritorno

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E se tornasse la lotta di classe? Come se se ne fosse mai andata! Che essa costituisca il motore della storia è, com’è noto, la tesi del Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels: Londra, addì 21 febbraio 1848. Un bel po’ di anni fa, dunque. Ma la crisi ha spazzato via facili illusioni, soprattutto in Occidente, e termini e concetti che sembravano consegnati all’antiquariato delle idee tornano prepotentemente di attualità. La prima notizia è dunque questa: la political correctness ormai non viene sforacchiata solo sul terreno morale, o su quello linguistico, dove è sdoganato persino il turpiloquio, ma anche sul terreno economico e sociale (benché qui le resistenze siano molto maggiori, et pour cause).

Dopo l’agile libretto di Gallino su La lotta di classe dopo la lotta di classe, ecco allora l’ampia ricognizione di Domenico Losurdo, storico della filosofia e comunista non pentito: Lotta di classe. Una storia politica e filosofica. Losurdo intreccia problemi teorici ed analisi storica con grande rigore filologico, senza assecondare nessuna delle mode correnti, con l’obiettivo, in primo luogo, di respingere le letture economicistiche della dottrina marxiana, mostrandone in particolare gli intrecci profondi con le lotte di liberazione nazionale, e, in secondo luogo, di riportare la politica al suo grande formato: non come la volpe che sa molte cose, per dirla con Isaiah Berlin, ma come il riccio che ne sa una grande.

La lotta di classe, dunque. E il secolo appena trascorso, il cui bilancio è ancora da tracciare. Di esso, ha scritto Alain Badiou, possediamo infatti almeno tre versioni: il secolo sovietico, della grande epopea comunista; il secolo totalitario, che ha fatto esperienza dell’abisso del male; il secolo liberale, che ha visto infine trionfare la democrazia. Dopo l’89, quest’ultima descrizione si è di fatto imposta: non è dunque vero che siano finite le grandi narrazioni, come voleva Lyotard: semplicemente, una ha prevalso sulle altre, spacciando la propria vittoria per la fine della storia. Ebbene, è proprio quella che Losurdo infilza ripetutamente, complice l’attuale dissesto economico e finanziario, prendendosela non solo con Fukuyama (quello della fine della storia e del trionfo della democrazia liberale), ma anche con Ralf Dahrendorf o con Niall Ferguson – per fare solo un paio dei nomi del mainstream intellettuale dominante.

Se però leggessimo Losurdo al solo scopo di riesumare le battaglie ideologiche del secolo passato, non lo useremmo nel migliore dei modi. Ad esse è sì dedicata la parte centrale del libro, grazie alla quale siamo ripiombati negli sforzi titanici della Russia sovietica per dotarsi di un sistema industriale avanzato, oppure condotti lungo i passi che la Cina di Mao e di Deng Xiao Ping compì, per recuperare il terreno perduto nel confronto con l’Occidente, ma non si tratta del luogo di maggior frutto del libro. Losurdo mantiene infatti una sistematica subordinazione delle rivendicazioni democratiche rispetto ai conflitti di classe, che lo tiene troppo distante dal terreno effettivo dell’attuale battaglia politica. Così, mentre concede che arte, scienza o religione, benché storicamente condizionate, possono attingere un valore universale, non tributa lo stesso riconoscimento alla democrazia e ai diritti individuali, e francamente non si capisce perché.

Il libro riesce invece assai efficace quando smaschera le debolezze della sinistra di oggi. Che ha accantonato il tema del conflitto sociale, meravigliandosi poi di vedere le sue file ridursi proprio mentre più aspre si fanno nuovamente le diseguaglianze sociali ed economiche. È la sinistra beneducata che Losurdo prende di mira, quella che si è accasata presso la versione più esangue della teoria critica, fornita da Jürgen Habermas, guru della socialdemocrazia europea,  o che è rimasta affascinata dalle analisi del totalitarismo di Hannah Arendt, altro nume tutelare del pensiero politico contemporaneo. Ma anche l’altra sinistra, quella che oggi chiamiamo radicale o antagonista, non viene risparmiata. Anche Toni Negri e Slavoj Zizek vengono quasi ridicolizzati, con la loro fissa che lo Stato nazionale sarebbe un residuo del passato.

Il dilagare del populismo, al di là dell’uso corrivo della parola, trova così una sua ragione non sempre confessata nello smottamento del terreno ideologico della sinistra (ogni allusione al tentativo di mettere su un governo coi Cinque Stelle è, qui, voluta).

C’è infine, nel libro, un’altra notizia. Ed è che se anche non si vogliono riesumare le tragedie del XX secolo, resta che le sue diverse declinazioni sono ben difficilmente districabili. Losurdo lo dice subito: pensatela come volete sulla lotta di classe, ma senza la spinta dei movimenti operai il Welfare State in Europa non l’avremmo mai avuto, il liberalismo non si sarebbe spinto a tanto. E oggi che esso è in pericolo, c’è solo il rammarico che l’attuale quadro europeo sia sostanzialmente lasciato in ombra da Losurdo, mentre è lì che ci sarebbe forse bisogno di attivare nuovamente i motori di spinta.

Il Messaggero, 22 aprile 2013

Il naufragio di una tattica senza visione

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Cade prima Franco Marini, cade poi Romano Prodi, e nella serata di ieri, in una drammatica successione, prima si dimette Rosi Bindi, presidente del Pd, poi Bersani annuncia le sue dimissioni dopo il voto sul Colle. Può darsi che il partito democratico sopravviverà comunque ad una sequenza così disastrosa di avvenimenti, anche se la crisi politica non permette di tirare il fiato: tutti i nodi politici apertisi dopo il voto del 24 febbraio sono ancora sul tappeto, e col passare delle settimane e dei giorni continuano a stringersi sempre più. Forse Renzi sarà chiamato a reciderli, o forse dopo l’addio di Bersani si troverà una nuova strada anche per il governo. Ma il bilancio che in queste ore il Pd è chiamato a trarre reca solo voci al passivo.

Una cosa è certa, sono tutte sciocchezze quelle che ci siamo raccontate in questi giorni, sulla casta, o sui vecchi e sui giovani, o sul profilo nazionale di un candidato (Marini) e internazionale dell’altro (Prodi). La verità è semplice, e sta dentro il corpo gravemente malato del Pd. E ci sono voluti tre semplici passi nell’abisso per metterla a giorno.

Il primo: dal giorno dopo le elezioni del 24 febbraio il Pd, il partito che a detta del suo segretario aveva eufemisticamente «non vinto», versa in realtà in un profondo stato confusionale.

Il secondo: come ha spiegato il costituzionalista Stefano Ceccanti, il metodo di elezione indiretta del Presidente della Repubblica funziona bene quando la figura del Presidente mantiene un carattere notarile. Ebbene, non solo in Italia – per ragioni diverse – non è così da più di un settennato, ma il combinato disposto dell’esito del voto e delle coincidenze temporali ha voluto che il prossimo Presidente si troverà tra le mani le chiavi del futuro governo (e le sorti della legislatura). In una situazione simile, un partito non lo tieni, e tanto meno lo tieni quanto più debole è il tuo profilo politico (vedi il primo passo).

Terzo e decisivo punto: dopo aver sbagliato la campagna elettorale, il Pd di Bersani ha scelto di fare da solo sulle presidenze delle Camere, poi di provare a fare coi Cinque Stelle il governo, infine di eleggere il Presidente della Repubblica con Berlusconi. Ora, è veramente difficile attribuire ad un simile percorso una qualunque parvenza di linearità. Non dubitiamo: Bersani avrà compiuto tutte le sue scelte avendo sempre di mira l’interesse generale del paese e non quello suo personale o di partito, ma è veramente complicato comporre una strategia coerente, non dirò vincente, con un simile zig-zag. Se Bersani ha creduto davvero che nell’interesse del paese bisognava dialogare col Pdl doveva pensarci prima, anzi subito: all’indomani delle elezioni. Invece ha posto lui stesso le condizioni perché l’intesa col Popolo della libertà su un nome, quello di Marini, non certo portato dal vento del «cambiamento» testardamente invocato, diventasse incomprensibile alla sua base e ai suoi stessi parlamentari. Il ripiegamento, o meglio il capovolgimento di linea su Prodi è arrivato tardi, dopo che il vaso di Pandora del Pd era stato già scoperchiato.

Ed è stato sbagliato giustificarsi invocando la distinzione dei ruoli: non perché non sia vero che un conto è il Presidente della Repubblica, un altro il Presidente del Consiglio, ma perché, lo abbia voluto o no Bersani, il confronto politico, il clima generale del paese e infine anche le date ravvicinatissime hanno portato inevitabilmente una figura a ridosso dell’altra. Non vedere che la torsione presidenzialistica del sistema si stava accentuando, non certo allentando, è stato un grave errore politico (vedi il secondo passo).

In questo scenario, si sono certo infilate anche le tensioni interne, e forse pure qualche ambizione personale. Infine, linee politiche divergenti dentro il partito di Bersani hanno scelto l’elezione presidenziale per manifestarsi con forza. Quelle tensioni, trattenute nella lunga fase delle consultazioni post-elettorali, si sono contratte fino a esplodere nell’incalzante sequenza dei turni di votazioni. Con i suoi errori, Bersani non è riuscito a governarle: anziché mettere ordine, ha accentuato il disordine. Il guaio è che ora la situazione si ripercuote anche all’esterno del Pd: come infatti i voti del Pd possono essere portati in dote su questo o quel candidato, quale che sia il prossimo nome sul quale puntare? Il Pdl chiede adesso di avanzare una rosa: a questo punto, è una richiesta giustificata, in attesa di sapere se vi sia chi, nel Pd, col segretario sul punto di lasciare, possa scegliere un solo petalo di un qualunque fiore.

Il Mattino, 20 febbraio 2013

La politica non comunica più

(Questa intervista è apparsa oggi su Il Mattino, ed. Avellino):

Antonello Plati

Docente di filosofia teoretica all’università di Cassino, editorialista per Left Wing, Il Messagero, Il Mattino e L’Unità, membro della Fondazione Italianieuropei, Massimo Adinolfi, – che si «occupa di ciò di cui si occupava Platone, ma con minore fortuna» dice lui con eccesso di modestia – sarà oggi in città nell’ambito del «Caffè filosofico» al Godot Art Bistrot, in via Mazas ad Avellino. L’appuntamento è alle 17 e 30: Adinolfi rifletterà attorno al tema del linguaggio.

Professore, dietro a ogni parola c’è un pensiero: questo sembra essere il presupposto implicito del linguaggio. Per esplicitarlo è necessario chiedersi: qual è il nesso tra il linguaggio e il pensiero? E se il linguaggio dà forma al pensiero? All’inizio del secolo scorso von Hofmannsthal, nella sua lettera immaginaria inviata da Lord Chandos a Francis Bacon, sembra mettere in crisi proprio questa relazione, narrando dell’impossibilità di dare una espressione linguistica alle proprie idee.

Io davvero non so se dietro ogni parola c’è un pensiero: di sicuro c’è intorno. Wittgenstein diceva che in filosofia non c’è idea più pericolosa di quella secondo cui i pensieri sono nella testa, e io direi così: i pensieri stanno in mezzo alle cose, e di lì che ci vengono, è da lì che li peschiamo. E le parole sono la carta moschicida a cui si attaccano. Non l’unica però.

Quindi è possibile un pensiero indipendente dal linguaggio?

Certo: c’è un pensiero indipendente dal linguaggio, ma non c’è un pensiero indipendente dal mondo.

Ha citato Wittgenstein, oltre che dal filosofo austriaco dove dovrebbe attingere chi volesse riflettere intorno alle numerose e complesse questioni legate al linguaggio?

Il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche è una miniera da cui non si finisce di attingere. Ma per la filosofia tutta la sua storia lo è: Platone non meno di Derrida, Hegel non più di Aristotele. A condizione, beninteso, di non limitarsi a riprodurne stancamente lo svolgimento storico, ma mescolando le carte e provando a continuarne i pensieri.

Ci può essere linguaggio, significato, ove ci sia una legittimità della contraddizione?

Direi così: la filosofia si preoccupa anzitutto di scovare le contraddizioni. È infatti una forma del «logon didonai», del dare e rendere ragione, il che impone in genere un trattamento severo nei confronti della contraddizione: la sua eliminazione. Dopodiché le tocca di fare anche un’altra cosa: sondare i limiti del linguaggio, provare a perimetrare la stessa logica, dove la contraddizione non può attecchire, mentre forse può crescere altrove.

Il linguaggio è anche lo strumento al servizio della menzogna e dello smarrimento del significato, qualcosa che «richiede manutenzione», come suggerisce Goliarda Sapienza ne L’arte della gioia. È in particolare il linguaggio politico, o meglio dei politici, a essere al servizio della menzogna?

Sì, ha ragione Nanni Moretti: chi parla male pensa male. La manutenzione ci vuole per l’auto, figuriamoci per le parole. Però non direi che il linguaggio della politica è il linguaggio della menzogna, non più di quanto lo sia in generale il linguaggio umano, che si distingue da quello animale proprio per la capacità di dire il falso. Dire il falso presuppone peraltro un impegno (sia pure tradito) con la verità. Se poi lei intende che oggi il linguaggio della politica è usurato e non parla più al paese, debbo darle ragione: in questo campo la manutenzione è più che mai necessaria. Anche se non credo la si debba fare urlando e insultando, bensì pensando, e portando i pensieri nelle cose che si fanno.

Nella nostra città il Partito Democratico vive tormenti anche peggiori di quelli di cui Bersani sta facendo esperienza in Parlamento. La via d’uscita è da ri-cercare nella filosofia o magari nei filosofi?

Assolutamente no. Mi spiace per Platone, ma il governo dei filosofi non è una buona idea, e sono felice che, tra le tante cose su cui sta riflettendo il Presidente Napolitano, questa non ci sia. Che la politica, non solo il Pd, abbia però perduto una minima infrastruttura intellettuale è vero ed è per me motivo di preoccupazione.