Con il governo Letta si inaugura indubbiamente una nuova fase politica nella storia del paese: quale però si chiuda è ancora presto per dirlo. Non c’è dubbio infatti che il governo sia nato per l’esigenza di fare i conti con una realtà diversa da come le forze politiche si erano preparati ad affrontarla, nell’ultimo scorcio della precedente legislatura. La campagna elettorale è stata infatti condotta – in particolare dal partito democratico – all’insegna della fine della seconda Repubblica, della fine del ventennio berlusconiano (e dell’ultimo decennio che aveva visto il Cavaliere quasi ininterrottamente al governo), e da ultimo della fine del governo tecnico, e dei «compiti a casa» imposti dall’Unione europea.
A tutte queste «fini» doveva evidentemente seguire un nuovo inizio: un nuovo inizio sul piano delle riforme, per dare finalmente al paese un assetto istituzionale progettato in maniera coerente, e insieme una nuova legge elettorale e una legge sui partiti; un nuovo inizio sul piano politico-culturale, con l’obiettivo di ridefinire l’asse centrale e nazionale della politica italiana, dopo le distorsioni personalistiche (per non dir altro) comportate dal berlusconismo; un nuovo inizio, infine, sul piano delle linee di politica economica, non più fondate sulla ricetta unica dell’austerità, e in grado di rimettere al centro, in Italia e in Europa, i temi del lavoro, dello sviluppo e dell’occupazione.
Ebbene, il voto non ha assegnato al partito democratico la forza parlamentare necessaria per intestarsi un’azione politica e di governo cosiffatta. Riguardando la cosa in termini oggettivi (non rifratta cioè negli incerti comportamenti soggettivi dei suoi protagonisti), si può dire che i due mesi trascorsi dal 24 febbraio sono trascorsi appunto perché questo «dato» si trovasse ad essere anche «dimostrato» nei fatti. Dando però al partito democratico la più ampia rappresentanza in Parlamento, il voto ha comunque conferito al Pd l’obbligo di farsene interprete: non di disattenderlo o di rovesciarlo, ma di trovargli uno sbocco positivo, nei limiti dati. Il senso dei pressanti richiami del presidente della Repubblica stava tutto qui: nella necessaria assunzione di responsabilità richiesta a tutte le forze politiche, e anzitutto al Pd, in una situazione che, complice la crisi, non consentiva né consente fughe in avanti o passi all’indietro.
Per il Pd, tuttavia, fare i conti con la realtà non può significare mettere semplicemente da parte quei nuovi «inizi», in cerca di sbrigativi accomodamenti con l’esistente. Il realismo, si sa, è uno strano animale, e in suo nome si possono tenere le più lucide analisi politiche come anche consumare i più efferati delitti. Essere realisti può significare vedere giusto, ma anche vedere corto. Non basta dunque richiamarsi al dato di realtà per dare legittimazione politica all’ircocervo che vedrà oggi la nascita nei saloni del Quirinale. In verità, il vicesegretario del Pd ha mostrato di averne chiara contezza fin dall’accettazione dell’incarico: questo governo non poteva nascere a qualunque costo, ha detto Letta, e probabilmente dovrà aggiungere nel suo discorso d’insediamento che neppure durare esso potrà ad ogni costo. Trovando l’accordo su una compagine governativa con una sicura caratura politica – con dentro sia Franceschini che Alfano, per fare solo i due nomi politicamente più vistosi – i partiti hanno mostrato di comprendere che non è tenendosi a distanza dall’azione di governo che potranno ritrovare anche loro la necessaria legittimazione.
Perché in tutti quegli «inizi» che il governo dovrà provare a segnare ne è in gioco ancora un altro, forse il più importante: il ristabilirsi di un rapporto di fiducia e di riconoscimento non tanto tra le forze politiche, quanto fra le forze politiche e il paese. Ma un simile rapporto non lo si riconquista stando contenti al quia: se e finché tiene al suo profilo riformista e progressista, il partito democratico non può (più) permetterselo. Fare i conti con la realtà per cambiarla è infatti un conto, fare i conti con essa per accettarla supinamente in mancanza di meglio è un altro. E non c’è migliore augurio che si possa fare a Enrico Letta, al governo (e all’Italia) che quello di non sbagliare i conti: sarebbe un errore fatale.
L’Unità, 28 aprile 2013