Cade prima Franco Marini, cade poi Romano Prodi, e nella serata di ieri, in una drammatica successione, prima si dimette Rosi Bindi, presidente del Pd, poi Bersani annuncia le sue dimissioni dopo il voto sul Colle. Può darsi che il partito democratico sopravviverà comunque ad una sequenza così disastrosa di avvenimenti, anche se la crisi politica non permette di tirare il fiato: tutti i nodi politici apertisi dopo il voto del 24 febbraio sono ancora sul tappeto, e col passare delle settimane e dei giorni continuano a stringersi sempre più. Forse Renzi sarà chiamato a reciderli, o forse dopo l’addio di Bersani si troverà una nuova strada anche per il governo. Ma il bilancio che in queste ore il Pd è chiamato a trarre reca solo voci al passivo.
Una cosa è certa, sono tutte sciocchezze quelle che ci siamo raccontate in questi giorni, sulla casta, o sui vecchi e sui giovani, o sul profilo nazionale di un candidato (Marini) e internazionale dell’altro (Prodi). La verità è semplice, e sta dentro il corpo gravemente malato del Pd. E ci sono voluti tre semplici passi nell’abisso per metterla a giorno.
Il primo: dal giorno dopo le elezioni del 24 febbraio il Pd, il partito che a detta del suo segretario aveva eufemisticamente «non vinto», versa in realtà in un profondo stato confusionale.
Il secondo: come ha spiegato il costituzionalista Stefano Ceccanti, il metodo di elezione indiretta del Presidente della Repubblica funziona bene quando la figura del Presidente mantiene un carattere notarile. Ebbene, non solo in Italia – per ragioni diverse – non è così da più di un settennato, ma il combinato disposto dell’esito del voto e delle coincidenze temporali ha voluto che il prossimo Presidente si troverà tra le mani le chiavi del futuro governo (e le sorti della legislatura). In una situazione simile, un partito non lo tieni, e tanto meno lo tieni quanto più debole è il tuo profilo politico (vedi il primo passo).
Terzo e decisivo punto: dopo aver sbagliato la campagna elettorale, il Pd di Bersani ha scelto di fare da solo sulle presidenze delle Camere, poi di provare a fare coi Cinque Stelle il governo, infine di eleggere il Presidente della Repubblica con Berlusconi. Ora, è veramente difficile attribuire ad un simile percorso una qualunque parvenza di linearità. Non dubitiamo: Bersani avrà compiuto tutte le sue scelte avendo sempre di mira l’interesse generale del paese e non quello suo personale o di partito, ma è veramente complicato comporre una strategia coerente, non dirò vincente, con un simile zig-zag. Se Bersani ha creduto davvero che nell’interesse del paese bisognava dialogare col Pdl doveva pensarci prima, anzi subito: all’indomani delle elezioni. Invece ha posto lui stesso le condizioni perché l’intesa col Popolo della libertà su un nome, quello di Marini, non certo portato dal vento del «cambiamento» testardamente invocato, diventasse incomprensibile alla sua base e ai suoi stessi parlamentari. Il ripiegamento, o meglio il capovolgimento di linea su Prodi è arrivato tardi, dopo che il vaso di Pandora del Pd era stato già scoperchiato.
Ed è stato sbagliato giustificarsi invocando la distinzione dei ruoli: non perché non sia vero che un conto è il Presidente della Repubblica, un altro il Presidente del Consiglio, ma perché, lo abbia voluto o no Bersani, il confronto politico, il clima generale del paese e infine anche le date ravvicinatissime hanno portato inevitabilmente una figura a ridosso dell’altra. Non vedere che la torsione presidenzialistica del sistema si stava accentuando, non certo allentando, è stato un grave errore politico (vedi il secondo passo).
In questo scenario, si sono certo infilate anche le tensioni interne, e forse pure qualche ambizione personale. Infine, linee politiche divergenti dentro il partito di Bersani hanno scelto l’elezione presidenziale per manifestarsi con forza. Quelle tensioni, trattenute nella lunga fase delle consultazioni post-elettorali, si sono contratte fino a esplodere nell’incalzante sequenza dei turni di votazioni. Con i suoi errori, Bersani non è riuscito a governarle: anziché mettere ordine, ha accentuato il disordine. Il guaio è che ora la situazione si ripercuote anche all’esterno del Pd: come infatti i voti del Pd possono essere portati in dote su questo o quel candidato, quale che sia il prossimo nome sul quale puntare? Il Pdl chiede adesso di avanzare una rosa: a questo punto, è una richiesta giustificata, in attesa di sapere se vi sia chi, nel Pd, col segretario sul punto di lasciare, possa scegliere un solo petalo di un qualunque fiore.
Il Mattino, 20 febbraio 2013