Archivi del mese: Maggio 2013

I diktat del comico e il silenzio dei Cinque Stelle

E così Beppe Grillo si è accorto che Stefano Rodotà ha ottant’anni. Nientemeno! Al tempo delle favolose quirinarie, quando il popolo della Rete (o per meglio dire una sua molto limitata sottosezione, visti i numeri) lo aveva scelto, dopo Milena Gabanelli e Gino Strada, come candidato del Movimento 5 Stelle, le ottanta primavere del giurista romano erano passate quasi inosservate. Indubbiamente Rodotà porta bene i suoi molti anni.  Così la Rete l’aveva «miracolato», come si esprime oggi Grillo, l’autore/attore di tutti i miracoli del Movimento. Era il profilo di giurista democratico, era la battaglia per il referendum sull’acqua, era la sensibilità civile e l’attenzione al tema dei diritti, era l’intransigenza morale  – erano tutte queste cose a contare allora, in quel tempo lontanissimo (lo scorso aprile) in cui i parlamentari grillini lo avevano volentieri adottato, chiedendosi stupiti come fosse possibile che il Pd, invece, non volesse votarlo. Dalle parti dei democratici nessuno rispose sprezzantemente che Rodotà altro non era che un «ottuagenario miracolato». Ci voleva Grillo, perché si usasse un simile tono. E ci voleva soprattutto l’intervista rilasciata da Rodotà al Corriere della sera ieri, perché il comico genovese mostrasse ancora una volta di che pasta sia fatta la dialettica politica e la discussione pubblica in seno al Movimento (o semplicemente sul suo blog): di colpo un illustre giurista, degnissimo candidato alla Presidenza della Repubblica, è divenuto il vecchietto fortunato che ha trovato per terra il biglietto vincente alla lotteria delle primarie.

I parlamentari grillini lo avevano adottato, ho scritto. E ho scritto male, perché i cittadini deputati del movimento 5 stelle si offendono se li si chiama «grillini». Loro non sono «grillini», perché hanno tale e tanta autonomia di pensiero e di azione, che non subiscono i diktat del capo, che ignorano le scomuniche che piovono sul blog, che discutono la linea e quando occorre mettono Grillo in minoranza. E, se credono, si rifiutano persino di mostrare gli scontrini agli occhiuti capigruppo. Perciò ora, dando mostra di feroce spirito critico e completa indipendenza di giudizio, diranno per esempio che al tempo delle votazioni Rodotà non aveva compiuto ancora ottant’anni, o che non si usano certe espressioni proprio nel giorno del suo compleanno, che non è affatto bello. Oppure che loro non credono per nulla ai miracoli. Quanto però al fatto di dire che Grillo sbaglia, e sbaglia gravemente, questo è proprio quello che nella turpe intervista ha detto Rodotà, e che dalle parti del movimento iperdemocratico di Grillo nessuno osa dire.

Rodotà invece ha dichiarato, con modi, peraltro, assolutamente garbati, che Grillo sbaglia quando dà la colpa agli elettori per la sconfitta alle amministrative, o quando sostiene addirittura che non è vero che il Movimento ha perso, hanno perso tutti gli altri e lui solo ha vinto. E sbaglia quando non comprende la differenza fra la Rete e il lavoro parlamentare, o quando dice ai deputati che non tocca elaborare strategie, bensì – si suppone – dare semplicemente esecuzione alle direttive del leader. Sbaglia pure quando nega loro l’esercizio della funzione parlamentare senza vincolo di mandato – come dice invece la Costituzione -, o quando rifiuta il confronto con le altre forze politiche. In effetti non c’è male, come sequenza di errori.

Ora. però, come può un movimento che si fonda esclusivamente sul verbo di Grillo, che espelle chi osa presentarsi davanti alle telecamere (ma al contempo si lamenta per la mancanza di attenzione da parte dei media tradizionali: è il caso del candidato romano del Cinque Stelle), o che manda mail per stanare la spia che si annida in seno al gruppo (è il caso, a quanto pare, della «portavoce» Lombardi), come può un movimento che offre questi modelli di comportamenti politici, sopportare l’intervista puntuta di un agguerrito ottuagenario? Semplicemente non può. Può invece deridere, disprezzare, insultare, rinnegare. E tutto questo può fare, come Grillo fa, in nome della democrazia diretta e della partecipazione (hai visto quanti sono i commenti sul blog?), che però si rovescia sistematicamente nel suo opposto: nella voce unica e solitaria del Capo, che nessuno può permettersi di contraddire, nella negazione di ogni accenno di critica, nella derisione come modalità di comunicazione quasi esclusiva, nel controllo totalitario esercitato su tutte le espressioni del movimento, a cominciare dal marchio del movimento per finire al mitico scontrino.

Ma chissà: forse, dopo questo ennesimo, sgangherato exploit, qualcuno comincerà a rendersi conto, tra i Cinque Stelle, che un insulto, anche reso in streaming, resta pur sempre un insulto.

Basta offese. Per una volte ha ragione Brunetta

Ha ragione Brunetta: chiudiamola qua. E però diciamo anche le ragioni che in generale, non solo nel caso di Renato Brunetta, rendono così difficile quell’elementare misura di civiltà che consiste nel non deridere l’avversario per i suoi difetti fisici (veri o presunti), nel non disprezzarlo o aggredirlo per il colore della pelle, per l’orientamento sessuale o per qualunque altra forma di inaccettabile discriminazione. Brunetta ha ragione: quel genere di battute proprio non lo si sopporta più.

Ma poi ci sono quelli che si scatenano contro il fariseismo del «politically correct», che insorgono contro i conformismi e si fan beffe dei perbenismi. Costoro ti fanno notare, con aria di superiorità intellettuale, che però sia nella vita quotidiana che nelle supreme manifestazioni dello spirito umano – negli scherzi tra amici come nei libri, quando si raccontano barzellette e la si butta sul comico, proprio come a teatro e in genere nell’arte  – dappertutto questo genere di scorrettezze abbondano. Perché allora la politica dovrebbe osservare un garbo ipocrita? Nietzsche (in verità non uno stinco di santo) diceva che a togliere la gobba al gobbo gli si toglie lo spirito. E così – si dice – se togliessimo al linguaggio ciò che lo rende vivo e mordace, pungente e «parlante», lo sterilizzeremmo, lo neutralizzeremmo, rendendolo incapace di esprimere ciò che la politica è: passione, sangue, lotta. Un linguaggio bene educato, composto come certe comunicazioni sociali della presidenza del consiglio che vanno in tv, un linguaggio così è, insomma, un linguaggio devitalizzato, morto.

E invece non sta scritto da nessuna parte che in politica si debba parlare come al bar sport, o che ci si possa e debba concedere ogni e qualunque licenza. Non è sempre stato così, e non è necessario che sia così. Non è bene, soprattutto, se si frequenta la politica come quella zona dell’umano in cui vanno temperati, non aizzati gli eccessi (sublimi o triviali che siano) del linguaggio come della della vita. Eppure non pochi politici su piazza alimentano l’equivoco, per cui senza un insulto, senza toni aggressivi, senza gridare o denigrare, senza usare espressioni violente o sguaiate, non si è abbastanza autentici, abbastanza vicini alla «gente». Perciò quello urla, quell’altro deride, un altro ancora manda a quel paese. Al dibattito delle idee resta ben poco, osserva Brunetta, e ha ragione: può star sicuro che lo prenderemo in parola. (E, per cominciare, nell’intervista al Corriere rilancia l’idea di Berlusconi senatore a vita. Ecco una bella idea criticabile, anzi criticabilissima).

L’Unità 27 maggio 2013

Generazione web e ferocia arcaica

Morire a sedici anni. Uccidere a diciassette. Uccidere accoltellando la propria ragazza, cospargendola di benzina mentre, ancora viva, grida di non farlo. Darle fuoco. Fuggire. Ci sono cose – terribili come il delitto di Corigliano Calabro – che non si ha nessuna voglia non dirò di spiegare, ma neppure di capire, perché per capirle bisogna prestare loro ragioni, ricercare cause, individuare ciò da cui abbiano potuto avere origine; fornire, forse, persino dei motivi. Ma una riflessione è necessaria, comunque: non per attenuare lo scandalo del male, ma per sottrarsi al suo volto meduseo. Rimanere per sempre immobili accanto al proprio insensato dolore è permettere all’ingiustizia di trionfare anche oltre il male che ha recato, e inchiodare ad esso non solo il colpevole, ma anche le vittime.

Per quel che è accaduto ogni parola sembra di troppo. Eppure, non vi sono che le parole per elaborare quel che è accaduto.

Ora, è accaduto che una ragazza di sedici anni abbia detto no, e che per questo sia morta. È accaduto che un ragazzo di diciassette anni abbia sentito dalla voce di una ragazza un rifiuto, e che abbia ucciso per non volerlo più sentire, per non poterlo più tollerare. Ma perché un ragazzo, un uomo giudica a tal punto inaccettabile l’essere respinto, da armare la propria mano nel più brutale, nel più atroce dei modi? Forse perché non immagina più che tra il segno e il suo referente, tra il desiderio e l’oggetto del desiderio, gli uomini, per vivere come uomini, abbiano messo una distanza, una differenza, qualcosa che ritarda e differisce, e che perciò scava nell’uomo una costitutiva mancanza. Tra il cibo e la bocca gli uomini hanno messo la forchetta, tra i corpi hanno messo gli abiti, e ai pensieri gli uomini arrivano solo attraverso il lungo tirocinio delle parole (e infine, per far tacere la violenza si sono inventati – nello spazio comune della politica – la tanto bistratta rappresentanza parlamentare). C’è dunque un intervallo decisivo tra lo stimolo e la risposta, l’impulso e la sua soddisfazione, che apre la vita umana alla scoperta dell’oggetto, alle peripezie della libertà, che accende l’immaginazione e lascia che si sollevi l’istanza della parola. L’oggetto non è tale, se non ha la libertà di stare per sé, di contro all’uomo, ostinato nella sua indipendenza. La libertà non ha senso, se non si offre in uno con la «possibilità di non», per cui quel che capita potrebbe non capitare, e quel che non è capitato potrebbe un’altra volta capitare. E la parola non ha senso se non perché, cadendo nello spazio dell’interpretazione, si offre alla possibilità di essere intesa, ma anche fraintesa. Accolta ma anche ricusata. Ogni volta è il «no» l’ombra che permette al «sì» di profilarsi e valere. Ed è l’impotenza, il senso di frustrazione per l’impossibilità di cancellare quell’ombra, di eliminare quel «no» – di pazientare nell’attesa, o semplicemente di prendere altre strade – a indurre un uomo, a indurre un ragazzo, un diciassettenne, a compiere quello che in psicanalisi si chiama passaggio all’atto. Senza più possibilità di revoca, senza più mediazione simbolica, senza più uno schermo su cui la spinta compulsiva si infranga e si sublimi.

Così, mentre sembra che ad ogni passo, ad ogni mirabolante invenzione tecnologica, ad ogni inedita pagina di cronaca una nuova, mai vista prima «mutazione antropologica» ci mette dinanzi nuove figure dell’umano, la crosta della civilizzazione si rompe, e sotto la sua superficie l’uomo scopre di abitare ancora scene arcaiche, che non appartengono per nulla al passato per il solo fatto che sono state confinate nel suo inconfessabile sottosuolo. A volte tocca ancora di scendere in quel sottosuolo, in quello strato di natura quasi ferina in cui la cometa della civiltà, mentre disegna il suo arco nel cielo, rimane con la sua lunga coda ancora invischiata. In realtà, nemmeno questo è vero: è purtroppo un’illusione anche il credere che dalla parte della storia stia tutto il bene (soltanto) possibile, per allontanarsi dalla natura, in cui risiederebbe tutto il male radicale, necessario e ineliminabile. E tuttavia, anche se non è vero, anche se non solo il materiale di costruzione, ma le stesse costruzioni di cui è fatta la storia umana grondano sangue e non offrono una protezione sicura – non a Corigliano, ma neppure in una qualunque altra città del mondo – , non c’è altra maniera di guardare a quel che è accaduto, se non cercare sempre di nuovo, a tentoni, con pazienza e fatica, i volti dinanzi a cui le mani, vinte, si fermano, e le parole innanzi a cui un coltello viene infine lasciato cadere, e un corpo non viene lasciato più gridare inascoltato tra le fiamme.

Il Mattino  27 maggio 2013

Le parole del Papa

“Il Pontefice riconosce che nel mondo digitale si può discernere una «porta di fede»”. Così scriveva la Civiltà Cattolica, in febbraio. Poi è stato eletto papa Francesco, il 13 marzo, alle 19.06, e non è che, allo scoccare di quell’ora, quella porta si sia improvvisamente chiusa. Tutt’altro: la Chiesa non rinuncia affatto a cercare in rete nuovi spazi di evangelizzazione, ma papa Francesco ha deciso di aprire qualche porta in più nel mondo reale, perché “quando diventa chiusa una Chiesa si ammala, come una stanza che rimane chiusa e dove l’aria è viziata”. Così ha detto ieri il Pontefice, parlando a braccio, con uno stile diretto e semplice che gli ha guadagnato la simpatia di credenti e non credenti fin dal giorno della sua elezione. Fin da quando ha chiesto, affacciandosi per la prima volta dal balcone di san Pietro di pregare per lui, e gli uni per gli altri; fin da quando ha salutato la folla riunita per l’occasione con un cordiale “buonasera!”, in una maniera colloquiale che smorzava la solennità del momento. Il Papa “preso quasi dalla fine del mondo” sembra avere i piedi ben piantati in questo mondo.

Il tono minore non impedisce, peraltro, di dire cose taglienti, per nulla banali. Non è affatto scontata la denuncia, fatta ieri dal Papa, che allarma di più il crollo di una torre che non la morte dell’operaio che costruisce la torre, né illustrare l’esempio in questo modo: “se cadono gli investimenti, le banche, è una tragedia; se invece le famiglie stanno male, allora questo non fa niente”.

Non si tratta però soltanto di sottolineare un rinnovato contenuto sociale e morale delle parole di questo Papa, molto lontane dalla robustezza (o pesantezza?) teologica di papa Benedetto XVI: mentre Ratzinger sembrava avere a cuore il destino ultimo della Chiesa e dell’Occidente e dell’uomo in un’epoca di mutamenti epocali, Jorge Mario Bergoglio sembra pensare che la Chiesa può salvare se stessa solo giorno dopo giorno, guardando sì le cose ultime ma senza mai dimenticare le penultime, nell’attualità di una presenza reale, viva, partecipe, chiesa “povera tra i poveri”, a fianco dell’operaio che costruisce la torre o delle famiglie che stanno male: per le grandi questioni antropologiche, per le definizioni in punta di dottrina o per le dichiarazioni teologiche verrà il tempo, e verranno le esegesi, le disquisizioni, le proposizioni. Ma, parlando a braccio, Bergoglio non ha evidentemente modo (o forse voglia) di pronunciarsi ex cathedra, e sceglie di predicare piuttosto che di teologizzare, senza particolari sussidi retorici, presentandosi non come il capo della cristianità, ma come un buon parroco, che dice cose vere e di buon senso: quelle che forse tutti pensano, ma che i “cristiani da salotto” si guardano bene dal mettere in pratica.

E così ieri, festività della Pentecoste, entro in una chiesa bianca e liscia, costruita due o tre decenni fa, che, vista dall’esterno, somiglia a un centro polifunzionale. Pianta quadrata, panche disposte a semicerchio e gradini discendenti, come in un anfiteatro, dove evidentemente non è previsto che i fedeli si inginocchino durante il rito eucaristico. Ma quel che più colpisce, è l’assenza quasi totale di immagini: per la religione che ha combattuto la più dura battaglia contro l’iconoclastia, non è privo di significato che, salvo la grande croce di legno dietro l’altare, non vi siano altri segni riconoscibili della natura del luogo. Né l’assenza di figure di santi, o della Madonna, è frutto di dimenticanza: su due lati, le pareti sono vetrate trasparenti che danno sugli alberi e i prati del sagrato. Se sacro significa separato, e riservato al dio, la chiesa dove ieri si celebrava la prima comunione di Giulia e Mattia, ma anche di Kayla e Alshed, in una mescolanza allegra di suoni e rumori, canti e parole, non aveva quasi nulla di sacro, quasi nulla di tolto dal mondo e consacrato al Signore. Il cristianesimo, religione della secolarizzazione, che ha messo a morte tutti gli dei, vive sempre su quel sottile crinale che sta fra il confondersi troppo col mondo e il separarsi troppo da esso, irrigidendosi e chiudendosi in complessi teologumeni. Papa Bergoglio lo sa. Ieri ha detto: badate che la Chiesa non è una Ong né un movimento politico. Non può rinunciare alla trascendenza. Ma dopo anni in cui è sembrata guardare al mondo moderno solo in termini di minacce e pericoli all’essenza dell’uomo, la scelta di Francesco è un’altra: meno pensieri per l’essenza ultima, più attenzione alle condizioni reali di vita. Se dunque c’è il tempo in cui bisogna gridare fuori i mercanti dal tempio, viene anche quello in cui bisogna dire basta alla religione del mercato. E se questo è il tempo, le parole per dirlo devono essere semplici, chiare, e comprensibili a tutti.

Il Mattino, un giorno di maggio, mi pare il 20, 2013

La cultura in tv

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Giovani scrittori, geniali compositori, professori, artisti e protettori di tutte le muse si stanno già fregando le mani: tolte di mezzo l’Isola dei Famosi e Miss Italia tocca finalmente a loro. La Rai ha deciso infatti di puntare sulla cultura; il Direttore Generale, Anna Maria Tarantola, vuole una tv di qualità, perciò da questo momento Corazzate Potëmkin tutte le sere (quella coi sottotitoli in lingua originale, s’intende).

In realtà, su questa storia di come la Rai debba assolvere alla sua funzione di servizio pubblico, essendo la principale industria culturale del paese, non si riesce mai a venire a capo di nulla. C’è sempre quello che non vorrebbe dare le perle ai porci, l’altro che invece non sa immaginare nulla di diverso da una porcilaia, e in mezzo l’esperto di comunicazioni di massa che metterà l’uno e l’altro a tacere per parlarvi dello specifico televisivo, come una volta si parlava dello specifico filmico. Ugo Volli ha provato ieri a dissipare qualche equivoco, sulle colonne di questo giornale, togliendo perlomeno di mezzo l’idea che basti cancellare le miss e liberare il palinsesto dai reality ormai decotti per darsi una patina di cultura. Purtroppo non è così, e non per colpa dei programmi di serie B che infestano la programmazione: chi gioca in cadetteria sa benissimo in quale campionato milita e non si sogna nemmeno le prosopopee della cultura alta. Ma è in serie A – ha spiegato giustamente Volli –  che in Rai le cose proprio non vanno.

E non vanno né nei programmi di intrattenimento colto che fanno grandi numeri, né in quelli che se ne stanno buoni in qualche nicchia protetta. Non vanno, tanto per fare qualche nome, né dalle parti di Fabio Fazio né da quelle di Corrado Augias. E non perché quei programmi siano fatti male, o i loro conduttori non siano fior di professionisti, ma perché non passa  in quegli spazi neanche un alito di novità, neanche un brivido di sperimentazione, neanche la più piccola scommessa su un’idea o su un autore o su qualunque altra cosa. Diceva Roland Barthes che nella storia della fotografia c’è stato prima il tempo in cui si fotografava il notevole, poi quello in cui si rendeva notevole ciò che si fotografava. Quello che vale per la  fotografia dovrebbe valere anche per la televisione: a che serve fare televisione, se si tratta di riprendere solo ciò che è notevole, senza inventarsi nulla che serva a rendere notevole – come se fosse visto per la prima volta – ciò che si riprende? Eppure la Rai sembra che da un bel pezzo si sia fermata al primo tempo, rinunciando a giocare il secondo. Ad autori e conduttori non si richiede altro sforzo che non sia quello di collocare oggetti o personaggi già famosi, già celebrati, già a pieno titolo iscritti nella categoria del “notevole”, davanti alla telecamera  che li riprenderà con la simpatia e l’ironia necessaria a far digerire dosi di conformismo da cavallo. Nella migliore delle ipotesi, la cultura non starebbe comunque nella trasmissione, casomai nell’oggetto trasmesso. In quella peggiore (e non infrequente), la cultura non ci sarebbe affatto, vista la confusione che regna pure dal lato dell’oggetto, per cui Dante significa Benigni, e letteratura significa Saviano (forse grazie al meritatissimo bonus dell’eroismo civile). Ma la cultura si fa in tutt’altra maniera – quando si tratta proprio di farla, e non di occuparsi solo del packaging. Quando si vuole portare anche un solo italiano a entrare in un teatro, oppure a scoprire una mostra che non sia già un evento mediatico, e magari comprare un libro che non sia già un bestseller. Nell’ambito di ciò che chiama cultura, la Rai non sa rendere notevole nulla che non lo sia già, mentre quel che rende notevole non appartiene in genere alla cosiddetta cultura: sono le miss e i campioni dei reality show. Visto come stanno le cose, tanto varrebbe tenerseli: si eviterebbe almeno un bel po’ di ipocrisia.

Che se poi la cultura la si facesse davvero non dovrebbe essere la Rai una fucina di talenti? Ma dove sono i nuovi autori, i nuovi programmi, gli spazi affidati alla scoperta e all’invenzione? Dove  si parlano nuovi linguaggi, si tentano nuovi stili, se persino nei mondi della musica o della comicità, più giovanili e sensibili alle novità, non si muove quasi nulla? Per i nottambuli c’è Zoro, che fa Gazebo; e poi: che altro? Cosa passa in prima serata, che non sia lì dalla fine del Novecento? E cos’è che smuove le acque, fa davvero opinione, tendenza, gusto, e non si limita a registrare opinioni, gusti e tendenze che già ci sono? Hannah Arendt diceva  che la società di massa non vuole cultura ma svago, intrattenimento. Aveva torto, hanno torto tutti gli apocalittici per i quali per le masse non c’è speranza alcuna. Ma per dar loro torto, una cosa almeno è necessaria: che non solo lo svago, ma anche la cultura appartenga a questo nostro tempo, non a quello che ormai non c’è più, e che tuttavia si ripete ancora.

Il mattino, 23 maggio 2013

Il senso del Pd per la piazza

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Riprendersi piazza San Giovanni, ha detto Epifani. Dopo la decisione di chiudere la campagna elettorale di febbraio in un teatro, al chiuso, lasciando la piazza a Beppe Grillo,  il Pd torna a San Giovanni, e se torna, è per dire: «eccoci, ci siamo!».

Già, ma perché e quando gli esseri umani sentono il bisogno di dire una cosa del genere?

Immaginiamo ad esempio che qualcuno apra una porta, entri in casa e dica: «eccomi!». Non gli si potrebbe obiettare che non c’è bisogno di dirlo, lo si vede bene che c’è, dal momento che è appena entrato? Non è il suo un messaggio ridondante? Non si tratta di una comunicazione del tutto superflua? Si sarebbe mai potuto dire il contrario? Eppure di simili atti comunicativi, dal significato nullo e tuttavia gravidi di senso, è intessuta l’esperienza umana (continua su L’unità, 19 maggio 2013)

Il tweet di Filippo Tommaso

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A che punto è la distruzione della sintassi? Giusto cent’anni fa, l’11 maggio 1913, sembrava che l’ora fosse finalmente scoccata, e Filippo Tommaso Marinetti, che un anno prima aveva scritto il «Manifesto tecnico della letteratura futurista» (c’è stato un tempo in cui anche la letteratura si è affidata ai tecnici?), si considerava pronto per esprimere il proprio lirismo  «per mezzo di parole essenziali in libertà». Inutile dire che Marinetti nulla sapeva della grossa mano che Twitter gli avrebbe dato nell’impresa. Mica ne va solo della presidenza della Repubblica, con i tweet! Provateci infatti voi a rispettare sintassi e interpunzione nei soli 140 caratteri a vostra disposizione: impresa vana. Perciò comincerete anche voi, come il poeta, a «distruggere brutalmente la sintassi nel parlare», a non «perdere tempo a costruire periodi» (non ne avete lo spazio), a «infischiarvene della punteggiatura e dell’aggettivazione» e a «diminuire il numero delle vocali e delle consonanti» (le abbreviazioni!). Come vedete, all’immaginazione senza fili di Marinetti mancavano solo le faccine, tutto il resto c’era già (L’Unità, 12 maggio 2013)

La tattica dei conti rinviati

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Con l’accordo su Guglielmo Epifani il partito democratico prova a fare un primo passo dopo la crisi in cui è precipitato all’indomani delle elezioni. L’Assemblea Nazionale di oggi dovrebbe infatti votare il nome sul quale le diverse componenti del Pd hanno faticosamente trovato un’intesa, anche se, visto lo stato di salute del Pd, non si può escludere che qualcos’altro accada durante i lavori dell’Assemblea.

Un primo passo, ma in quale direzione? Tutta la discussione che è seguita alle dimissioni di Bersani è stata infatti condotta in cerca di un nome che non comportasse immediatamente scelte nette, che il Pd, evidentemente, in questo momento non è in grado di sostenere. Si è pensato perciò che di qui al prossimo congresso bisognasse affidarsi non a un segretario a pieno mandato, ma ad una figura la meno divisiva possibile, meglio se debole e politicamente non ingombrante, meglio ancora se disponibile solo per questa fase di transizione verso il congresso, e indisponibile a proseguire oltre. Alla fine la scelta è caduta su Epifani, figura più che dignitosa, con una storia sindacale e politica importante; ma basta guardare ai nomi circolati nelle ore che hanno preceduto l’accordo per rendersi conto di quali siano state le preoccupazioni e i motivi che hanno ispirato la scelta. In cerca di un traghettatore, di un reggente, o di una qualunque cosa non somigliasse a un segretario politico, il Pd ha provato a  accordarsi su nomi come quelli di Roberto Speranza o di Enzo Amendola, che indicavano una continuità netta con la segreteria uscente, ma avevano il pregio di non essere esponenti di primissima fila. Speranza, in realtà, essendo già stato promosso a capogruppo alla Camera, aveva ogni buona ragione per non avventurarsi in un incarico a tempo, da consumarsi preferibilmente entro una scadenza ravvicinatissima: era il primo a non crederci, insomma, e a non volerlo. Amendola, segretario dimissionario del Pd campano che non ha certo brillato nel risultato elettorale, poteva essere tuttavia il prescelto per la sua funzione semi-istituzionale di coordinatore nazionale dei segretari regionali – una carica, peraltro, che solo l’ubriacatura ideologica federalista, che in questi anni ha tramortito l’Italia (non solo il Pd), può spiegare, ma che non ha lasciato tracce visibili nell’organizzazione di partito: nonostante questo, o forse proprio per questo, è stato per qualche ora fra i papabili. Anche perché nel frattempo cadevano le candidature di Vannino Chiti o di Anna Finocchiaro, nomi questi di maggiore peso e sicuramente meglio profilati. Ma per la singolare legge della proporzionalità inversa fra peso politico e opportunità che in questo momento di disorientamento il Pd ha creduto di applicare, non potevano fare al caso. Alla fine il pendolo si è fermato sul nome di Epifani. Qualcuno deve essersi reso conto che anche all’autolesionismo c’è un limite.

Epifani, cioè il capolista del Pd a Napoli, insieme a Enrico Letta: a giudicare dalle responsabilità alle quali sono chiamati, si direbbe che da queste parti il Pd sia andato benone! E invece non è così, ma il fatto è che questa decisione non consegue ad un’analisi del voto, men che meno da una discussione sulle strategie adottate e su quelle da adottare, ma solo dall’intenzione di rinviare tutto al congresso. Al momento, non è nemmeno chiaro quali decisioni l’Assemblea prenderà sui nodi rimasti aperti, cioè sui tempi e le modalità di svolgimento del congresso. Il tratto politico più evidente che si accompagna alla scelta di Epifani – salvo sorprese dell’ultima ora, o dell’ultimo militante del Pd che dei primi prende a fidarsi sempre meno – è la continuità con la precedente segreteria. E in effetti, nonostante il tourbillon di nomi circolati, da questa esigenza di continuità il Pd non si è mai discostato.

Sembra incredibile, ma è così. Il Pd di Bersani si è comportato – e scegliendo ancora la continuità si sta comportando – come quel corridore che, tagliato il traguardo, continua la corsa ancora per qualche metro, prima di fermarsi del tutto. Solo che, quando vince, quello è il tempo in cui piovono gli applausi del pubblico; ma piove ben altro quando invece ha «non vinto». Un’espressione, quella usata da Bersani, che con qualche cattiveria si potrebbe tradurre così: il Pd ha perso a sua insaputa.

E davvero ha proseguito poi, nelle settimane successive, nell’insaputa generale. Come se non sapesse che con Grillo non avrebbe potuto mai stringere accordi, Bersani lo ha perseguito per più di un mese. Come se non sapesse che, se una possibilità c’era di fare un accordo coi Cinque Stelle, passava per un suo passo indietro, ha invece chiesto per sé l’incarico. Come se non sapesse che nessuno avrebbe creduto a un accordo su Franco Marini che non si ripercuotesse sul governo, ha sostenuto che si poteva dialogare con Berlusconi sulla presidenza della Repubblica in uno spirito puramente istituzionale, salvo essere smentito da Marini medesimo, che in un’intervista ha dichiarato il contrario. Come se non sapesse che, a quel punto, ripiegare su Prodi avrebbe comportato una piroetta di 360º, che nessun partito può compiere come un sol uomo in poche ore, ci ha provato lo stesso, portando il Pd alla disfatta.

Come se non sapesse tutto questo, e come se non fosse urgente dotarsi di una piattaforma politica chiara – perché si può fare il governo anche con Belzebù, ed anzi lo si è fatto, ma dentro una strategia politica e non in stato di necessità, senza avere più il coraggio di rivendicare nulla – l’Assemblea è chiamata ad avallare una linea di continuità non per convinzione, ma per mancanza di alternative.

Così succede che le alternative si formano, ma fuori dall’Assemblea. Renzi, infatti, si tiene alla larga. E D’Alema sta a Barcellona, e non sa se arriverà, anche perché ormai, così dice, ha il «core business» all’estero. E se è vero quello che ha raccontato Peppino Caldarola, che D’Alema rinviò a gennaio la presentazione del suo ultimo libro per non fare ombra a Bersani nel duello con Renzi, forse si può dire che, oggi, le ombre tornano ad allungarsi: il rinvio è finito, e quello che dovrebbe essere un primo passo ha invece il sapore dell’ultimo, fatto inutilmente dopo la «non vittoria» sulla linea del traguardo.

Il Mattino, 11 maggio 2013

Il Pd e i conti con la realtà

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Il governo Letta è un governo politico. Il governo Letta è un governo di necessità. Possono queste due affermazione stare insieme? Temo di no. Almeno non a lungo. Almeno non per chi assegna alla politica se non proprio il compito storico di far fiorire sulle basi del regno della necessità quello della libertà, come diceva il vecchio Marx nel «Capitale», almeno quello di far comunque fiorire qualcosa, che non sia soltanto la quadratura dei conti o i compiti a casa richiesti all’Italia dall’Europa. L’Unità, 9 maggio 2013

L’alleanza al tempo dei partiti deboli

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«Domani si vedrà!», ha detto ieri Felice Casson (Pd) in versione Rossella O’Hara. Ma quel che si è visto finora non offre i migliori presagi: Nitto Palma, che doveva andare alla guida della Commissione Giustizia del Senato, non è passato. Per due volte. E tutto sembra tornare in discussione, perché qualora non passasse nemmeno oggi, alla terza votazione, è chiaro che il Pdl non starebbe a guardare. E le ripercussioni potrebbe lambire anche Palazzo Chigi. Né d’altra parte si può pensare che un partito, impegnato in un governo di larghe intese, che dunque deve necessariamente collaborare per assicurare una tranquilla navigazione parlamentare al governo, stringa accordi formali tramite i suoi capigruppo, lasciando che però i componenti del gruppo li disattendano alla prima occasione. Questo, infatti,  è quel che è accaduto: i capigruppo Pd Zanda e Speranza hanno concluso con i loro omologhi del Pdl un patto, che i senatori del Pd si sono dati subito la pena di non osservare .

Ora, dalle parti del Pd si spiegherà perché il nome di Nitto Palma, già commissario del Pdl in Campania, amico dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino (ora agli arresti) non andasse bene. Ma non è questo il punto. Il punto è se, in generale, dopo che si è fatto un governo, qualcuno non si debba prendere la briga di rifare i partiti, e cioè di dare loro un’ossatura, una spina dorsale, una conduzione sufficientemente univoca. Innanzitutto per il bene del partito medesimo, che non può recitare a soggetto ad ogni votazione; poi per il buon funzionamento delle istituzioni parlamentari, i cui regolamenti poggiano sulle attività di gruppo, prima che sull’interpretazione solista affidata ai singoli parlamentari; infine per il governo medesimo, che deve poter contare su una maggioranza minimamente affidabile.

Allo stato, non sembra che queste condizioni si siano ancora realizzate. Al Pd evidentemente non è bastata l’esperienza fatta con Monti, quando Bersani ripeteva che non era quello il governo che voleva, salvo però appoggiarlo: nelle urne, questa schizofrenia non è stata premiata. Tantomeno lo sarebbe oggi, che a capo del governo c’è Letta, cioè il vicesegretario del Pd.

Ma forse bisognerà attendere l’Assemblea Nazionale di sabato prossimo, quando sarà eletto un nuovo segretario, dopo le dimissioni di Bersani. Già sembra però che si vada verso soluzioni transitorie, provvisorie, che lascerebbero di fatto la deputazione parlamentare libera di regolarsi secondo le circostanze. Il Pd non avrà bisogno di un Grande Timoniere, ma neppure gli può bastare un semplice traghettatore. Accade infatti come nelle squadre di calcio: quando i giocatori sanno che l’allenatore che li guida non è lo stesso che sarà in panchina nel prossimo campionato, finisce che fanno un po’ quello che vogliono. Ora, nel Pd non ci sarà un’aria da rompete le righe, ma non si può dire che, dopo le figuracce sull’elezione del Presidente della Repubblica, le file si siano ricompattate.

Ed è un paradosso. Il partito democratico è l’unica formazione politica che mantiene nelle proprie insegne la parola «partito», così bistrattata al giorno d’oggi. È il partito che più di ogni altra forza politica si attiene al dettato della Costituzione, la quale chiede di adottare metodi democratici al proprio interno. Fa (con esiti alterni) le primarie, le parlamentarie, i congressi. Ma tutto questo produce debolezza piuttosto che forza. Disperde energia politica invece di concentrarla. E le difficoltà e le incertezze che il Pd continua a manifestare finiscono col mettere la sordina anche ai limiti del Pdl. Il «partito di plastica», il «partito-azienda» mostra infatti una compattezza che, di rimbalzo, risalta come la prima delle virtù politiche. Certo, l’identificazione con Berlusconi facilita le cose. Finché dura, però. Anche il Pdl, infatti, si troverà scosso, quando questa simbiosi produrrà più problemi che soluzioni: non è questo che è accaduto, durante la scorsa legislatura? La brillante campagna elettorale e gli attuali sondaggi coprono il tallone d’Achille del Cavaliere, ma è un fatto che nelle prove di governo le sue maggioranze si sono sempre sfaldate, dal ’94 in poi.

E invece il sistema politico italiano ha estremo bisogno di corpi intermedi dotati di forza organizzativa e di una fisionomia netta, di stampo europeo. Se dunque vacillano appena si ingrossa l’onda della Rete, oppure arrancano sotto gli attacchi populisti sferrati da Grillo (che di fare un partito non ha bisogno: gli basta un blog e un’associazione fatta insieme col nipote e col fido commercialista) non ce la si può prendere col destino cinico e baro, ma con tutto quello (ed è tanto) che non è stato fatto finora nella costruzione di una solida cultura politica.

E come vanno le cose lo si deve vedere oggi, non domani, perché, per come è messo il Paese, domani è già troppo tardi. 

Il mattino, 8 maggio 2013

Il declino inizio’ con la cessione dell’elettronica nazionale

programma 101

«Non possiamo liquidare tutto in un esamino di storia sul digitale»: così dice Alfredo Reichlin nell’intervista che si trova al centro di Avevamo la luna, il libro bello e appassionato che Michele Mezza ha dedicato al triennio 1962-1964 (Donzelli editore). In quel giro di anni ne accaddero di cose, e la tesi di Mezza è che fu allora che il vagone dell’Italia si sganciò dal treno dell’innovazione finendo su un binario morto. Poi sono venuti i turbolenti anni Settanta e i leggeri anni Ottanta (che però piacciono tanto a Enrico Letta), fino alla caduta del Muro, a Tangentopoli e alla seconda Repubblica, ma la partita decisiva l’Italia la giocò molto prima. Perdendola. In quel triennio prese avvio l’informatizzazione delle relazioni produttive, che si sarebbe poi estesa all’intera società, e l’Italia che grazie alla Olivetti era all’avanguardia mondiale scivolò rapidamente nelle retrovie, con la vendita del ramo elettronico Olivetti agli americani della General Electric. Al di là dei contorni non chiari di quella vicenda, che il libro affronta da più lati assegnandole un valore esemplare, la tesi è che le conseguenze di quella cessione giungono purtroppo fino a noi, e spiegano il declino di questi anni. Spiegano, in particolare, la lontananza dell’Italia dai processi innovativi del capitalismo digitale. Spiegano perché, avendo dismesso l’elettronica, l’Italia si è per esempio condannata ad essere il primo paese per numero di telefonini in rapporto alla popolazione, senza però avere alcuna presenza nel campo della telefonia cellulare (continua qui)

L’Unità, 5 maggio 2013

Il filosofo grillino spara con le parole

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Non sarà l’ideologo del Movimento Cinque Stelle, però Paolo Becchi è perlomeno filosofo, e conosce quindi l’importanza delle parole. Sa perciò quel che dice, quando dice: «Se qualcuno tra qualche mese prende i fucili non lamentiamoci, abbiamo messo un altro banchiere all’Economia». Ora i deputati di Grillo hanno preso le distanze; Grillo stesso ha chiarito che Becchi non rappresenta il Movimento, perciò non proporremo alcuna interpretazione del rapporto che queste parole intrattengono con la retorica che il comico genovese ha messo in campo dal Vaffa Day in qua, a colpi di «Siete tutti morti!» e «Arrendetevi! Siete circondati!». Però prendiamo quelle parole esattamente per quel che dicono. Esse dicono che se il Presidente della Repubblica nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, un alto dirigente della Banca d’Italia al Ministero dell’Economia, è naturale, è nell’ordine delle cose che la gente si armi e spari. E quando accadrà, nessuno avrà il diritto di lamentarsi o di recriminare, perché l’una cosa è stretta conseguenza dell’altra. Questo dice Paolo Becchi, filosofo del diritto, il quale sa che la rivoluzione non è un pranzo di gala e che non si fa nessuna rivoluzione senza una buona razione di violenza armata.

Ovviamente, da un filosofo uno si aspetterebbe anche un briciolo di coerenza fra quel che dice e quel che fa. Ma il caso di Paolo Becchi è singolare: un ideologo della rivoluzione che, con la barba filosofica d’ordinanza, accetta volentieri comparsate in tv non s’era infatti visto ancora, sicché le velleità sovversive del professore finiscono facilmente per apparire semplici bizzarrie senili.

Le parole, però, restano di una gravità assoluta, anche se chi le ha pronunciate non finisse di coprirsi di ridicolo. Quelle parole suonano infatti minacciose per la democrazia stessa, non soltanto per il ministro Saccomanni o i suoi predecessori. La democrazia è, per essenza, il luogo della parola. Più precisamente è quel luogo in cui gli uomini accettano di regolare in forma pacifica, nel confronto verbale e nella forma rappresentativa della dialettica parlamentare, i conflitti di potere. Dopodiché essa concede a tutti il diritto di parola. Proprio a tutti, si potrebbe aggiungere: persino al professor Becchi e alle sue contundenti intemperanze, anche se queste si collocano sul suo bordo estremo, dal momento che si fanno interpreti, quando addirittura non caldeggiano, la violenza che è agli antipodi della politica come pratica delle parole.

Un altro filosofo un po’ più autorevole di Becchi, un certo Giorgio Federico Guglielmo Hegel, diceva che purtroppo al giorno d’oggi (e sotto questo aspetto la sua attualità – si badi – è la nostra stessa attualità, dal momento che noi come lui pensiamo la politica dopo l’esplosione rivoluzionaria del 1789 e la nascita della modernità politica), al giorno d’oggi ciascuno, come sta in piedi e cammina, così è convinto di poter intendersi di tutto e su tutto sentenziare. Così si spiega pure un Paolo Becchi che prende la parola per infiammare gli animi.

Ora, Hegel non era certo un campione di democrazia, e anzi la sua filosofia del diritto fu giudicata da qualcuno una giustificazione «scientificamente fondata» dello Stato di polizia. Ma Hegel in realtà ne sapeva dello Stato e delle forme di mediazione richieste dal suo funzionamento. E anche se non si può cercare in lui l’esaltazione della democrazia liberale e dei diritti dell’individuo, vi si può trovare il problema, di come cioè possa tenersi saldo un ordine politico nonostante l’inevitabile difficoltà che passi per pensare, e per libero pensare, pure quello del professor Becchi.

La democrazia deve quindi la sua legittimazione, come forma politica e non semplicemente come contenitore dei diritti fondamentali dell’individuo, alla capacità di «affermare il vero nelle pubbliche leggi». Così diceva Hegel, consegnandoci se non altro il compito di secernere verità nel dibattito pubblico e grazie ad esso, e di non accontentarci di un inerte e indifferente relativismo. Il compito, detto in altri termini, di mettere nelle parole di ogni spirito democratico tutto il peso e la gravità necessaria, per respingere con assoluta fermezza gli sputi rancorosi del professor Becchi.

Il mattino 3 maggio 2013