Archivi del giorno: Maggio 29, 2013

Basta offese. Per una volte ha ragione Brunetta

Ha ragione Brunetta: chiudiamola qua. E però diciamo anche le ragioni che in generale, non solo nel caso di Renato Brunetta, rendono così difficile quell’elementare misura di civiltà che consiste nel non deridere l’avversario per i suoi difetti fisici (veri o presunti), nel non disprezzarlo o aggredirlo per il colore della pelle, per l’orientamento sessuale o per qualunque altra forma di inaccettabile discriminazione. Brunetta ha ragione: quel genere di battute proprio non lo si sopporta più.

Ma poi ci sono quelli che si scatenano contro il fariseismo del «politically correct», che insorgono contro i conformismi e si fan beffe dei perbenismi. Costoro ti fanno notare, con aria di superiorità intellettuale, che però sia nella vita quotidiana che nelle supreme manifestazioni dello spirito umano – negli scherzi tra amici come nei libri, quando si raccontano barzellette e la si butta sul comico, proprio come a teatro e in genere nell’arte  – dappertutto questo genere di scorrettezze abbondano. Perché allora la politica dovrebbe osservare un garbo ipocrita? Nietzsche (in verità non uno stinco di santo) diceva che a togliere la gobba al gobbo gli si toglie lo spirito. E così – si dice – se togliessimo al linguaggio ciò che lo rende vivo e mordace, pungente e «parlante», lo sterilizzeremmo, lo neutralizzeremmo, rendendolo incapace di esprimere ciò che la politica è: passione, sangue, lotta. Un linguaggio bene educato, composto come certe comunicazioni sociali della presidenza del consiglio che vanno in tv, un linguaggio così è, insomma, un linguaggio devitalizzato, morto.

E invece non sta scritto da nessuna parte che in politica si debba parlare come al bar sport, o che ci si possa e debba concedere ogni e qualunque licenza. Non è sempre stato così, e non è necessario che sia così. Non è bene, soprattutto, se si frequenta la politica come quella zona dell’umano in cui vanno temperati, non aizzati gli eccessi (sublimi o triviali che siano) del linguaggio come della della vita. Eppure non pochi politici su piazza alimentano l’equivoco, per cui senza un insulto, senza toni aggressivi, senza gridare o denigrare, senza usare espressioni violente o sguaiate, non si è abbastanza autentici, abbastanza vicini alla «gente». Perciò quello urla, quell’altro deride, un altro ancora manda a quel paese. Al dibattito delle idee resta ben poco, osserva Brunetta, e ha ragione: può star sicuro che lo prenderemo in parola. (E, per cominciare, nell’intervista al Corriere rilancia l’idea di Berlusconi senatore a vita. Ecco una bella idea criticabile, anzi criticabilissima).

L’Unità 27 maggio 2013

Generazione web e ferocia arcaica

Morire a sedici anni. Uccidere a diciassette. Uccidere accoltellando la propria ragazza, cospargendola di benzina mentre, ancora viva, grida di non farlo. Darle fuoco. Fuggire. Ci sono cose – terribili come il delitto di Corigliano Calabro – che non si ha nessuna voglia non dirò di spiegare, ma neppure di capire, perché per capirle bisogna prestare loro ragioni, ricercare cause, individuare ciò da cui abbiano potuto avere origine; fornire, forse, persino dei motivi. Ma una riflessione è necessaria, comunque: non per attenuare lo scandalo del male, ma per sottrarsi al suo volto meduseo. Rimanere per sempre immobili accanto al proprio insensato dolore è permettere all’ingiustizia di trionfare anche oltre il male che ha recato, e inchiodare ad esso non solo il colpevole, ma anche le vittime.

Per quel che è accaduto ogni parola sembra di troppo. Eppure, non vi sono che le parole per elaborare quel che è accaduto.

Ora, è accaduto che una ragazza di sedici anni abbia detto no, e che per questo sia morta. È accaduto che un ragazzo di diciassette anni abbia sentito dalla voce di una ragazza un rifiuto, e che abbia ucciso per non volerlo più sentire, per non poterlo più tollerare. Ma perché un ragazzo, un uomo giudica a tal punto inaccettabile l’essere respinto, da armare la propria mano nel più brutale, nel più atroce dei modi? Forse perché non immagina più che tra il segno e il suo referente, tra il desiderio e l’oggetto del desiderio, gli uomini, per vivere come uomini, abbiano messo una distanza, una differenza, qualcosa che ritarda e differisce, e che perciò scava nell’uomo una costitutiva mancanza. Tra il cibo e la bocca gli uomini hanno messo la forchetta, tra i corpi hanno messo gli abiti, e ai pensieri gli uomini arrivano solo attraverso il lungo tirocinio delle parole (e infine, per far tacere la violenza si sono inventati – nello spazio comune della politica – la tanto bistratta rappresentanza parlamentare). C’è dunque un intervallo decisivo tra lo stimolo e la risposta, l’impulso e la sua soddisfazione, che apre la vita umana alla scoperta dell’oggetto, alle peripezie della libertà, che accende l’immaginazione e lascia che si sollevi l’istanza della parola. L’oggetto non è tale, se non ha la libertà di stare per sé, di contro all’uomo, ostinato nella sua indipendenza. La libertà non ha senso, se non si offre in uno con la «possibilità di non», per cui quel che capita potrebbe non capitare, e quel che non è capitato potrebbe un’altra volta capitare. E la parola non ha senso se non perché, cadendo nello spazio dell’interpretazione, si offre alla possibilità di essere intesa, ma anche fraintesa. Accolta ma anche ricusata. Ogni volta è il «no» l’ombra che permette al «sì» di profilarsi e valere. Ed è l’impotenza, il senso di frustrazione per l’impossibilità di cancellare quell’ombra, di eliminare quel «no» – di pazientare nell’attesa, o semplicemente di prendere altre strade – a indurre un uomo, a indurre un ragazzo, un diciassettenne, a compiere quello che in psicanalisi si chiama passaggio all’atto. Senza più possibilità di revoca, senza più mediazione simbolica, senza più uno schermo su cui la spinta compulsiva si infranga e si sublimi.

Così, mentre sembra che ad ogni passo, ad ogni mirabolante invenzione tecnologica, ad ogni inedita pagina di cronaca una nuova, mai vista prima «mutazione antropologica» ci mette dinanzi nuove figure dell’umano, la crosta della civilizzazione si rompe, e sotto la sua superficie l’uomo scopre di abitare ancora scene arcaiche, che non appartengono per nulla al passato per il solo fatto che sono state confinate nel suo inconfessabile sottosuolo. A volte tocca ancora di scendere in quel sottosuolo, in quello strato di natura quasi ferina in cui la cometa della civiltà, mentre disegna il suo arco nel cielo, rimane con la sua lunga coda ancora invischiata. In realtà, nemmeno questo è vero: è purtroppo un’illusione anche il credere che dalla parte della storia stia tutto il bene (soltanto) possibile, per allontanarsi dalla natura, in cui risiederebbe tutto il male radicale, necessario e ineliminabile. E tuttavia, anche se non è vero, anche se non solo il materiale di costruzione, ma le stesse costruzioni di cui è fatta la storia umana grondano sangue e non offrono una protezione sicura – non a Corigliano, ma neppure in una qualunque altra città del mondo – , non c’è altra maniera di guardare a quel che è accaduto, se non cercare sempre di nuovo, a tentoni, con pazienza e fatica, i volti dinanzi a cui le mani, vinte, si fermano, e le parole innanzi a cui un coltello viene infine lasciato cadere, e un corpo non viene lasciato più gridare inascoltato tra le fiamme.

Il Mattino  27 maggio 2013