Ha ragione Brunetta: chiudiamola qua. E però diciamo anche le ragioni che in generale, non solo nel caso di Renato Brunetta, rendono così difficile quell’elementare misura di civiltà che consiste nel non deridere l’avversario per i suoi difetti fisici (veri o presunti), nel non disprezzarlo o aggredirlo per il colore della pelle, per l’orientamento sessuale o per qualunque altra forma di inaccettabile discriminazione. Brunetta ha ragione: quel genere di battute proprio non lo si sopporta più.
Ma poi ci sono quelli che si scatenano contro il fariseismo del «politically correct», che insorgono contro i conformismi e si fan beffe dei perbenismi. Costoro ti fanno notare, con aria di superiorità intellettuale, che però sia nella vita quotidiana che nelle supreme manifestazioni dello spirito umano – negli scherzi tra amici come nei libri, quando si raccontano barzellette e la si butta sul comico, proprio come a teatro e in genere nell’arte – dappertutto questo genere di scorrettezze abbondano. Perché allora la politica dovrebbe osservare un garbo ipocrita? Nietzsche (in verità non uno stinco di santo) diceva che a togliere la gobba al gobbo gli si toglie lo spirito. E così – si dice – se togliessimo al linguaggio ciò che lo rende vivo e mordace, pungente e «parlante», lo sterilizzeremmo, lo neutralizzeremmo, rendendolo incapace di esprimere ciò che la politica è: passione, sangue, lotta. Un linguaggio bene educato, composto come certe comunicazioni sociali della presidenza del consiglio che vanno in tv, un linguaggio così è, insomma, un linguaggio devitalizzato, morto.
E invece non sta scritto da nessuna parte che in politica si debba parlare come al bar sport, o che ci si possa e debba concedere ogni e qualunque licenza. Non è sempre stato così, e non è necessario che sia così. Non è bene, soprattutto, se si frequenta la politica come quella zona dell’umano in cui vanno temperati, non aizzati gli eccessi (sublimi o triviali che siano) del linguaggio come della della vita. Eppure non pochi politici su piazza alimentano l’equivoco, per cui senza un insulto, senza toni aggressivi, senza gridare o denigrare, senza usare espressioni violente o sguaiate, non si è abbastanza autentici, abbastanza vicini alla «gente». Perciò quello urla, quell’altro deride, un altro ancora manda a quel paese. Al dibattito delle idee resta ben poco, osserva Brunetta, e ha ragione: può star sicuro che lo prenderemo in parola. (E, per cominciare, nell’intervista al Corriere rilancia l’idea di Berlusconi senatore a vita. Ecco una bella idea criticabile, anzi criticabilissima).
L’Unità 27 maggio 2013