
«Per colpa di un accento/ un tale di Santhià/ credeva d’essere alla meta/ ed era appena a metà». Ma magari fosse arrivato almeno a metà! Non quel tale della poesia di Gianni Rodari, dico, ma il processo sui rifiuti, su cui ieri è stata messa una pietra tombale. Nessuno in verità si era illuso che sarebbe arrivato alla meta: già lo scorso anno era a tutti chiaro che le udienze sarebbero continuate, il dibattimento sarebbe proseguito, ma – altro che metà! – il processo non sarebbe arrivato nemmeno alla sentenza di primo grado.
E così è stato. E però, ora che la prescrizione è intervenuta, non si può non rimanere amareggiati e indignati. Anche perché non si trattava certo di un processo qualunque (come se poi, per le parti in causa, i processi potessero mai essere processi qualunque), bensì di un giudizio portato sulla vicenda che più ha influito sulla vita pubblica della Regione Campania, e di riflesso persino sulla vita nazionale: trovarsi ora dinanzi non ad un verdetto, ma ad una prescrizione, appare come la riprova, l’ennesima, del fallimento clamoroso della giustizia nel nostro Paese.
Perciò, se anche disporremo in un’unica filastrocca e diremo tutto d’un fiato che Roma è stata la culla del diritto e l’Italia la patria della prima scuola giuridica al mondo ed è stata ed è ancora il paese degli Azzeccagarbugli ma è pur sempre il paese che ha dato i natali a Cesare Beccaria – ecco: quand’anche volessimo provare a consolarci così, non avremo attenuato di una virgola lo scandalo per vicende processuali di enorme significato politico che finiscono, però, nel nulla. Tra soldi spesi inutilmente, tempo ed energie sprecate e, inevitabilmente, diritti calpestati.
Non senza però che si producano effetti. Non effetti di giustizia, ma effetti politici e mediatici che della giustizia non conservano neanche l’ombra. Le parole che sono state pronunciate ieri in aula dall’accusa, circa le gravi responsabilità della struttura commissariale negli anni in cui fu guidata da Antonio Bassolino, benché non approdino a nulla e non siano recepite (né peraltro respinte) in una sentenza, non cadono infatti nel vuoto, ma finiscono sui taccuini dei cronisti, e rimbalzano nei servizi televisivi. È il sacrosanto principio della pubblicità del processo (in questo caso, peraltro, assicurato con molta fatica): guai a toccarlo. Ma esso si traduce, di fatto, nella seguente maniera: siccome i processi non si riescono più a chiudere, siccome non terminano più dove dovrebbero, cioè nelle aule, vediamo allora di pronunciare sonore requisitorie a beneficio, almeno, dell’opinione pubblica. Così però non è un beneficio, bensì un maleficio, un avvelenamento del dibattito pubblico. La penalizzazione diviene infatti una stigmatizzazione mediatica, in mancanza di meglio. Il processo non ha più come possibile esito la pena, ma costituisce esso stesso la pena. E la prescrizione, che un altro elementare principio di civiltà giuridica richiede a tutela degli imputati, perché nessuno può essere sottoposto a processo vita natural durante, diviene invece orrendo motivo di biasimo per chi ne fruisce. Ancora un sacrosanto principio rovesciato: se io devo rinunciare alla prescrizione per dimostrare la mia innocenza – altrimenti è come se ammettessi implicitamente di essere un farabutto -, vuol dire che non si tratta più di dimostrare, a processo, la colpevolezza, come il diritto invece richiede.
Ma quale vita economica, quale vita politica, quale vita civile può fiorire in simili condizioni? Con la prescrizione di ieri, è come se la materia del processo percolasse un’altra volta, e questa volta non nel martoriato territorio campano, ma direttamente nel tessuto sociale del paese.
«Il mondo sarebbe bellissimo, se ci fossero solo i bambini a sbagliare», annotava Rodari nel suo libro degli errori. Ma non si illudeva: sapeva ben che non basta correggere i dettati, gli accenti o le doppie: bisognerebbe correggere il mondo. Solo che dei luoghi a ciò deputati da noi non ce n’è uno che funzioni, e quelli che si ergono a correttori del mondo parlano ormai da altre, più comode tribune, dove non si perde tempo con notifiche, collegi e terze parti. Meglio allora sorridere di quel tale di Santhià, o di quell’altro che voleva correggere addirittura la Torre di Pisa, perché altri motivi di sorridere, purtroppo, dopo l’udienza di ieri non ce ne sono.
Il Mattino, 11 giugno 2013