Archivi del mese: luglio 2013

Vite autentiche e ordinarie

536658_397145433663313_1777093238_n

Un pullman, un viadotto, una gita. Poi sedili accartocciati, croci e santini fra i ciuffi d’erba, peluche. Brandelli di abiti. Un negoziante che per passione organizza pellegrinaggi verso luoghi di culto cari alla devozione popolare. Casalinghe, marescialli in pensione, insegnanti, gruppi di amici e parenti. Bambini, anche: che cosa c’è di più normale, di più ordinario, di più italiano nei nomi, nei luoghi, nelle mete di questa enorme tragedia? Le ambulanze, una scuola, il palazzetto dello sport. Mezzi ed edifici, cose e persone. Il lutto e il pianto. Il vescovo che ufficia il rito funebre, le autorità sedute in prima fila: nulla è fuori posto, tutto è non come deve essere (perché non doveva essere, non era necessario che il pullman precipitasse nel vuoto, e che tante persone morissero), ma semplicemente com’è, com’è andata e come si vede il giorno dopo, nel silenzio attonito che circonda la strada, le case, il vallone e le vite superstiti. Senza imbellettamenti, senza trucchi, senza neppure eroismi. Tutto è accaduto, tutto è vero, e nulla altera la luce uguale, indifferente e spietata di questa caldissima fine di luglio. Domani non è un altro giorno: è lo stesso giorno di oggi. Ci saranno ancora macchine, viaggi, gite, voci e risate, magliette sudate e giornali e radio accese. Un mazzo di fiori sul viadotto, e altri pellegrinaggi verso le stesse destinazioni.

Però i filosofi raccontano che la morte è un’altra cosa. 

(L’Unità, 31 luglio 2013)

Il segno di una doppia debolezza

Immagine

Non una soltanto, ma due elezioni primarie: il Pd deve essere in crisi di identità. Bella scoperta, si dirà. Ma il fatto è che questa volta non si tratta di una constatazione, ma di una dimostrazione. Più correttamente di un ragionamento di natura squisitamente abduttiva (i dirigenti democratici non lo sanno, ma ogni tanto abducono). Il ragionamento è il seguente. In primo luogo, il partito democratico ha nello strumento delle primarie un tratto irrinunciabile della propria identità politico-culturale e della propria fisionomia organizzativa. Così lo ha immaginato il suo primo segretario, Veltroni, e così è stato, dal 2007 ad oggi, passando per Franceschini e Bersani e un paio di elezioni politiche generali. Ora però si scopre che all’attuale segretario, Guglielmo Epifani, un solo turno di primarie non basta: ce ne vuole uno per eleggere il segretario, ristretto, e un altro dopo per scegliere il candidato premier, aperto. Se Bersani poteva dire, nella precedente campagna elettorale, che per lui contavano le secondarie, cioè le elezioni politiche vere e proprie, per Epifani le secondarie si allontanano, e le elezioni vengono ormai per terze. Abduciamo, dunque: se al Pd un solo turno di primarie non basta, e se le primarie fanno l’identità del Pd, allora il Pd è così in affanno che per ritrovar se stesso di primarie ne deve fare due, dalla diversa logica, come ha spiegato (si fa per dire) Bersani. Due primarie: l’ossimoro elevato a metodo politico.

Non si capisce? Non è colpa mia, ma vostra: non avete avuto abbastanza incubi negli ultimi tempi. Se infatti non vi è chiaro perché un partito debba stabilire, intervenendo un’altra volta sulle regole statutarie, che il suo segretario non è detto affatto che sia il candidato alla presidenza del consiglio, e che dunque l’elezione che lo riguarda deve essere dimidiata di valore e doppiata da un’altra elezione, è perché non siete stati visitati dal fantasma di Matteo Renzi, che invece ossessiona l’attuale gruppo dirigente del Pd. Pensateci: senza una regola così cervellotica cosa infatti potrebbe accadere? Che il futuro segretario, in prossimità delle elezioni, si proponga di bel bello come il leader della coalizione di centrosinistra. Orbene, delle due l’una: o quel segretario sarà abbastanza forte da rendere naturale la sua aspirazione, e allora non avrà bisogno di appellarsi alle regole statutarie per legittimare la propria candidatura; oppure quel segretario si scoprirà debole, perché nel frattempo gli sarà comparso nel suo stesso campo un altro candidato, e allora non saranno certo regole e regolette a frenare la corsa di un tale avversario. In entrambe le eventualità, regole e regolette sono inutili. Il secondo caso, peraltro, è quel che si è verificato quando Bersani ha (meritoriamente) accettato la sfida di Renzi, nonostante lo statuto del Pd non la prevedesse. E ora che si fa? Dopo che si è dimostrato che non è statuto alla mano che si risolvono i problemi politici, si mette mano a cosa? Ma allo statuto, naturalmente, nella speranza che questa volta invece serva a frenare le ambizioni del sindaco fiorentino. Si stabilisce così che il segretario del Pd non può essere politicamente abbastanza forte da scoraggiare competizioni per la leadership. Lo si stabilisce nientedimeno che per statuto. Lo statuto del Pd deve insomma sancire ufficialmente la debolezza del Pd.

Bisogna allora «abdurre» al contrario: il Pd non può avere un’identità politica forte, marcata, pronunciata: non la regge, non la sopporta. Perciò non ne va neppure in cerca.

Sia chiaro: le obiezioni ci sono. La prima: un segretario forte farebbe ombra al governo Letta, e rischierebbe di farlo cadere. Giusto. Ma questo significa che il Presidente del Consiglio deve allora mettere in campo se non se stesso almeno il proprio peso politico, e soprattutto la propria azione di governo, per determinare la scelta di un segretario che ne condivida e sostenga il percorso. Non significa certo che bisogna escogitare soluzioni regolamentari per scongiurare il pericolo.

La seconda: il Pd non è autosufficiente, e non può decidere oggi, con le percentuali racimolate alle ultime elezioni, il candidato alla premiership di uno schieramento di cui ignora i lineamenti. Giusto anche questo. Ma allora il Pd non dovrebbe procedere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci delle primarie, bensì alla loro pura e semplice abolizione, tanto più che la derubricazione delle primarie a primarie di coalizione è una perversione tutta italiana, sconosciuta ai sistemi che con le primarie cerchiamo malamente di scimmiottare. Questo però snaturerebbe l’identità del Pd. O forse sarebbe solo la presa d’atto di quel che il partito democratico è oggi, in via di fatto. Ma chi è oggi in grado di guardare in faccia la realtà senza proseguire in quel gioco di rimozioni e denegazioni che il Pd sta giocando da qualche mese a questa parte?

 (Il Mattino, 27 luglio 2013)

Tra politica e magistratura

Immagine

Ora che l’indagine sulla Coppa America porta all’iscrizione nel registro degli indagati di Luigi De Magistris, attuale sindaco di Napoli, Luigi Cesaro, Presidente della Provincia all’epoca dei fatti, e  Stefano Caldoro, attuale governatore della Campania, è doveroso porre almeno una domanda circa, ad un tempo, i limiti dell’azione giudiziaria, l’autonomia e la responsabilità della politica, la retta cura dell’ordine pubblico. La domanda non riguarda l’ipotesi di reato, non entra nel merito dei fatti, da tempo sotto la lente della magistratura, neppure chiede di allentare minimamente i controlli penali sull’attività amministrativa di questo o quell’Ente. Ma il rispetto per l’indipendenza della magistratura, la fiducia non retorica nel suo operato e la convinzione che l’osservanza delle leggi sia un prerequisito fondamentale della vita democratica non possono spingersi fino al «sacrificium intellectus». Nessuna rinuncia all’esercizio della critica: l’intelletto, la facoltà di ragionare non possono essere provvisoriamente sospese o inibite da un avviso di garanzia. L’opinione pubblica ha anzi il diritto, oltre che il dovere, di guardare con seria preoccupazione alla piega che hanno preso gli eventi, e di interrogarsi ad alta voce intorno alle conseguenze di un’iniziativa giudiziaria che pone «sub judice», tutti insieme, tutti in un colpo solo, i massimi vertici dell’Amministrazione comunale, provinciale, regionale. Perché le conseguenze trascendono il caso specifico, e investono in generale le possibilità e il senso stesso dell’attività politica, così come può dispiegarsi In occasione di un evento di risonanza internazionale, che ha portato Napoli sotto i riflettori del mondo intero. In quella occasione, Comune, Provincia e Regione si sono mosse d’intesa, per individuare nell’Unione industriale guidata da Paolo Graziano, cioè nel più importante e rappresentativo soggetto imprenditoriale del territorio, il partner necessario per assicurare il buon esito dell’operazione. Vedremo quale seguito avrà questa iniziativa giudiziaria, che ipotizza una turbativa d’asta là dove c’era un accordo raggiunto tra, da un parte, gli enti locali, e, dall’altra, l’ente confindustriale campano, ma non ci si può non chiedere se non sia in questo caso la forma stessa dell’azione politica, la sua possibilità di entrare in relazione con settori larghi della società, con i corpi intermedi, con le rappresentanze di categoria, ad essere tenuta sotto scacco e ostacolata nel suo svolgimento.

Nessuno, sia chiaro, contesta la legittimità delle determinazioni assunte sin qui dalla Procura. Le contestazioni giuridiche sono materia di avvocati, prendono la strada dei ricorsi, delle eccezioni e delle controdeduzioni. Ma le obiezioni sono un’altra cosa, appartengono ad un altro campo, quello più prezioso – ed anzi essenziale in democrazia – della discussione pubblica. Che in questo caso deve essere il più possibile avvertita, sollecita e attenta, perché in questione è non solo la definizione del campo e delle modalità in cui si esercita l’azione amministrativa, ma anche il senso stesso della rappresentanza democratica.  Forte è infatti la preoccupazione che simili iniziative frustino in ogni amministratore pubblico il coraggio dell’intrapresa, l’assunzione di responsabilità per gli atti di governo di una collettività, la volontà stessa di agire. Se ci volgiamo attorno, vediamo ovunque prevalere l’inazione, l’inerzia, il rinvio: non è possibile che l’unica azione che abbia energico corso e squillante autonomia, in questo paese, sia l’azione penale. Né è possibile che questo corso prenda a volte strade ben larghe e diritte, altre volte invece lente e tortuose. Non solo, ma di fronte a un colpo così fragoroso, che non fa meno clamore per il fatto che è solo un primo passo e un (cosiddetto) «atto dovuto», si sarebbe forse potuto sperare che fosse preso in maniera più collegiale, anche a tutela stessa dell’operato dei singoli magistrati. In casi del genere, infatti, non sono mai abbastanza le rassicurazioni circa l’assoluta assenza di qualunque volontà di interferire con il normale corso dell’attività politica. Speriamo dunque che ne verranno, di qui in avanti, di simili assicurazioni, non per il bene di una parte soltanto ma per il riguardo dovuto ad una corretta dialettica fra i poteri e le istituzioni democratiche.

(Il Mattino, 23 luglio 2013)

Se gli alieni fossero tra noi

Immagine

Rovesciamo la domanda. Anziché chiederci se esistano gli alieni, domandiamoci piuttosto perché mai non dovrebbero esistere. Così saremo meglio disposti ad accogliere le sconcertanti rivelazioni dell’ormai ottantaduenne Edgar Mitchell, uno della sporca dozzina di astronauti che ha messo piede sul suolo lunare e che, certo, sulla luna di alieni non ne ha visti, ma li ha visti a terra, sul suolo patrio. O per meglio dire: ha incontrato e visto chi li ha visti. Anzi nemmeno: ha visto chi ha incontrato quelli che hanno visto «le bare di dimensioni minuscole per contenere i corpi degli alieni recuperati». Una catena di testimoni un po’ lunga, e però resta che siamo dinanzi ad un altro caso di sepolcro vuoto, dal momento che i testimoni primi di questa catena i corpi veri e propri («veri e propri» si fa per dire) non li hanno visti: un po’ di fede nelle parole di Edgar Mitchell, perciò, ci vuole.

(L’Unità, 21 luglio 2013)

Il governo Letta

Immagine

Una condizione necessaria non è una condizione sufficiente. Questa piccola distinzione logica è quanto mai preziosa quando si ha da fare con un governo di necessità. Un governo di necessità non è un governo sufficiente.

Semplicemente: non basta. Non fa quel che deve fare e non può durare. E le fibrillazioni di questi giorni, i sussulti e le polemiche, i casi che settimanalmente occupano la scena e impongono continui aggiustamenti e nuovi posizionamenti ai partiti che compongono la maggioranza (o, a volte, anche solo a pezzi di quei partiti), non aiutano la navigazione dell’esecutivo. Non consentono di dispiegare un’azione politica efficace.

Al momento del varo del governo, Enrico Letta ha disegnato comprensibilmente un orizzonte temporale limitato per la realizzazione di un programma breve e incisivo, in grado di affrontare i nodi strutturali della crisi politica, economica e istituzionale del Paese.

Naturalmente, a norma di costituzione non esiste un governo a termine. La fiducia del Parlamento non è affatto una fiducia a tempo. E tuttavia le condizioni politiche del tutto sui generis in cui l’Italia si è ritrovata all’indomani delle elezioni, in mancanza di una maggioranza stabile in entrambi i rami del Parlamento, hanno reso necessaria l’adozione di una formula politica inedita per il nostro Paese, e soprattutto una chiara indicazione degli obiettivi programmatici dell’azione di governo, sia sul terreno economico che sul terreno istituzionale ed elettorale. Per quegli obiettivi Letta ha dato un preciso limite temporale: diciotto mesi. Ma un anno e mezzo non può trascorrere nella paralisi, nel rinvio o nel temporeggiamento. Non è, insomma, il tempo che le forze politiche si sono date per attutire, invece di risolvere concretamente, nell’attività di governo, la crisi di legittimazione che le investe in pieno.

Che il governo delle larghe intese richiedesse, per l’appunto, un’intesa tra forze eterogenee e distanti era noto fin dal giorno del suo insediamento. Che questa distanza dovesse però essere superata, o almeno accorciata perché il governo potesse realizzare un programma riformatore era altrettanto noto. Che incidenti di percorso, casi spinosi e decisioni non facili avrebbero fatto la loro comparsa lungo la navigazione del governo era pure questo, se non proprio noto, ampiamente prevedibile. Così sarà anche in futuro.

Ma la scommessa politica da cui nasce il governo Letta non può consistere nella maniera in cui scansare di volta in volta le mine che trova lungo il suo cammino. La sua missione non può consistere semplicemente nell’evitare, nel rinviare o nel sospendere. Vi sono infatti due modi per proseguire, di qui in avanti: uno consiste nel «tirare a campare», come avrebbe detto Andreotti, per non «tirare le cuoia». Consiste cioè nell’accettare il gioco dei condizionamenti reciproci e non compiere nessun passo che scontenti l’una o l’altra parte politica. In questo modo, però, la spinta propulsiva dell’esecutivo si esaurisce ancor prima di cominciare. L’altro consiste invece nello sfidarle entrambe, nello strappare tanto al Pd quanto il Pd il consenso su scelte autenticamente riformatrici, che proprio grazie al più largo quadro politico che sostiene l’esecutivo possano essere finalmente adottate, in una direzione generale che anche il Presidente Napolitano ha voluto indicare, fin dall’inizio di questo suo secondo settennato.

Ma Pd e Pdl sono gravati da seri problemi interni, di tenuta politica. E c’è il rischio che il governo Letta sia soltanto il tappo perché quei problemi non esplodano, ostaggio di dinamiche che trascendono il suo stesso campo di azione. C’è il rischio che la necessità non sia quella che ha il Paese, ma quella che hanno i partiti che lo sostengono (i partiti, o, di nuovo, pezzi di quei partiti). È una situazione che però il Paese non può permettersi. La necessità deve aguzzare l’ingegno, non accorciare la vista, riducendola di qui al congresso del Pd, o di qui alla prossima decisione di un tribunale o di una corte.

I problemi del Pd e Pdl hanno infatti, sia detto senza infingimenti, nomi e cognomi. Si chiamano Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Che ne siano i protagonisti attivi o semplicemente gli oggetti passivi dei movimenti politici che attraversano i due schieramenti, a Renzi e Berlusconi sembrano legate continuità o discontinuità dell’appoggio al governo dei loro partiti di appartenenza, per  vicende che però non riguardano affatto l’insieme delle riforme attese, ma percorsi politici e personali non necessariamente convergenti con l’agenda che questo Paese ha bisogno di seguire.

I tempi della politica sono sempre un incastro tra vicende di breve e di lungo periodo, ambizioni personali e più ampi progetti collettivi. Se però un governo non è in grado di dettare quei tempi, di costringerli nei cardini della propria azione, allora è inevitabile che quel governo, e in situazioni di crisi acuta persino il Paese tutto, rischino di finire fuori sesto. È un rischio che non possiamo e non vorremmo correre

(Il Mattino, 20 luglio 2013)

Nella palude dei peggiori

Immagine

Al florilegio di dichiarazioni che in tutti questi anni ha saputo rilasciare l’ex ministro e attuale vice Presidente del Senato, Roberto Calderoli, quella dell’orango mancava. Di maiali, l’illustre uomo politico aveva già parlato; di scimmie e cammelli anche. Ma per impreziosire la collana delle frasi memorabili con un’ultima perla, e soprattutto scacciare il dubbio che non fosse possibile essere più insultanti, più incivili, più razzisti di quanto non si fosse stati in precedenza, l’esponente leghista ha aggiunto la sua personale valutazione della reazione che in lui, prode maschio bianco, adulto, europeo, civilizzato, procura la vista del ministro della repubblica italiana Cecile Kyenge. Detto con simpatia, s’intende. La stessa che Calderoli metteva quando invitava i migranti a tornarsene nel deserto o nella giungla, o quando se la prendeva con i «froci» e con i musulmani. Perché l’uomo ha di queste piacevolezze, e se c’è un muro di discriminazione da innalzare state sicuri che a porre la prima pietra sarà lui, Roberto Calderoli.

Siccome però questa volta pare essersi accorto di aver passato il segno, invece di rincarare la dose, come in passato soleva fare, ha provato a minimizzare. Senza riuscirci, però. Perché cercando di togliere l’offesa, che in verità offende solo lui, ha provato a produrre addirittura un argomento intero, a sostegno delle sue parole. L’argomento suona così: volevo solo dire che vedo bene Cecile Kyenge come ministro del Congo. Siamo, insomma, di nuovo dalle parti della difesa orgogliosa dell’uomo bianco, civilizzato, rude e  virile, quale Calderoli evidentemente ritiene di essere. Con la differenza che ci siamo in grazia non di parole pronunciate in un comizio per vellicare i più beceri umori leghisti, ma di una riflessione pacata, resa dopo aver spremuto le proprie padane meningi in cerca di parole meno vergognose. Ma non c’è niente da fare: neanche volendo l’uomo riesce a smentirsi.

Il fatto è che Calderoli, e in verità nella Lega non è neppure il solo, continua da un pezzo ad alimentare odi e pregiudizi dove avremmo invece bisogno di disegnare percorsi di integrazione, reti di solidarietà, rispetto di diritti e difesa del valore universale della dignità umana. Un alfabeto elementare, che tuttavia Calderoli non ha mai mostrato di padroneggiare. E la conseguenza non è solo il disdoro che ricade su di lui, perché quello: passi. La conseguenza è il clima in cui precipita il dibattito pubblico, un clima che si vorrebbe definire surreale, fuori da qualunque considerazione dei problemi reali del paese e delle vere preoccupazioni della gente, se non fosse però anche pericoloso, per i contraccolpi  che tanta intolleranza verbale può generare. E il guaio è che in un simile clima ci precipitano non piccole frange minoritarie, o estremisti che il paese non ha difficoltà ad isolare, ma dirigenti politici di prima fila, oltre che uomini delle istituzioni.

Purtroppo è un riflesso vecchio come il mondo: si chiama ricerca del capro espiatorio, va in scena nei periodi di crisi e non promette mai nulla di buono. A Calderoli però bisogna far capire che qualunque cosa dichiarerà ancora in futuro, non troverà mai nessuno disponibile ad alzare una mano contro le vittime innocenti della altrui inciviltà.

(Il Mattino, 15 luglio 2013)

La tiotimolina risublimata

Immagine

È probabile che di quanti si affannano intorno alle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi nessuno o quasi conosca le proprietà endocroniche della tiotimolina risublimata. Eppure, gli esperti ricorderanno che nel 1948, tra le tante cose, non ci fu solo la vittoria della Dc, ma anche la pubblicazione di un racconto di Isaac Asimov, che torna utile rileggere oggi, per capire a quale punto siano giunte le contorsioni sempre più scomposte della seconda repubblica. La tiotimolina, spiegava il notissimo scrittore di fantascienza, è una molecola talmente solubile, ma talmente solubile,  da sciogliersi ancora prima di essere immersa nell’acqua. A quel lontano racconto deve essersi ispirato chi ha cominciato a ragionare in queste ore di concessione della grazia al Cavaliere, ancora prima che la Cassazione si pronunci e giunga (se mai giungerà) ad una condanna definitiva. Sulla scia di una simile proposta, si potrebbe aprire un filone di iniziative assai interessante. Per esempio: promuovere o bocciare prima dello svolgimento di un esame, oppure dare i risultati del voto ancor prima dello svolgimento della consultazione elettorale (i sondaggisti in realtà ci provano, con alterne fortune). Resta che però, in taluni casi, possono presentarsi serie controindicazioni, se per esempio qualcuno decidesse di attraversare un incrocio ancor prima della comparsa della luce verde.

Gli ambienti del Quirinale, che in via ufficiosa stigmatizzano  duramente «l’analfabetismo» e la «sguaiatezza istituzionale» di chi lascia scoppiare nel dibattito pubblico simili, avventurosissime proposte, autorizzano una buona dose di ironia. In realtà, tirare la Presidenza della Repubblica per la giacchetta, cercare di precostituire soluzioni in un ambito di esclusiva competenza del Capo dello Stato, o più semplicemente mettere le mani avanti per paura di finire male non giova anzitutto al Cavaliere, perché sembra denunciarne una preoccupata insicurezza e suona come una sorta di «excusatio non petita» (cioè di «accusatio manifesta»); non giova in secondo luogo all’istituto della grazia, che non è certo la valvola di sicurezza per i problemi giudiziari di nessuno; e non giova neppure, in terzo luogo, ai rapporti politici presi nel loro insieme, di cui si dovrebbe favorire il rasserenamento, piuttosto che la complicazione. Una proposta del genere, infatti, sbagliata nei modi e nei tempi, non può avere il proposito di trovare una soluzione alla crisi politica in cui il Paese rischia di precipitare in caso di condanna, ma solo quello di rendere più difficile la coabitazione di Pd e Pdl in seno alla maggioranza, dal momento che non è certo cosa di cui i due partiti maggiori possano realmente ragionare. Non lo è perché non spetta loro farlo, e non lo è perché i rispettivi elettorati non ne comprenderebbero il senso, l’opportunità, il merito.

Non sorprende perciò il fatto che, non contento del contributo dato alla scienza, Isaac Asimov sia tornato altre volte sulle proprietà della tiotimolina, per indagare ad esempio le sue «applicazioni micropsichiatriche». Ecco, non vorremmo che la seconda Repubblica stesse ormai sconfinando nella micro o macropsichiatria e avesse perciò bisogno di interessarsi di simili applicazioni. La molecola di Asimov suppone peraltro una capacità di incursione nel futuro di cui quasi nessuno, nella politica di oggi, è capace. È per questo, e solo per questo, che non riesce a tirarci fuori dai problemi del presente. Non ha un orizzonte, una visione, ma è per lo più un’affannosa rincorsa giorno per giorno, e arriva purtroppo un attimo dopo molto più spesso che un attimo prima.

Lo scrittore americano non pensò di affiancare a quel capolavoro di satira scientifica che fu il suo racconto un capolavoro analogo nel campo della satira politica, ma la proposta di grazia avanzata per conto terzi prima della condanna meriterebbe comunque, io temo, tutta la sua considerazione.

(Il Mattino, 13 luglio 2013)

Grillo e la «gente che spara»

Immagine

«Non siamo più da tempo una repubblica parlamentare e forse non siamo più una democrazia»: e con queste delicate parole, all’uscita dall’incontro con il Presidente della Repubblica,  Beppe Grillo dice la sua sul ruolo del Parlamento italiano, che gli pare del tutto esautorato. Perciò Napolitano lo dovrebbe sciogliere. Poi va giù duro contro i partiti, che sono «morti», «spariti», e contro i giornali che non si avvedono che il suo Movimento è invece tutt’altra cosa, e dentro il Parlamento, «dentro una architettura fatta per i partiti» il Cinque Stelle non ci sta: è «come mettere un cerchio dentro un quadrato», ha detto, con scarsissimo senso geometrico. Infatti il cerchio dentro un quadrato ci sta e come: si chiama cerchio inscritto (e il quadrato, quadrato circoscritto), come si impara sui banchi della scuola. Ma non è la geometria il terreno più scivoloso delle proposizioni di Grillo.

È la balistica, o forse, più in generale, l’arte della guerra, vista la dichiarazione seguente: «La gente vuole prendere i fucili, i bastoni e sono io a dire proviamo ancora con i metodi democratici». Sembrerebbe dunque che siamo nelle mani di un avverbio, di un «ancora» a cui è sospeso un ultimo periodo di prova. Poi, più nulla fermerà bastoni e fucili.

Ora, questo genere di dichiarazioni non risuonano per la prima volta. La gente aveva i fucili in spalla già molti anni fa, quando a tuonare era Umberto Bossi, e i bergamaschi pronti a dissotterrare le armi erano trecentomila, secondo la prudente stima del leader. Era, quello, il primissimo tempo della seconda Repubblica, quando la Lega poteva ancora apparire a taluno un agente radicale di cambiamento. (E quando per la verità, c’era già chi diceva un’altra cosa che ha ripetuto ieri Grillo: «io potevo starmene a casa e godermi i miei soldi», ha detto, infatti, e non è il primo che, pur avendo i soldi, ha deciso di scendere in campo).

Poi però s’è visto com’è andata: di cambiamenti radicali ce ne sono stati assai pochi, e la scassata repubblica italiana ha retto all’urto del furente popolo della Lega. Il cerchio leghista non solo è entrato nel quadrato parlamentare, ma è pure andato al governo, e s’è poi stretto così magicamente attorno al suo leader da soffocarlo, segnandone la malinconica fine. A giudicare dagli ultimi risultati amministrativi, è difficile ipotizzare che la Lega ritroverà presto la sua forma primeva.

Insegna qualcosa questa storia di cerchi e di quadrati? Forse sì. Forse Grillo ne può trarre l’insegnamento più drastico: che provare «ancora» con metodi democratici, costituzionalizzare la protesta, parlamentarizzare il confronto politico rischia di snaturare il movimento, e non c’è dubbio che nei toni di certe sue dichiarazioni si avverte anche qualcosa del genere. Ma come si concilierebbe una simile posizione intransigente con il bonario profilo dei «cittadini» entrati in Parlamento, con la presenza nelle Camere, il lavoro in commissione, e, oggi, l’incontro con il Capo dello Stato? Non si concilia. Quell’avverbio, l’«ancora» usato da Grillo, è non solo il tempo in cui opera il Movimento Cinque Stelle ma, più in generale, il tempo in cui si svolge l’azione politica. Anche Grillo dovrà farsene una ragione. E però quella ragione vale quanto una contraddizione, come quel cerchio che entra malvolentieri nel quadrato.

Perciò Grillo cerca, per quanto può e finché può, di lucrare sulla protesta che monta: agitarla ed usarla, più che spegnerla. Per questo alza i toni, minaccia secessioni dal Parlamento, esaspera una contrapposizione fra loro, le All Stars, e il resto del mondo. Come se spazzare via Parlamento e partiti trasformasse di colpo  il paese in macerie che Grillo descrive in un giardino incantato.  Naturalmente, un simile gioco non sarebbe possibile, se la crisi non si fosse rivelata più lunga di un conflitto mondiale, e se non fosse così incerta la risposta da parte dei partiti e delle istituzioni. In una simile congiuntura, l’elettorato si è infatti fortemente radicalizzato, e un’accentuata volatilità del voto e delle opinioni stenta a trovare composizione credibile in forme politiche, in compagini istituzionali. Certo però non è quest’ultima l’impresa alla quale Grillo intende dedicarsi. Non si tratta per lui di farsi interprete della protesta, ma di esserne il «megafono», il «portavoce». L’interprete, infatti, media, compone, collega: si interpone anche, se occorre. Il megafono invece rilancia, amplifica, e con la sua voce copre tutte le altre.

Finché dura, però. Finché non si compie la vecchia profezia: non quella dei cerchi che, volenti o nolenti, muoiono quadrati, ma quella della storia che, quando si ripete, si ripete in farsa.

(Il Mattino, 11 luglio 2013)

Filosofia italiana e forchette

Immagine

«Se sei appassionato di essere, posa la forchetta e pensa l’essere, se ci riesci. Ti do tre minuti”». Una bella sfida, non c’è dubbio, difficile da vincere anche mantenendo la forchetta in mano. Ma ha ragione Alfonso Berardinelli: dopo tre minuti così, con la forchetta sul bordo del piatto o in bilico tra il pollice e l’indice, non ti viene in mente nulla e allora finisce che devi dar ragione a Hegel: questo essere puro, privo di ogni determinazione, equivale a nulla.

(L’Unità, 14 luglio 2013)

La sfida europea della sinistra

Immagine

L’Europa è l’unico continente ad avere un contenuto, diceva un grande pensatore spagnolo, Ortega y Gasset. Ma è cosa che non avrebbe detto, e che noi non ripeteremmo se non aleggiasse la preoccupazione che quel contenuto non è un acquisto per sempre, ma potrebbe andare irrimediabilmente perduto. Ora, non saranno le elezioni europee della prossima primavera ha dilapidare il contenuto di civiltà, diritti, ricchezza culturale, ma anche economica e sociale, dell’Europa (come, per la verità, non è certo la moneta unica ad averne consentito l’accumulazione), ma è indubbio che, per la prima volta da quando l’Europa ha intrapreso il percorso di costruzione di un’architettura giuridica comune, le elezioni possono essere affrontate avendo riguardo a quel contenuto, nell’unico modo in cui è possibile averne davvero riguardo: ponendolo al centro di una contesa politica.

L’Unità, 7 luglio 2013

Boldrini, la gaffe del no all’invito Fiat

Immagine

C’è, evidentemente, diversità di vedute tra Sergio Marchionne e Laura Boldrini. Per l’amministratore delegato della Fiat, la visita del Presidente della Camera allo stabilimento in Val di Sangro poteva però essere un’occasione per far conoscere un’importante realtà industriale: senza attenuare le divergenze del giudizio ma senza neppure opporre o vedersi opposti rifiuti di principio al dialogo e al confronto.

L’invito però è stato declinato, «per motivi istituzionali». Ma nella lettera la Presidente non risparmia nessuna delle critiche che ha inteso muovere al colosso torinese e al suo sistema di relazioni industriali. La recentissima sentenza della Corte costituzionale, favorevole alla Fiom, a cui si riconosce il diritto alla rappresentanza di fabbrica pur in assenza della firma di accordi sindacali, rende ancora più bruciante il contenuto della lettera di Laura Boldrini. Che imputa alla Fiat, neanche troppo velatamente, di cercare la via d’uscita dalla crisi in una  «gara al ribasso sui diritti». Se a questo si aggiunge che la settimana scorsa i rappresentanti della Fiom che avevano sfilato a Roma erano stati invece ricevuti dalla Boldrini, si può pervenire non troppo arbitrariamente alla conclusione che la Presidente della Camera ha scelto una sola delle parti in causa: con coerenza, forse, rispetto alla sua storia personale e alle sue convinzioni ideali, ma in maniera un po’ stridente con il ruolo super partes che da qualche mese ricopre, e che la chiama ad una rappresentanza di tutta la comunità nazionale. A meno di non pensare, infatti, che c’è un luogo, in Italia, al di fuori della legalità costituzionale, e che questo luogo è la Fiat, non c’è motivo perché la più importante industria del paese non riceva la visita del Presidente della Camera dei Deputati. E, francamente, anche chi ha voluto criticare negli ultimi anni la Fiat di Sergio Marchionne, le sue strategie di internazionalizzazione, l’atteggiamento conflittuale nei confronti dei metalmeccanici della Cgil oppure il mancato sviluppo del piano Fabbrica Italia, non credo possa spingersi fino al punto di mettere la galassia Fiat fuori della civiltà giuridica del Paese.

Tanto più che tutte le opinioni espresse dalla Boldrini nella lettera, così come la sua acuta sensibilità sociale, avrebbero potuto essere con altrettanto se non con maggiore forza rappresentate nel corso stesso della visita. Un confronto lo si fa per quello, e un invito lo si raccoglie anche, se lo si ritiene, per segnalare eventuali criticità, magari in un linguaggio franco e schietto – come si dice nel linguaggio delle diplomazie.

C’è poi un punto più generale, al quale non solo la Presidente Boldrini, ma l’Italia intera non può sottrarsi. Perché non solo il diritto al lavoro, ma ogni e qualunque garanzia giuridica costituirà pure un presidio di libertà irrinunciabile, però non esime nessuno dal domandarsi a quali condizioni quel diritto o quei diritti possano essere resi effettivi. Questa domanda interroga tutte le parti, non una soltanto, e non porla equivale ad eluderla, non certo a risolvere la questione. L’Italia è uno strano paese: perde posti di lavoro, stabilisce nuovi record di disoccupazione giovanile, e dibatte quasi esclusivamente questioni di diritto, per la gioia dei giuslavoristi di ogni specie. Nobile disciplina, non c’è dubbio: il sigillo stesso della modernità. Ma il giorno in cui si tornasse a parlare di politiche industriali, di investimenti, di quote di mercato da conquistare, di globalizzazione da sfidare e da governare, sarà comunque un gran bel giorno. Poteva essere il prossimo 9 luglio, il giorno della visita; così non sarà, ma ci auguriamo che ci sia presto una prossima volta.

Il Mattino, 5 luglio 2013

I democratici e la zavorra delle regole

Immagine

A leggere i giornali, a inseguire le dichiarazioni di questo o quel dirigente del Pd, potrebbe sembrare che il principale problema politico del partito democratico sia la determinazione delle regole con le quali tenere il congresso. Non questioni di linea o di identità, non le ricette economiche per tirare fuori il paese dalla crisi, ma le regole. Il che vorrebbe dire che sono problemi già archiviati la perdita di nove milioni di voti alle elezioni di febbraio, e la rovinosa frana del partito nell’elezione del presidente della Repubblica: fatti dirompenti avvenuti non nel secolo scorso, ma soltanto poche settimane fa. In quei giorni, Bersani e l’intero gruppo dirigente del Pd si dimisero, ma chi leggesse oggi i giornali difficilmente troverebbe tracce di una sia pur lontana consapevolezza che quelle giornate hanno segnato, per il Pd, un punto di non ritorno. Quel che si trova invece, è una discussione vagamente onirica, e in ogni caso difficile da spiegare al cittadino medio, intorno alle regole, alla celebrazione dei congressi locali prima, durante o dopo la scelta del futuro segretario, alla separazione o all’unione della figura del segretario con quella del presidente del consiglio, al ruolo degli iscritti, alle primarie aperte o chiuse, alle deroghe allo statuto, in un’orgia politicista da cui nemmeno l’osservatore più attento saprebbe venir fuori. Le avvertenze per l’uso del congresso – l’amara medicina che occorre mandar giù – rischiano di contenere più istruzioni di quelle che una casa farmaceutica può infilare nel bugiardino, e soprattutto indicare una quantità abnorme di effetti collaterali indesiderati.

Eppure il nodo è semplice: si tratta di Matteo Renzi. Quelli che vogliono tenerlo lontano dalla corsa alla segreteria del Pd insistono sulla necessità di evitare la sovrapposizione fra candidato premier e segretario del partito, come se, messa per iscritto una simile regola, sarebbe ipso facto scongiurata l’ipotesi di una vittoria di Renzi al congresso, e la sua futura candidatura a Palazzo Chigi. Quelli che invece ne sostengono l’irresistibile ascesa, temono imbrogli sulle regole: ma se l’ascesa è irresistibile, non è chiaro cosa abbiano da temere.

Per uscir fuori dall’aporia, Antonio Funiciello, responsabile cultura del Pd, ha indossato le vesti solenni del re Salomone e formulato la seguente proposta: se vince Renzi, visto che ci tiene, facciamo che il segretario possa essere anche il candidato alla guida del governo; se invece vince un altro, che non tiene alla cosa, manteniamo pure la separazione. Sembra una barzelletta, ma è invece la spia di un dibattito insensato, coltivato da chi si illude che i processi politici reali possano essere indirizzati con regolette, emendamenti, norme statutarie.

Ed il processo politico in corso sta sotto una parola alla quale, con ogni evidenza, il Pd non ha saputo fin qui corrispondere. Quella paroletta è: discontinuità. Se Bersani ha perso, è per quello. Se Renzi gode di un largo consenso, è per lo stesso motivo. Ma nel Pd è ancora in corso il tentativo di rimanere ostinatamente attaccati all’autoproclamata «non sconfitta», approfittando dell’ultima zattera che Renzi non può, al momento, rovesciare: il governo Letta. Che rischia così di divenire ostaggio delle forze che resistono ad ogni mutamento di equilibri, all’interno del Pd (e, in parte, anche fuori). Il che all’azione del governo di sicuro non giova.

L’argomento è: un Pd a guida Renzi metterebbe a rischio il governo. Ma è un argomento che per un verso prova troppo, e per l’altro non prova nulla. Prova troppo, perché i maggiorenti del Pd potrebbero altrettanto bene dire che qualunque fatto nuovo metterebbe in pericolo l’esecutivo, anche la semplice celebrazione del congresso, ed infatti son lì che cincischiano ancora sulla data. Non prova però nulla, perché anzi presuppone ciò che il congresso dovrà, se mai, dimostrare: che questo governo deve rimanere in carica per fare le cose che occorrono al paese.

Questo è il terreno sul quale si dovrebbe infatti svolgere il confronto politico nel Pd (e, si spera, anche fuori): quali sono le vie che si intendono tracciare per il paese, entro quale campo di forze, in Italia e in Europa. Ed è questione di programma, ma ancor prima di una più generale visione degli interessi nazionali e del posto dell’Italia nel mondo. Il mondo, infatti, non sembra proprio che se ne stia lì fermo, in attesa che il Pd scelga di quali regole dotarsi (e magari di quali regole darsi per decidere quali regole darsi, perché all’autoreferenzialità non c’è mai fine).

Quanto a Renzi, ha sicuramente incarnato la discontinuità, almeno in una prima fase, all’insegna dello slogan contundente della rottamazione. E con lo strattone di ieri ha voluto ricordare a tutti che è ancora di quell’idea. Ma tocca anche a lui mettere contenuti in questa esigenza di rottura, e indicare così un terreno effettivo di sfida e di cambiamento, più scabro di una parola d’ordine vincente, più concreto di una battuta ad effetto. Perché a volte sembra, come ha detto ieri, che gli altri giochino con lui al tiro al piccione. E questo non funziona. Ma altre volte sembra che lui voglia vincere sul velluto, quasi non giocando la partita, e neanche questo, per la verità, può andar bene.

Il Mattino, 3 luglio 2013

Enrico Letta, Don Rodrigo e il Conte zio

Immagine

Enrico Letta non ha l’età del conte zio: e dico non dello zio Gianni Letta, ma del conte zio dei Promessi Sposi, quello che manda a chiamare il Provinciale per scongiurare «un monte di disordini, un’iliade di guai» ed invitarlo a «sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire». Enrico Letta non ha l’età e probabilmente neppure la voglia di scegliere una strada simile, di cercare soltanto di evitare cozzi, scansare il chiasso, e «allontanare il fuoco dalla paglia». Ma siccome non sono pochi i focolai che si accendono qua e là, il rischio che debba sottrarre materia all’azione di governo per evitare lo svilupparsi di incendi esiste.

Esiste e si palesa ad ogni nuovo decreto, in cui, a torto o a ragione, ai primi posti delle decisioni del governo figurano materie oggetto di rinvio, o di un’azione più prudente e meno incisiva di quella che sarebbe forse necessaria.

Ma è nella natura di un governo di larghe intese, si dirà. Essendo sostenuto da forze diverse e contrapposte, che nell’ultima campagna elettorale e per un tempo lungo quanto la seconda Repubblica si sono considerate alternative, il governo deve necessariamente cercare un punto di mediazione, che possa andar bene agli uni e agli altri. Il che è vero, naturalmente.

Ma la mediazione può essere trovata in più modi. Si può cercare di accontentare tutti, o invece di non scontentare nessuno. Si può chiedere ai partiti di mettere da parte elementi divisivi o di bandiera, per consentire all’azione di governo di dispiegarsi lontano dai condizionamenti di parte. Oppure si può rimanere bloccati proprio dalle opposte rivendicazioni. Si può insomma agire, oppure non agire. Agire, e chiedere consenso intorno ai risultati della propria azione. Oppure sopire, solo per non perdere il consenso così difficilmente raccolto all’atto di nascita del Dicastero.

Il fatto è che al governo non ci sono solo partiti politici diversi, non solo il berlusconismo e l’antiberlusconismo, oppure la destra e la sinistra (e il centro). Ci sono anche forze che, volenti o nolenti, sono impegnate anche in una ridefinizione profonda della propria fisionomia politica e programmatica: sicuramente perché si trovano al governo con gli avversari di ieri, ma anche (e anzi soprattutto) perché quasi nulla del loro recente passato può essere traghettato nel futuro prossimo. Sia questo un governo di pacificazione, oppure di servizio, o anche solo di emergenza, si può già  escludere che, «dopo», in un dopo non si sa quanto lontano o vicino, si tornerà alla stessa dialettica di «prima».

La cosa è forse meno evidente nel centrodestra, dove la sindrome di accerchiamento giudiziario rende di fatto impossibile, per il momento, qualunque ragionamento diverso da un prolungamento della lunga stagione berlusconiana (di lotta o di governo non è dato sapere) È invece abbastanza evidente nel centrosinistra, che è entrato in questa ulteriore fase di transizione avendo bruciato con la sconfitta di Bersani l’ennesima leadership, e in cerca dunque di una nuova. Una ricerca che si somma alla necessità di dare un nuovo profilo ideale e culturale al Pd, e che di sicuro non terminerà prima del congresso. Con il rischio, dunque, che si accentui la necessità, per le diverse anime del partito, di posizionamenti distinti lungo le diverse linee di faglia che l’azione di governo dovrà fronteggiare. Che si tratti del lavoro, del confronto con le istituzioni europee, della ristrutturazione della spesa pubblica o anche solo degli F-35, probabilmente non c’è ancora – e forse non ci sarà fino al congresso – un solo Pd: a meno che Letta non metta davvero tutti a tacere, grazie ai risultati del suo governo. Tutti a tacere, però: non tutto sopire, come voleva il conte zio.

Il Presidente del Consiglio non ha infatti l’età né lo spirito del personaggio manzoniano; ma neppure, diciamolo, il carattere del nipote, il funesto Don Rodrigo. Ora non è che ci dobbiamo augurare di avere al governo un prepotente come quel volgare signorotto, molestatore di innocenti fanciulle: non sia mai! Ma quando il conte zio lo descrive con condiscendenza – giovane, vivo: «si sente quello che è», «ha sangue nelle vene» – viene da pensare che qualcosa del genere servirebbe al governo. Al governo, e pure al Pd, se Letta vuole tenere in mano le redini della situazione. 

(Questo articolo è stato pubblicato in prima sul Mattino il 27 giugno 2013)

Le dimissioni di Yosefa Idem

Si tratti di piccole inadempienze, mere negligenze o autentiche furbizie, la linea difensiva adottata da Josefa Idem per le irregolarità in cui sarebbe incorsa su abusi edilizi e mancati pagamenti del’Imu difficilmente le consentirà di rimanere al suo posto di ministro. L’incontro odierno con il Presidente del Consiglio, annunciato ieri da Enrico Letta con parole che già suonavano quasi come una sfiducia, metterà probabilmente fine alla breve esperienza di governo di una campionessa leggendaria dello sport italiano. E offrirà anche un’altra occasione di riflessione sulla maniera in cui in Italia si fanno i governi, e più in generale la politica.

Vi sono infatti, in questa vicenda, aspetti sui quali vale la pena riflettere, oltre il sacrosanto principio per cui chi sbaglia paga, tanto più se si tratta di un ministro della repubblica (e tanto più – aggiungiamo – in un paese in cui purtroppo il senso della legalità non è la prima delle virtù civiche). Non è possibile infatti che ci si indigni alla stessa maniera per la piccola o per la grande infrazione, per l’irregolarità amministrativa o per il reato penale, per la minima inosservanza o per la flagrante violazione di legge. Ma soprattutto non è augurabile che la lotta politica, non essendo più il terreno di confronto di grandi opzioni ideologiche, culturali, programmatiche, continui ad essere soltanto la riserva di caccia dei novelli Savonarola, e che la più minuscola malefatta diventi l’occasione per una nuova campagna moralistica, e promuova l’ennesima leva di fustigatori incorruttibili. Nella quale, peraltro, si ritrovano immancabilmente fianco a fianco gli onesti e gli ipocriti: per ogni pubblicano che viene smascherato c’è infatti almeno un filisteo che si frega invidioso le mani.

E se le lava pure, al punto che a difendere con convinzione la Idem ieri è stato forse il solo Brunetta, che non è un suo compagno di partito ma che ha avuto l’ardire di fare la seguente, scandalosa considerazione: a chi non è capitata una svista? È vero, parole simili suonano assolutorie. Ma, per una volta, vale la pena domandarsi non perché non assolvere, ma da dove viene tutta quest’ansia di condannare, di sminuire, di guardare il mondo dal buco della serratura e giudicare i fatti della politica con lo stesso metro con cui si discutono le beghe condominiali. Come spiegava Hegel, il detto «non c’è eroe per il suo cameriere» significa non che Napoleone non è Napoleone, ma che un cameriere è soltanto un cameriere, e non va oltre, nel suo giudizio, piccole difetti e private vanità. Certo, la grande politica che aveva in testa Hegel non c’è più: la democrazia prima e la rete poi hanno avvicinato e rimpicciolito tutto, ma se non si recupera un po’ di grandezza, il risultato non è più uguaglianza, ma soltanto l’immiserimento di qualunque idea collettiva di politica, e di paese.

Nella conferenza stampa, Yosefa Idem si è poi lamentata del trattamento ricevuto in questi giorni dalla stampa: «non la darò vinta alla montatura mediatica», ha detto, ed è comprensibile tutta la sua amarezza per i toni indecenti usati nei suoi confronti da alcuni esponenti politici che ne chiedevano le dimissioni. Ma questo è un altro aspetto non secondario di quel che è diventata la politica (in generale, e la politica italiana in particolare). Perché di mediatico non c’è solo il caso che sarebbe stato montato su piccole inadempienze amministrative, ma anche la scelta di Yosefa Idem come ministro dello sport. Non si può condannare l’una senza farsi qualche domanda sull’altra. La debolezza della politica italiana è tale, che sempre più costituisce un titolo di merito il non avervi mai appartenuto, l’essere stati tutt’altra cosa rispetto a ciò che sono e appaiono agli occhi dell’opinioni pubblica i professionisti della politica. Se i professionisti della politica sono il male, il bene sono tutti quelli che si sono distinti in qualunque altro campo che non sia la politica. Ma anche questa è una costruzione mediatica, il modo in cui stampa, rete, tv distribuiscono le parti, per cui può accadere che persino in un governo di larghe intese, di emergenza nazionale, la scelta di qualche ministro risponda alle esigenza dei media più che ad un tenace disegno politico.

Yosefa Idem può non saperlo. Può così commettere, per ingenuità o inesperienza, l’errore di alzarsi e andarsene nel corso di una conferenza stampa per sottrarsi a domande scomode e urtanti, cosa alla quale non è mai stata abituata nel corso dei suoi innumerevoli trionfi sportivi. Ma non si dimostra proprio così che, forse, oltre alle medaglie, un po’ di professionismo politico in più non guasterebbe?

(Questo articolo è apparso sulla prima del Mattino il 24 giugno 2013)