Archivi del giorno: luglio 1, 2013

Enrico Letta, Don Rodrigo e il Conte zio

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Enrico Letta non ha l’età del conte zio: e dico non dello zio Gianni Letta, ma del conte zio dei Promessi Sposi, quello che manda a chiamare il Provinciale per scongiurare «un monte di disordini, un’iliade di guai» ed invitarlo a «sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire». Enrico Letta non ha l’età e probabilmente neppure la voglia di scegliere una strada simile, di cercare soltanto di evitare cozzi, scansare il chiasso, e «allontanare il fuoco dalla paglia». Ma siccome non sono pochi i focolai che si accendono qua e là, il rischio che debba sottrarre materia all’azione di governo per evitare lo svilupparsi di incendi esiste.

Esiste e si palesa ad ogni nuovo decreto, in cui, a torto o a ragione, ai primi posti delle decisioni del governo figurano materie oggetto di rinvio, o di un’azione più prudente e meno incisiva di quella che sarebbe forse necessaria.

Ma è nella natura di un governo di larghe intese, si dirà. Essendo sostenuto da forze diverse e contrapposte, che nell’ultima campagna elettorale e per un tempo lungo quanto la seconda Repubblica si sono considerate alternative, il governo deve necessariamente cercare un punto di mediazione, che possa andar bene agli uni e agli altri. Il che è vero, naturalmente.

Ma la mediazione può essere trovata in più modi. Si può cercare di accontentare tutti, o invece di non scontentare nessuno. Si può chiedere ai partiti di mettere da parte elementi divisivi o di bandiera, per consentire all’azione di governo di dispiegarsi lontano dai condizionamenti di parte. Oppure si può rimanere bloccati proprio dalle opposte rivendicazioni. Si può insomma agire, oppure non agire. Agire, e chiedere consenso intorno ai risultati della propria azione. Oppure sopire, solo per non perdere il consenso così difficilmente raccolto all’atto di nascita del Dicastero.

Il fatto è che al governo non ci sono solo partiti politici diversi, non solo il berlusconismo e l’antiberlusconismo, oppure la destra e la sinistra (e il centro). Ci sono anche forze che, volenti o nolenti, sono impegnate anche in una ridefinizione profonda della propria fisionomia politica e programmatica: sicuramente perché si trovano al governo con gli avversari di ieri, ma anche (e anzi soprattutto) perché quasi nulla del loro recente passato può essere traghettato nel futuro prossimo. Sia questo un governo di pacificazione, oppure di servizio, o anche solo di emergenza, si può già  escludere che, «dopo», in un dopo non si sa quanto lontano o vicino, si tornerà alla stessa dialettica di «prima».

La cosa è forse meno evidente nel centrodestra, dove la sindrome di accerchiamento giudiziario rende di fatto impossibile, per il momento, qualunque ragionamento diverso da un prolungamento della lunga stagione berlusconiana (di lotta o di governo non è dato sapere) È invece abbastanza evidente nel centrosinistra, che è entrato in questa ulteriore fase di transizione avendo bruciato con la sconfitta di Bersani l’ennesima leadership, e in cerca dunque di una nuova. Una ricerca che si somma alla necessità di dare un nuovo profilo ideale e culturale al Pd, e che di sicuro non terminerà prima del congresso. Con il rischio, dunque, che si accentui la necessità, per le diverse anime del partito, di posizionamenti distinti lungo le diverse linee di faglia che l’azione di governo dovrà fronteggiare. Che si tratti del lavoro, del confronto con le istituzioni europee, della ristrutturazione della spesa pubblica o anche solo degli F-35, probabilmente non c’è ancora – e forse non ci sarà fino al congresso – un solo Pd: a meno che Letta non metta davvero tutti a tacere, grazie ai risultati del suo governo. Tutti a tacere, però: non tutto sopire, come voleva il conte zio.

Il Presidente del Consiglio non ha infatti l’età né lo spirito del personaggio manzoniano; ma neppure, diciamolo, il carattere del nipote, il funesto Don Rodrigo. Ora non è che ci dobbiamo augurare di avere al governo un prepotente come quel volgare signorotto, molestatore di innocenti fanciulle: non sia mai! Ma quando il conte zio lo descrive con condiscendenza – giovane, vivo: «si sente quello che è», «ha sangue nelle vene» – viene da pensare che qualcosa del genere servirebbe al governo. Al governo, e pure al Pd, se Letta vuole tenere in mano le redini della situazione. 

(Questo articolo è stato pubblicato in prima sul Mattino il 27 giugno 2013)

Le dimissioni di Yosefa Idem

Si tratti di piccole inadempienze, mere negligenze o autentiche furbizie, la linea difensiva adottata da Josefa Idem per le irregolarità in cui sarebbe incorsa su abusi edilizi e mancati pagamenti del’Imu difficilmente le consentirà di rimanere al suo posto di ministro. L’incontro odierno con il Presidente del Consiglio, annunciato ieri da Enrico Letta con parole che già suonavano quasi come una sfiducia, metterà probabilmente fine alla breve esperienza di governo di una campionessa leggendaria dello sport italiano. E offrirà anche un’altra occasione di riflessione sulla maniera in cui in Italia si fanno i governi, e più in generale la politica.

Vi sono infatti, in questa vicenda, aspetti sui quali vale la pena riflettere, oltre il sacrosanto principio per cui chi sbaglia paga, tanto più se si tratta di un ministro della repubblica (e tanto più – aggiungiamo – in un paese in cui purtroppo il senso della legalità non è la prima delle virtù civiche). Non è possibile infatti che ci si indigni alla stessa maniera per la piccola o per la grande infrazione, per l’irregolarità amministrativa o per il reato penale, per la minima inosservanza o per la flagrante violazione di legge. Ma soprattutto non è augurabile che la lotta politica, non essendo più il terreno di confronto di grandi opzioni ideologiche, culturali, programmatiche, continui ad essere soltanto la riserva di caccia dei novelli Savonarola, e che la più minuscola malefatta diventi l’occasione per una nuova campagna moralistica, e promuova l’ennesima leva di fustigatori incorruttibili. Nella quale, peraltro, si ritrovano immancabilmente fianco a fianco gli onesti e gli ipocriti: per ogni pubblicano che viene smascherato c’è infatti almeno un filisteo che si frega invidioso le mani.

E se le lava pure, al punto che a difendere con convinzione la Idem ieri è stato forse il solo Brunetta, che non è un suo compagno di partito ma che ha avuto l’ardire di fare la seguente, scandalosa considerazione: a chi non è capitata una svista? È vero, parole simili suonano assolutorie. Ma, per una volta, vale la pena domandarsi non perché non assolvere, ma da dove viene tutta quest’ansia di condannare, di sminuire, di guardare il mondo dal buco della serratura e giudicare i fatti della politica con lo stesso metro con cui si discutono le beghe condominiali. Come spiegava Hegel, il detto «non c’è eroe per il suo cameriere» significa non che Napoleone non è Napoleone, ma che un cameriere è soltanto un cameriere, e non va oltre, nel suo giudizio, piccole difetti e private vanità. Certo, la grande politica che aveva in testa Hegel non c’è più: la democrazia prima e la rete poi hanno avvicinato e rimpicciolito tutto, ma se non si recupera un po’ di grandezza, il risultato non è più uguaglianza, ma soltanto l’immiserimento di qualunque idea collettiva di politica, e di paese.

Nella conferenza stampa, Yosefa Idem si è poi lamentata del trattamento ricevuto in questi giorni dalla stampa: «non la darò vinta alla montatura mediatica», ha detto, ed è comprensibile tutta la sua amarezza per i toni indecenti usati nei suoi confronti da alcuni esponenti politici che ne chiedevano le dimissioni. Ma questo è un altro aspetto non secondario di quel che è diventata la politica (in generale, e la politica italiana in particolare). Perché di mediatico non c’è solo il caso che sarebbe stato montato su piccole inadempienze amministrative, ma anche la scelta di Yosefa Idem come ministro dello sport. Non si può condannare l’una senza farsi qualche domanda sull’altra. La debolezza della politica italiana è tale, che sempre più costituisce un titolo di merito il non avervi mai appartenuto, l’essere stati tutt’altra cosa rispetto a ciò che sono e appaiono agli occhi dell’opinioni pubblica i professionisti della politica. Se i professionisti della politica sono il male, il bene sono tutti quelli che si sono distinti in qualunque altro campo che non sia la politica. Ma anche questa è una costruzione mediatica, il modo in cui stampa, rete, tv distribuiscono le parti, per cui può accadere che persino in un governo di larghe intese, di emergenza nazionale, la scelta di qualche ministro risponda alle esigenza dei media più che ad un tenace disegno politico.

Yosefa Idem può non saperlo. Può così commettere, per ingenuità o inesperienza, l’errore di alzarsi e andarsene nel corso di una conferenza stampa per sottrarsi a domande scomode e urtanti, cosa alla quale non è mai stata abituata nel corso dei suoi innumerevoli trionfi sportivi. Ma non si dimostra proprio così che, forse, oltre alle medaglie, un po’ di professionismo politico in più non guasterebbe?

(Questo articolo è apparso sulla prima del Mattino il 24 giugno 2013)