Archivi del giorno: luglio 17, 2013

Nella palude dei peggiori

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Al florilegio di dichiarazioni che in tutti questi anni ha saputo rilasciare l’ex ministro e attuale vice Presidente del Senato, Roberto Calderoli, quella dell’orango mancava. Di maiali, l’illustre uomo politico aveva già parlato; di scimmie e cammelli anche. Ma per impreziosire la collana delle frasi memorabili con un’ultima perla, e soprattutto scacciare il dubbio che non fosse possibile essere più insultanti, più incivili, più razzisti di quanto non si fosse stati in precedenza, l’esponente leghista ha aggiunto la sua personale valutazione della reazione che in lui, prode maschio bianco, adulto, europeo, civilizzato, procura la vista del ministro della repubblica italiana Cecile Kyenge. Detto con simpatia, s’intende. La stessa che Calderoli metteva quando invitava i migranti a tornarsene nel deserto o nella giungla, o quando se la prendeva con i «froci» e con i musulmani. Perché l’uomo ha di queste piacevolezze, e se c’è un muro di discriminazione da innalzare state sicuri che a porre la prima pietra sarà lui, Roberto Calderoli.

Siccome però questa volta pare essersi accorto di aver passato il segno, invece di rincarare la dose, come in passato soleva fare, ha provato a minimizzare. Senza riuscirci, però. Perché cercando di togliere l’offesa, che in verità offende solo lui, ha provato a produrre addirittura un argomento intero, a sostegno delle sue parole. L’argomento suona così: volevo solo dire che vedo bene Cecile Kyenge come ministro del Congo. Siamo, insomma, di nuovo dalle parti della difesa orgogliosa dell’uomo bianco, civilizzato, rude e  virile, quale Calderoli evidentemente ritiene di essere. Con la differenza che ci siamo in grazia non di parole pronunciate in un comizio per vellicare i più beceri umori leghisti, ma di una riflessione pacata, resa dopo aver spremuto le proprie padane meningi in cerca di parole meno vergognose. Ma non c’è niente da fare: neanche volendo l’uomo riesce a smentirsi.

Il fatto è che Calderoli, e in verità nella Lega non è neppure il solo, continua da un pezzo ad alimentare odi e pregiudizi dove avremmo invece bisogno di disegnare percorsi di integrazione, reti di solidarietà, rispetto di diritti e difesa del valore universale della dignità umana. Un alfabeto elementare, che tuttavia Calderoli non ha mai mostrato di padroneggiare. E la conseguenza non è solo il disdoro che ricade su di lui, perché quello: passi. La conseguenza è il clima in cui precipita il dibattito pubblico, un clima che si vorrebbe definire surreale, fuori da qualunque considerazione dei problemi reali del paese e delle vere preoccupazioni della gente, se non fosse però anche pericoloso, per i contraccolpi  che tanta intolleranza verbale può generare. E il guaio è che in un simile clima ci precipitano non piccole frange minoritarie, o estremisti che il paese non ha difficoltà ad isolare, ma dirigenti politici di prima fila, oltre che uomini delle istituzioni.

Purtroppo è un riflesso vecchio come il mondo: si chiama ricerca del capro espiatorio, va in scena nei periodi di crisi e non promette mai nulla di buono. A Calderoli però bisogna far capire che qualunque cosa dichiarerà ancora in futuro, non troverà mai nessuno disponibile ad alzare una mano contro le vittime innocenti della altrui inciviltà.

(Il Mattino, 15 luglio 2013)

La tiotimolina risublimata

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È probabile che di quanti si affannano intorno alle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi nessuno o quasi conosca le proprietà endocroniche della tiotimolina risublimata. Eppure, gli esperti ricorderanno che nel 1948, tra le tante cose, non ci fu solo la vittoria della Dc, ma anche la pubblicazione di un racconto di Isaac Asimov, che torna utile rileggere oggi, per capire a quale punto siano giunte le contorsioni sempre più scomposte della seconda repubblica. La tiotimolina, spiegava il notissimo scrittore di fantascienza, è una molecola talmente solubile, ma talmente solubile,  da sciogliersi ancora prima di essere immersa nell’acqua. A quel lontano racconto deve essersi ispirato chi ha cominciato a ragionare in queste ore di concessione della grazia al Cavaliere, ancora prima che la Cassazione si pronunci e giunga (se mai giungerà) ad una condanna definitiva. Sulla scia di una simile proposta, si potrebbe aprire un filone di iniziative assai interessante. Per esempio: promuovere o bocciare prima dello svolgimento di un esame, oppure dare i risultati del voto ancor prima dello svolgimento della consultazione elettorale (i sondaggisti in realtà ci provano, con alterne fortune). Resta che però, in taluni casi, possono presentarsi serie controindicazioni, se per esempio qualcuno decidesse di attraversare un incrocio ancor prima della comparsa della luce verde.

Gli ambienti del Quirinale, che in via ufficiosa stigmatizzano  duramente «l’analfabetismo» e la «sguaiatezza istituzionale» di chi lascia scoppiare nel dibattito pubblico simili, avventurosissime proposte, autorizzano una buona dose di ironia. In realtà, tirare la Presidenza della Repubblica per la giacchetta, cercare di precostituire soluzioni in un ambito di esclusiva competenza del Capo dello Stato, o più semplicemente mettere le mani avanti per paura di finire male non giova anzitutto al Cavaliere, perché sembra denunciarne una preoccupata insicurezza e suona come una sorta di «excusatio non petita» (cioè di «accusatio manifesta»); non giova in secondo luogo all’istituto della grazia, che non è certo la valvola di sicurezza per i problemi giudiziari di nessuno; e non giova neppure, in terzo luogo, ai rapporti politici presi nel loro insieme, di cui si dovrebbe favorire il rasserenamento, piuttosto che la complicazione. Una proposta del genere, infatti, sbagliata nei modi e nei tempi, non può avere il proposito di trovare una soluzione alla crisi politica in cui il Paese rischia di precipitare in caso di condanna, ma solo quello di rendere più difficile la coabitazione di Pd e Pdl in seno alla maggioranza, dal momento che non è certo cosa di cui i due partiti maggiori possano realmente ragionare. Non lo è perché non spetta loro farlo, e non lo è perché i rispettivi elettorati non ne comprenderebbero il senso, l’opportunità, il merito.

Non sorprende perciò il fatto che, non contento del contributo dato alla scienza, Isaac Asimov sia tornato altre volte sulle proprietà della tiotimolina, per indagare ad esempio le sue «applicazioni micropsichiatriche». Ecco, non vorremmo che la seconda Repubblica stesse ormai sconfinando nella micro o macropsichiatria e avesse perciò bisogno di interessarsi di simili applicazioni. La molecola di Asimov suppone peraltro una capacità di incursione nel futuro di cui quasi nessuno, nella politica di oggi, è capace. È per questo, e solo per questo, che non riesce a tirarci fuori dai problemi del presente. Non ha un orizzonte, una visione, ma è per lo più un’affannosa rincorsa giorno per giorno, e arriva purtroppo un attimo dopo molto più spesso che un attimo prima.

Lo scrittore americano non pensò di affiancare a quel capolavoro di satira scientifica che fu il suo racconto un capolavoro analogo nel campo della satira politica, ma la proposta di grazia avanzata per conto terzi prima della condanna meriterebbe comunque, io temo, tutta la sua considerazione.

(Il Mattino, 13 luglio 2013)

Grillo e la «gente che spara»

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«Non siamo più da tempo una repubblica parlamentare e forse non siamo più una democrazia»: e con queste delicate parole, all’uscita dall’incontro con il Presidente della Repubblica,  Beppe Grillo dice la sua sul ruolo del Parlamento italiano, che gli pare del tutto esautorato. Perciò Napolitano lo dovrebbe sciogliere. Poi va giù duro contro i partiti, che sono «morti», «spariti», e contro i giornali che non si avvedono che il suo Movimento è invece tutt’altra cosa, e dentro il Parlamento, «dentro una architettura fatta per i partiti» il Cinque Stelle non ci sta: è «come mettere un cerchio dentro un quadrato», ha detto, con scarsissimo senso geometrico. Infatti il cerchio dentro un quadrato ci sta e come: si chiama cerchio inscritto (e il quadrato, quadrato circoscritto), come si impara sui banchi della scuola. Ma non è la geometria il terreno più scivoloso delle proposizioni di Grillo.

È la balistica, o forse, più in generale, l’arte della guerra, vista la dichiarazione seguente: «La gente vuole prendere i fucili, i bastoni e sono io a dire proviamo ancora con i metodi democratici». Sembrerebbe dunque che siamo nelle mani di un avverbio, di un «ancora» a cui è sospeso un ultimo periodo di prova. Poi, più nulla fermerà bastoni e fucili.

Ora, questo genere di dichiarazioni non risuonano per la prima volta. La gente aveva i fucili in spalla già molti anni fa, quando a tuonare era Umberto Bossi, e i bergamaschi pronti a dissotterrare le armi erano trecentomila, secondo la prudente stima del leader. Era, quello, il primissimo tempo della seconda Repubblica, quando la Lega poteva ancora apparire a taluno un agente radicale di cambiamento. (E quando per la verità, c’era già chi diceva un’altra cosa che ha ripetuto ieri Grillo: «io potevo starmene a casa e godermi i miei soldi», ha detto, infatti, e non è il primo che, pur avendo i soldi, ha deciso di scendere in campo).

Poi però s’è visto com’è andata: di cambiamenti radicali ce ne sono stati assai pochi, e la scassata repubblica italiana ha retto all’urto del furente popolo della Lega. Il cerchio leghista non solo è entrato nel quadrato parlamentare, ma è pure andato al governo, e s’è poi stretto così magicamente attorno al suo leader da soffocarlo, segnandone la malinconica fine. A giudicare dagli ultimi risultati amministrativi, è difficile ipotizzare che la Lega ritroverà presto la sua forma primeva.

Insegna qualcosa questa storia di cerchi e di quadrati? Forse sì. Forse Grillo ne può trarre l’insegnamento più drastico: che provare «ancora» con metodi democratici, costituzionalizzare la protesta, parlamentarizzare il confronto politico rischia di snaturare il movimento, e non c’è dubbio che nei toni di certe sue dichiarazioni si avverte anche qualcosa del genere. Ma come si concilierebbe una simile posizione intransigente con il bonario profilo dei «cittadini» entrati in Parlamento, con la presenza nelle Camere, il lavoro in commissione, e, oggi, l’incontro con il Capo dello Stato? Non si concilia. Quell’avverbio, l’«ancora» usato da Grillo, è non solo il tempo in cui opera il Movimento Cinque Stelle ma, più in generale, il tempo in cui si svolge l’azione politica. Anche Grillo dovrà farsene una ragione. E però quella ragione vale quanto una contraddizione, come quel cerchio che entra malvolentieri nel quadrato.

Perciò Grillo cerca, per quanto può e finché può, di lucrare sulla protesta che monta: agitarla ed usarla, più che spegnerla. Per questo alza i toni, minaccia secessioni dal Parlamento, esaspera una contrapposizione fra loro, le All Stars, e il resto del mondo. Come se spazzare via Parlamento e partiti trasformasse di colpo  il paese in macerie che Grillo descrive in un giardino incantato.  Naturalmente, un simile gioco non sarebbe possibile, se la crisi non si fosse rivelata più lunga di un conflitto mondiale, e se non fosse così incerta la risposta da parte dei partiti e delle istituzioni. In una simile congiuntura, l’elettorato si è infatti fortemente radicalizzato, e un’accentuata volatilità del voto e delle opinioni stenta a trovare composizione credibile in forme politiche, in compagini istituzionali. Certo però non è quest’ultima l’impresa alla quale Grillo intende dedicarsi. Non si tratta per lui di farsi interprete della protesta, ma di esserne il «megafono», il «portavoce». L’interprete, infatti, media, compone, collega: si interpone anche, se occorre. Il megafono invece rilancia, amplifica, e con la sua voce copre tutte le altre.

Finché dura, però. Finché non si compie la vecchia profezia: non quella dei cerchi che, volenti o nolenti, muoiono quadrati, ma quella della storia che, quando si ripete, si ripete in farsa.

(Il Mattino, 11 luglio 2013)