Archivi del giorno: luglio 23, 2013

Tra politica e magistratura

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Ora che l’indagine sulla Coppa America porta all’iscrizione nel registro degli indagati di Luigi De Magistris, attuale sindaco di Napoli, Luigi Cesaro, Presidente della Provincia all’epoca dei fatti, e  Stefano Caldoro, attuale governatore della Campania, è doveroso porre almeno una domanda circa, ad un tempo, i limiti dell’azione giudiziaria, l’autonomia e la responsabilità della politica, la retta cura dell’ordine pubblico. La domanda non riguarda l’ipotesi di reato, non entra nel merito dei fatti, da tempo sotto la lente della magistratura, neppure chiede di allentare minimamente i controlli penali sull’attività amministrativa di questo o quell’Ente. Ma il rispetto per l’indipendenza della magistratura, la fiducia non retorica nel suo operato e la convinzione che l’osservanza delle leggi sia un prerequisito fondamentale della vita democratica non possono spingersi fino al «sacrificium intellectus». Nessuna rinuncia all’esercizio della critica: l’intelletto, la facoltà di ragionare non possono essere provvisoriamente sospese o inibite da un avviso di garanzia. L’opinione pubblica ha anzi il diritto, oltre che il dovere, di guardare con seria preoccupazione alla piega che hanno preso gli eventi, e di interrogarsi ad alta voce intorno alle conseguenze di un’iniziativa giudiziaria che pone «sub judice», tutti insieme, tutti in un colpo solo, i massimi vertici dell’Amministrazione comunale, provinciale, regionale. Perché le conseguenze trascendono il caso specifico, e investono in generale le possibilità e il senso stesso dell’attività politica, così come può dispiegarsi In occasione di un evento di risonanza internazionale, che ha portato Napoli sotto i riflettori del mondo intero. In quella occasione, Comune, Provincia e Regione si sono mosse d’intesa, per individuare nell’Unione industriale guidata da Paolo Graziano, cioè nel più importante e rappresentativo soggetto imprenditoriale del territorio, il partner necessario per assicurare il buon esito dell’operazione. Vedremo quale seguito avrà questa iniziativa giudiziaria, che ipotizza una turbativa d’asta là dove c’era un accordo raggiunto tra, da un parte, gli enti locali, e, dall’altra, l’ente confindustriale campano, ma non ci si può non chiedere se non sia in questo caso la forma stessa dell’azione politica, la sua possibilità di entrare in relazione con settori larghi della società, con i corpi intermedi, con le rappresentanze di categoria, ad essere tenuta sotto scacco e ostacolata nel suo svolgimento.

Nessuno, sia chiaro, contesta la legittimità delle determinazioni assunte sin qui dalla Procura. Le contestazioni giuridiche sono materia di avvocati, prendono la strada dei ricorsi, delle eccezioni e delle controdeduzioni. Ma le obiezioni sono un’altra cosa, appartengono ad un altro campo, quello più prezioso – ed anzi essenziale in democrazia – della discussione pubblica. Che in questo caso deve essere il più possibile avvertita, sollecita e attenta, perché in questione è non solo la definizione del campo e delle modalità in cui si esercita l’azione amministrativa, ma anche il senso stesso della rappresentanza democratica.  Forte è infatti la preoccupazione che simili iniziative frustino in ogni amministratore pubblico il coraggio dell’intrapresa, l’assunzione di responsabilità per gli atti di governo di una collettività, la volontà stessa di agire. Se ci volgiamo attorno, vediamo ovunque prevalere l’inazione, l’inerzia, il rinvio: non è possibile che l’unica azione che abbia energico corso e squillante autonomia, in questo paese, sia l’azione penale. Né è possibile che questo corso prenda a volte strade ben larghe e diritte, altre volte invece lente e tortuose. Non solo, ma di fronte a un colpo così fragoroso, che non fa meno clamore per il fatto che è solo un primo passo e un (cosiddetto) «atto dovuto», si sarebbe forse potuto sperare che fosse preso in maniera più collegiale, anche a tutela stessa dell’operato dei singoli magistrati. In casi del genere, infatti, non sono mai abbastanza le rassicurazioni circa l’assoluta assenza di qualunque volontà di interferire con il normale corso dell’attività politica. Speriamo dunque che ne verranno, di qui in avanti, di simili assicurazioni, non per il bene di una parte soltanto ma per il riguardo dovuto ad una corretta dialettica fra i poteri e le istituzioni democratiche.

(Il Mattino, 23 luglio 2013)

Se gli alieni fossero tra noi

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Rovesciamo la domanda. Anziché chiederci se esistano gli alieni, domandiamoci piuttosto perché mai non dovrebbero esistere. Così saremo meglio disposti ad accogliere le sconcertanti rivelazioni dell’ormai ottantaduenne Edgar Mitchell, uno della sporca dozzina di astronauti che ha messo piede sul suolo lunare e che, certo, sulla luna di alieni non ne ha visti, ma li ha visti a terra, sul suolo patrio. O per meglio dire: ha incontrato e visto chi li ha visti. Anzi nemmeno: ha visto chi ha incontrato quelli che hanno visto «le bare di dimensioni minuscole per contenere i corpi degli alieni recuperati». Una catena di testimoni un po’ lunga, e però resta che siamo dinanzi ad un altro caso di sepolcro vuoto, dal momento che i testimoni primi di questa catena i corpi veri e propri («veri e propri» si fa per dire) non li hanno visti: un po’ di fede nelle parole di Edgar Mitchell, perciò, ci vuole.

(L’Unità, 21 luglio 2013)

Il governo Letta

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Una condizione necessaria non è una condizione sufficiente. Questa piccola distinzione logica è quanto mai preziosa quando si ha da fare con un governo di necessità. Un governo di necessità non è un governo sufficiente.

Semplicemente: non basta. Non fa quel che deve fare e non può durare. E le fibrillazioni di questi giorni, i sussulti e le polemiche, i casi che settimanalmente occupano la scena e impongono continui aggiustamenti e nuovi posizionamenti ai partiti che compongono la maggioranza (o, a volte, anche solo a pezzi di quei partiti), non aiutano la navigazione dell’esecutivo. Non consentono di dispiegare un’azione politica efficace.

Al momento del varo del governo, Enrico Letta ha disegnato comprensibilmente un orizzonte temporale limitato per la realizzazione di un programma breve e incisivo, in grado di affrontare i nodi strutturali della crisi politica, economica e istituzionale del Paese.

Naturalmente, a norma di costituzione non esiste un governo a termine. La fiducia del Parlamento non è affatto una fiducia a tempo. E tuttavia le condizioni politiche del tutto sui generis in cui l’Italia si è ritrovata all’indomani delle elezioni, in mancanza di una maggioranza stabile in entrambi i rami del Parlamento, hanno reso necessaria l’adozione di una formula politica inedita per il nostro Paese, e soprattutto una chiara indicazione degli obiettivi programmatici dell’azione di governo, sia sul terreno economico che sul terreno istituzionale ed elettorale. Per quegli obiettivi Letta ha dato un preciso limite temporale: diciotto mesi. Ma un anno e mezzo non può trascorrere nella paralisi, nel rinvio o nel temporeggiamento. Non è, insomma, il tempo che le forze politiche si sono date per attutire, invece di risolvere concretamente, nell’attività di governo, la crisi di legittimazione che le investe in pieno.

Che il governo delle larghe intese richiedesse, per l’appunto, un’intesa tra forze eterogenee e distanti era noto fin dal giorno del suo insediamento. Che questa distanza dovesse però essere superata, o almeno accorciata perché il governo potesse realizzare un programma riformatore era altrettanto noto. Che incidenti di percorso, casi spinosi e decisioni non facili avrebbero fatto la loro comparsa lungo la navigazione del governo era pure questo, se non proprio noto, ampiamente prevedibile. Così sarà anche in futuro.

Ma la scommessa politica da cui nasce il governo Letta non può consistere nella maniera in cui scansare di volta in volta le mine che trova lungo il suo cammino. La sua missione non può consistere semplicemente nell’evitare, nel rinviare o nel sospendere. Vi sono infatti due modi per proseguire, di qui in avanti: uno consiste nel «tirare a campare», come avrebbe detto Andreotti, per non «tirare le cuoia». Consiste cioè nell’accettare il gioco dei condizionamenti reciproci e non compiere nessun passo che scontenti l’una o l’altra parte politica. In questo modo, però, la spinta propulsiva dell’esecutivo si esaurisce ancor prima di cominciare. L’altro consiste invece nello sfidarle entrambe, nello strappare tanto al Pd quanto il Pd il consenso su scelte autenticamente riformatrici, che proprio grazie al più largo quadro politico che sostiene l’esecutivo possano essere finalmente adottate, in una direzione generale che anche il Presidente Napolitano ha voluto indicare, fin dall’inizio di questo suo secondo settennato.

Ma Pd e Pdl sono gravati da seri problemi interni, di tenuta politica. E c’è il rischio che il governo Letta sia soltanto il tappo perché quei problemi non esplodano, ostaggio di dinamiche che trascendono il suo stesso campo di azione. C’è il rischio che la necessità non sia quella che ha il Paese, ma quella che hanno i partiti che lo sostengono (i partiti, o, di nuovo, pezzi di quei partiti). È una situazione che però il Paese non può permettersi. La necessità deve aguzzare l’ingegno, non accorciare la vista, riducendola di qui al congresso del Pd, o di qui alla prossima decisione di un tribunale o di una corte.

I problemi del Pd e Pdl hanno infatti, sia detto senza infingimenti, nomi e cognomi. Si chiamano Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Che ne siano i protagonisti attivi o semplicemente gli oggetti passivi dei movimenti politici che attraversano i due schieramenti, a Renzi e Berlusconi sembrano legate continuità o discontinuità dell’appoggio al governo dei loro partiti di appartenenza, per  vicende che però non riguardano affatto l’insieme delle riforme attese, ma percorsi politici e personali non necessariamente convergenti con l’agenda che questo Paese ha bisogno di seguire.

I tempi della politica sono sempre un incastro tra vicende di breve e di lungo periodo, ambizioni personali e più ampi progetti collettivi. Se però un governo non è in grado di dettare quei tempi, di costringerli nei cardini della propria azione, allora è inevitabile che quel governo, e in situazioni di crisi acuta persino il Paese tutto, rischino di finire fuori sesto. È un rischio che non possiamo e non vorremmo correre

(Il Mattino, 20 luglio 2013)